(Matteo Borghi) Quando sentiamo parlare di lobby ci viene subito in mente qualcosa di oscuro, poco chiaro, ai limiti della legalità. Eppure in un grande Paese come gli Stati Uniti d’America, le lobbies sono parte integrante del sistema democratico. Ne abbiamo parlato con Howard Segermark, uno dei più importanti lobbisti di Washington – è partner della Patten&Associates, un colosso nel mondo del lobbismo (in passato è stato collaboratore di Arthur Laffer, l’economista che suggerì a Reagan il piano di riduzione delle tasse del 1981) – che abbiamo avuto l’onore di incontrare a Milano nel corso di un incontro organizzato dal Columbia Institute diretto dall’amico Marco Respinti. Durante l’ora e mezza di lezione – dal titolo programmatico Lobbying, like sex, it’s not always immoral – Segermark ci ha spiegato come funziona dalle parti di Washington.
Anzitutto è bene sapere che in America quello delle lobby è un mestiere regolato in modo preciso dalla legge. Ognuno, per esercitare deve iscriversi a un apposito registro: nella capitale degli States sono in 14mila per un giro d’affari di 3,2 miliardi di dollari, tutti tracciati. Come agiscono dunque i lobbisti? Denaro e i regali per i politici rientrano, ovviamente, fra le attività illegali. Per questo fanno, piuttosto, azioni di advocacy: informano i politici della posizione che vorrebbero essi sostenessero in Congresso (to advocate, in inglese significa difendere, propugnare), incoraggiandoli a farlo attraverso alcuni sistemi. Anzitutto commissionando una serie di sondaggi per sondare la posizione degli elettori (se molti sono favorevoli il parlamentare sarà più incentivato a proporre qualcosa in parlamento), organizzando incontri sul tema e facendo pubblicità su stampa e riviste specialistiche. Poi si può agire sui contributi della campagna elettorale: è noto che i politici, negli Usa, sono sostenuti dalle lobby che chiedono loro sostegno su determinate tematiche. Nulla di così scandaloso come si potrebbe pensare. Di certo meglio dell’Italia della Prima Repubblica, con la sua Tangentopoli occulta, e della Seconda Repubblica coi suoi rimborsi elettorali di cui si sono avvantaggiati loschi soggetti del calibro di Franco Fiorito e Renzo “il Trota” Bossi.
Anche perché dobbiamo chiarirci su una cosa: le lobby non sono solo quelle delle armi o del petrolio. Certo la National Rifle Association, con i suoi 5 milioni di iscritti, è molto potente ma esistono anche associazioni con scopi umanitari e di difesa del territorio: fondazioni culturali, associazioni benefiche e di lotta alle malattie (come la American Cancer Society) o semplici comitati di cittadini (Citizens for Tax Justice). Costoro si rivolgono a società come la Patten&Associates in grado di influenzare, a loro vantaggio, i politici di Washington.
Si tratta di un sistema che – secondo Segermark – è in grado di «limitare il potere di un Leviatano sempre più grande». Da liberista coerente Segermark ha una sua visione specifica: «Io credo che la lobby possa essere morale o immorale, dipende da come la si intende: morale quando serve a promuovere libertà e concorrenza, immorale quando punta ad ottenere benefici dallo Stato, limitando la libertà altrui». Il lobbismo serve, quindi, a garantire i diritti individuali, minacciati dallo Stato centrale: del resto – come recita il motto della Patten – «se non hai una prenotazione al tavolo (dei potenti), probabilmente ti ritroverai a far parte del menu».
Fonte: L'Intraprendente


































