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Aria nuova a Washington, le lobby già cambiano bandiera

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Sappiamo che era inevitabile, che era previsto e che ha anche un aspetto molto "umano". Ma certo sorprende la rapidità con cui Washington, crocevia degli affari e della politica, si sta adattando al nuovo clima politico postelettorale. I repubblicani sono out, i democratici sono in.

Le roccaforti istituzionali della destra salutano il nuovo corso: dopo aver sborsato 30 milioni di dollari nella campagna antiObama, la Camera di commercio, in pratica l’equivalente della Confindustria, si augura ora di avere "buone relazioni" con la Casa Bianca. Migliaia di persone rispolverano vecchie amicizie, contattano il transition team di Chicago e inviano i loro curriculum vitae per approfittare dello spoils system che, anche senza gli eccessi di una volta, imporrà un ricambio a ogni livello della struttura del potere.

Il ventoObama soffia anche su K Street, la via a ridosso della Casa Bianca che ospita i quartieri generali delle lobby più influenti e ne è diventata il simbolo. Su commissione di industrie, associazioni e persino governi stranieri, le lobby cercano di influenzare il governo e il Congresso. E’ un business che vale sui 3 miliardi di dollari, alimenta una grossa fetta dell’economia washingtoniana e che, almeno in teoria, deve sottostare a norme molto rigide: i lobbyisti hanno l’obbligo di iscriversi a un apposito registro e di presentare un rapporto semestrale sui contatti che hanno avuto con i parlamentari. Ma come dimostrano i numerosi scandali degli ultimi anni, da Jack Abramoff al senatore dell’Alaska Ted Stevens, le lobby usano ogni mezzo (anche illecito) per aggiudicarsi un contratto, inserire in una legge un articolo clientelare o semplicemente conquistare un filo diretto con le stanze dei bottoni.

Negli ultimi otto anni le lobby erano per lo più guidate da esponenti repubblicani che vantavano stretti rapporti con l’entourage di George W. Bush. Ma con l’arrivo di Barack Obama a Washington e il rafforzamento della maggioranza democratica al Congresso il business cambia pelle.
La Lockheed Martin, che è la maggiore beneficiaria dei contratti del Pentagono, ha appena scelto come capo lobbyista Greg Dahlberg, exsottosegretario alla Difesa ai tempi di Bill Clinton, che sostituisce il repubblicano Brian Dailey. Stessa storia alla Boeing e alla Comcast, il colosso delle telecomunicazioni.E intanto una delle società più attive nel lobbying e di chiaro stampo repubblicano, la Bgr Holdings, si è comprata la Westin Rinehart, una ditta concorrente che ha ottime credenziali democratiche. "Dovevamo rispondere alla domanda dei nostri clienti", ha spiegato il presidente della Bgr Ed Rogers.
Obama si rende conto del pericolo dei lobbyisti in una fase in cui le nuove riforme e i miliardi di dollari per stimolare l’economia attirano interessi di ogni tipo.
Attraverso il suo braccio destro David Axelrod, il presidente in pectore ha fatto sapere che ci saranno nuove regole: nessun lobbyista, ad esempio, sarà assunto dalla nuova amministrazione per occuparsi degli stessi dossier su cui ha lavorato negli ultimi due anni. E nessuno potrà lasciare il governo per andare a lavorare subito in una società di lobbying.

Ma al di là delle buone intenzioni del primo presidente afroamericano sarà difficile arginare un business che ha radici così profonde nella cultura politica della capitale.

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