Le lobby affilano le armi e si attrezzano per sbarcare in Parlamento. L’appuntamento è per la metà di settembre, quando il Senato inizierà a discutere il disegno di legge sulle liberalizzazioni, che ha avuto il via libera della Camera sotto il fuoco di fila dei gruppi di pressione.
Il testo uscito da Montecitorio ha fatto storcere il naso a molti difensori della deregolamentazioni. «Hanno vinto le lobby», è stato il refrain ripetuto anche da alcuni ministri e da presidenti di authority. Tanto che, secondo il presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, bisognerebbe «immaginare una sorta di business plan delle liberalizzazioni che deve definitivamente procedere senza cedere alle pressioni delle lobby, che in questa fase sembrano essersi fatte più forti ed efficaci». Sulla stessa lunghezza d’onda il commissario per la privacy, Mauro Paissan: «Attorno al disegno di legge Bersani sulle liberalizzazioni», ha criticato l’ex deputato dei Verdi, «Parlamento e governo sono apparsi alla mercé di lobby, corporazioni e categorie, ognuna delle quali ha rosicchiato un articolo o un comma a proprio beneficio. Il riferimento è ai tassisti, ai notai, al pubblico registro automobilistico, alle banche, ai benzinai, ai farmacisti e ad altri ancora». Milano Finanza ha così provato a verificare numeri, metodi e obiettivi degli uomini che, all’interno di aziende e associazioni di categoria, si occupano per professione di relazioni istituzionali.
Anzitutto, quanto guadagnano i lobbisti e qual è il giro d’affari complessivo? Alcuni dati sono stati elaborati da Franco Spicciariello, Government Affairs Manager di Microsoft Italia e organizzatore del primo master in relazioni istituzionali presso l’università privata Lumsa: «Se negli Stati Uniti la spesa totale in attività di lobbying è passata da 1,44 miliardi di dollari del 1998 a 2,2 miliardi nel 2005, quella europea si aggira oggi tra 750 milioni e 1 miliardo di euro l’anno.In Italia mancano dati ufficiali,ma credo che per il lobbying in senso stretto possiamo stimare un valore intorno al 10% di quello europeo». Spicciariello, che anima anche il sito lobbyingitalia.com ed è autore con Emanuele Calvario del libro «Introduzione alle relazioni istituzionali », ha calcolato che gli stipendi dei lobbisti in Italia oscillano fra 35 mila e 350 mila euro lordi, a seconda dei ruoli ricoperti. La professione si evolve. Fino a circa 10 anni fa più che il lobbista esisteva la figura del faccendiere, il brasseur d’affaires, che prendeva sottobraccio il deputato o il ministro per inserire qualche comma favorevole in una legge o in un decreto.
Il punto di svolta, secondo Paolo Zanetto, fondatore e partner della Cattaneo Zanetto & C., società specializzata in public affairs e relazioni istituzionali, c’è stato con Mani pulite: «Con l’inchiesta giudiziaria, l’attività del lobbista ha subito una trasformazione radicale. Non più uomo di entrature, amico del politico di grido, bensì professionista in grado di analizzare lo scenario del decision making, di individuare gli interlocutori rilevanti e di spiegare loro tutte le possibili conseguenze gradite o sgradite di un provvedimento. In particolare, quando si tratta della Finanziaria».
Da settimane Palazzo Chigi è al lavoro per regolamentare il settore. Gli uomini più vicini al premier Romano Prodi puntano a un provvedimento che ricalcherebbe le legislazioni sui gruppi di pressione che sono in vigore in altri stati della Ue e al Parlamento europeo. L’articolato, ancora in corso di elaborazione, prevederebbe sia obblighi che diritti per le lobby. Da un lato ci sarà per esempio l’obbligo di trasparenza per i gruppi di pressione, con l’iscrizione in un registro apposito per poter entrare in contatto con i membri del governo o del Parlamento. Dall’altro ci saranno i diritti, come quello di parlare con il politico. Poi tutti i contatti saranno indicati nel «registro ». In questo modo, secondo le intenzioni che filtrano da ambienti dalla presidenza del consiglio, si metteranno ordine e chiarezza in relazioni spesso opache. Il disegno di legge scaturirà a livello tecnico da un gruppo di lavoro costituito dal ministro per l’attuazione del programma, Giulio Santagata, di stretta intesa con Prodi. L’organismo ha coinvolto finora, per pareri e opinioni, una serie di aziende, attraverso audizioni e questionari. In linea di massima, sottolineano fonti di Palazzo Chigi, tutte si sarebbero dichiarate a favore della normativa. Il lavoro della commissione governativa di esperti sembra agli sgoccioli. L’argomento viene affrontato anche da due proposte legislative: la prima, che vede adesioni bipartisan, ha come primo firmatario Francesco Colucci di Forza Italia; la seconda è d’iniziativa di Pino Pisicchio (Italia dei Valori).Mentre quella di Colucci ha un impianto snello, con la previsione di registri pubblici cui i lobbisti potranno iscriversi alla Camera e al Senato, la proposta di legge di Pisicchio prevede per i gruppi di pressione anche una relazione semestrale sulla loro attività, un meccanismo sanzionatorio in caso di violazioni e una regolarizzazione dei rapporti con le strutture di vertice dei ministeri. La disponibilità che Palazzo Chigi avrebbe ricevuto dalle aziende non collima, però, con quella di molti lobbisti che nutrono in particolare dubbi sull’opportunità e l’efficacia dell’istituzione di un registro pubblico. Così come le norme approvate dalle sole due regioni che hanno regolato il settore, ossia Toscana e Molise, sono criticate dai lobbisti. «Non sembrano adeguate», rileva Spicciariello, « perché identificano le lobby esclusivamente con le realtà di tipo associativo, e le aziende sono di fatto tagliate fuori». «A questo punto a livello nazionale sarebbe preferibile un’autoregolazione », è stata la conclusione finale di un recente seminario tra addetti ai lavori per la presentazione del libro «Fare lobby» di Alberto Cattaneo e Paolo Zanetto.
Michele Arnese - Milano Finanza



































