Quanto può valere per un’azienda o una categoria un emendamento alla Finanziaria? E la conquista di una postazione nella battaglia al Senato contro il terzo pacchetto di liberalizzazioni firmato Bersani?
Visto lo sviluppo dell’attività di lobbying in Italia, potrebbe rispondere anche un bambino. In 5 anni la domanda di professionisti specializzati è cresciuta almeno del 60 per cento. Alle università di Roma e Camerino si offrono i primi master. E il mercato crea almeno 10 mila posti di lavoro. Eppure, diversamente da quanto avviene negli Stati Uniti o a Bruxelles, i lobbisti non hanno trovato ancora una regolamentazione.
Dopo una ventina di progetti legislativi andati in fumo negli ultimi dieci anni, adesso ci prova il ministro per l’Attuazione del programma Giulio Santagata, firmatario del primo disegno di legge di ispirazione governativa che, tenuta del governo permettendo, dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri il 20 di ottobre (il giorno della marcia della sinistra radicale contro il pacchetto welfare).
Due i principi cardine: riconoscimento del diritto all’attività di lobbying e trasparenza nei contatti. “Pensiamo a un registro in cui le autorità dovranno comunicare i lobbisti con cui sono entrati in contatto prima del processo legislativo” spiega il capo di gabinetto Michele Corradino. “Sancire il diritto di lobbying servirà a far cadere l’aura negativa che circonda questo mestiere”.
Ai lobbisti serve di più. Una patente di professionalità che distingua “mi manda Picone” da chi parla tre lingue e ha frequentato un master alla George Washington University o alla London school of economics. Se ne discute venerdì 5 ottobre a Firenze nel corso di un incontro nazionale organizzato dalla OpenUp, società di lobbying territoriale, e dalla Cattaneo Zanetto & Co, tra le prime cinque società italiane per fatturato. “Il mercato è in forte ascesa. L’attività di lobbying negli Usa ha raggiunto lo scorso anno 1,85 miliardi di euro, in Europa le stime parlano di 750 milioni l’anno” ricorda Paolo Zanetto. “Ma a causa del limbo in cui versa il settore, in Italia non possiamo nemmeno azzardare un conteggio”.
Colpa anche della frammentazione del mercato, fatto di consulenti, dirigenti aziendali e grandi network delle pubbliche relazioni come Burson Marsteller e Weber Shandwick. L’Assorel (l’associazione delle società di pubbliche relazioni) ha calcolato che nel 2006 la sola attività di “public affairs” svolta dalle aziende di pr valeva circa 2,9 milioni, mentre le società indipendenti oltre i 500 mila euro di ricavi sono pochissime. Svetta su tutte la Reti, holding di Claudio Velardi che attraverso la controllata Running ha formato dal 2001 a oggi 150 lobbisti. Quindi la Fb Comunicazione di Fabio Bistoncini, 1 milione di fatturato e prima società nata in Italia. “A dare impulso al mercato sono state le liberalizzazioni che aprendo il mercato hanno sviluppato un’intensa attività di lobbying” spiega Bistoncini. “A questo dobbiamo sommare l’influenza delle normative europee e la necessità delle multinazionali di confrontarsi prima con Bruxelles e poi di declinare l’attività nei vari paesi”. È dalle relazioni istituzionali, dunque, che passa qualsiasi apertura di credito politico o legislativo alle imprese.
Un ruolo delicato. Come dimostrano la squadra della Telecom Italia, che tra Roma e Bruxelles impiega una novantina di persone. E scelte come quella della Fiat e del Gruppo Ras. La prima si è affidata all’ex amministratore delegato del Sole 24 Ore Ernesto Auci. La Ras a Giuseppe Mazzei, già vicedirettore del Tg1 e del Tg2 ed ex responsabile delle relazioni istituzionali tra la Rai e le authority.
http://blog.panorama.it/economia/2007/10/09/lobbisti-sempre-piu-forti-ora-vogliono-la-patente/
Antonella Bersani - Panorama



































