(@FraAngelone) Il destinatario tradizionale di un’azione di lobbying è il policy-maker, il decisore pubblico. Tuttavia, a volte il lobbista è anche policy-maker. No: non si tratta del fenomeno sgradevole o illegale delle ‘porte girevoli’ né di quella pratica che appartiene all’accezione negativa di lobbying e che richiama l'idea di pressioni sotterranee esercitate da poteri forti e occulti.
Perché spesso la definizione generalmente accettata di lobbying si concentra sull’iter legislativo, il procedimento di formazione della norma (lawmaking), ma esiste un’altra attività, quella di rulemaking, che attiene alla regolamentazione di una determinata materia e che può essere altrettanto redditizia per gli interessi che vi prendono parte. È questo l’oggetto di uno studio pubblicato dal Washington Center for Equitable Growth.
Fare lobby conviene soprattutto nei mercati regolamentati
Gli autori dello studio si sono presi la briga di andare a verificare la differenza tra i benefici ricavati da chi ha partecipato al rulemaking in materia bancaria approcciando le agenzie federali (cui è demandato il compito di specificare il contenuto delle leggi) e chi non vi ha partecipato. E quello che è emerso è che c’è una dimensione finora sottostimata nella valutazione circa le differenze di influenza sulle politiche: la competenza o, meglio ancora, la capacità di mobilitare le competenze.
Le agenzie federali statunitensi, secondo quanto prevede l’Administrative Procedures Act, sono tenute a rendere pubblicamente disponibile per un determinato periodo di tempo un regolamento proposto in modo che chiunque, un privato o un rappresentante di un'impresa, possa fornire i propri commenti e suggerimenti. Le agenzie riesaminano tali commenti e li inseriscono nel processo decisionale e nel provvedimento finale. Durante queste vere e proprie consultazioni è plausibile pensare che le istituzioni finanziarie (per restare al caso oggetto dello studio sopra citato) abbiano maggior voce in capitolo per know-how e per possibilità di spesa utile a mobilitare tale know-how. Questi strumenti, non lo scopriamo oggi, danno a tanti la possibilità di partecipare, ma nulla possono a fronte di un evidente gap di competenze tra chi vi prende parte.
Un gap che è economico in partenza e al traguardo. Le imprese pensano che ci sia un qualche vantaggio finanziario da trarre dalla partecipazione al processo normativo, altrimenti non lo farebbero. E l’expertise di cui dispongono, la capacità che esse hanno (tramite i loro uffici legal and regulatory affairs) di entrare nel dettaglio della regolamentazione, delle loro ricadute negative e positive, solleva il legittimo dubbio che il processo di rulemaking non sia altro che l’ennesimo canale attraverso cui influenzare il processo normativo per servire i propri interessi, non l’interesse pubblico, in barba alla trasparenza. Per di più, lo studio di Carpenter e Libgober ha scoperto alcuni elementi interessanti. Le banche che hanno partecipato alle consultazioni sulle riforme del settore dal 2010 in poi hanno avuto significativi benefici sul mercato azionario rispetto ai loro competitor che sono rimasti silenti.
Il beneficio economico della competenza
Che sia, quindi, la competenza ad influenzare il decisore pubblico non può essere altro che un bene. Che questa competenza sia possibile mobilitarla prevalentemente attraverso fondi disponibili solo ai grandi interessi economici di parte è, ancora, una questione per gli scienziati sociali. Di fatto, la trasparenza delle procedure è un anticorpo importante per garantire la sostanzialità della democrazia e la competenza, la profonda conoscenza dei risvolti possibili della legislazione, non è ancora un disvalore. Del resto, l’attività di lobbying non ha il solo scopo di convincere il decisore pubblico, ma anche quello di informarlo e se per convincerlo lo informa, genera, attraverso un’attività collaterale, un’esternalità positiva.
(Fonte foto: Center for Responsive Politics)








































