In USA sono autorevoli e legittimati, da noi messi alla gogna. Ecco chi sono.
Esplode il caso Vatileaks e il giorno dopo sui giornali spuntano questi titoloni: «Francesca Chaoqui, la lobbista protetta tra feste con i vip e sfide ai potenti» (il Messaggero). E ancora: «Il prete e la lobbista, la strana coppia» (Il Fatto Quotidiano). A Roma i lobbisti, quelli veri, saltano sulle sedie.
«Mia nonna, classe 1925, che ancora legge i giornali mi ha detto preoccupata: ma tu fai quel lavoro lì? Allora è pericoloso. Si può essere arrestati?», ci dice al telefono Franco Spicciariello, fra i soci fondatori di Open Gate Italia, società romana specializzata in attività di public affairs, regolamentazione e comunicazione strategica. «Noi lobbisti di professione passiamo ore a esaminare testi di legge, bozze, emendamenti e tabelle per valutarne l’impatto economico, industriale e sociale per poi spiegarlo a chi rappresentiamo prima e alle istituzioni poi, cercando di evitare o risolvere problemi, di contribuire alla qualità della legislazione. E siamo professionisti che devono presentare le informazioni sempre in maniera reale e veritiera, altrimenti perdiamo credibilità e accesso, senza cui non potremmo più lavorare». I principali interlocutori? «Politici a tutti i livelli, assistenti parlamentari, capi di Gabinetto, eccetera. Inoltre, siamo i primi a chiedere di avere regole chiare affinché il nostro ruolo, legittimo e operato nell’assoluta trasparenza, non venga più confuso con quello ambiguo dei faccendieri».
Spiegare il lavoro di un lobbista, del resto, non è semplice. «Sono tecnici esperti, capaci di spiegare questioni complesse in maniera chiara e interessante», scrisse J. F. Kennedy sul NY Times nel 1956. Stando alla definizione che ne dà il mondo anglosassone, il lobbista è chi cura gli interessi di terzi nei confronti del decisore pubblico. Si definisce invece public affairs l’insieme di attività – dal monitoraggio alle relazioni pubbliche – che possono anche essere supporto all’attività di lobbying. Le PR invece rispondono ad un’esigenza più generale di far conoscere un servizio, un prodotto o un personaggio attraverso i media o diverse attività di relazione e comunicazione.
Ma qui siamo in Italia, mica in America dove la lobby è legittima, regolamentata e radicata nella cultura nazionale. Nel nostro Paese invece le regole ancora mancano e le revolving doors fra grandi aziende e politica continuano a girare pericolosamente: un funzionario del ministero o di un’Autorità può finire a fare il manager o il consulente in una grande azienda il cui mercato di interesse ha contribuito a regolare e viceversa. Mentre all’estero devono passare anche anni prima di fare il salto da una barricata all’altra.
Da noi è ancora tutto fermo: ad aprile la commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama ha infatti adottato il ddl degli ex Movimento 5 Stelle Luis Alberto Orellana e Lorenzo Battista come testo base per disciplinare il fenomeno. Una proposta che prevede, fra le altre cose, l’istituzione di un “Comitato per il monitoraggio della rappresentanza di interessi” presso il segretariato generale della presidenza del Consiglio, più quella di un «Registro pubblico» al quale non potranno iscriversi i condannati in via definitiva per reati contro lo Stato e la pubblica amministrazione. Nulla si è poi mosso, anche perché il Governo non sembra interessato, nonostante gli annunci del passato.
Ma chi sono i lobbisti italiani più influenti oggi? Facendo un rapido sondaggio nei palazzi romani salta subito fuori un elenco di nomi. Da Francesco Delzio di Autostrade, a Franco Brescia per Telecom (di nota osservanza dalemiana, venne portato in Telecom dall’avvocato Guido Rossi, che lo aveva già chiamato a sé durante il commissariamento FIGC post Calciopoli) e Massimo Angelini direttore Public Relations di Wind, da Pasquale Salzano in quota Eni all’ex deputato di Forza Italia Chiara Moroni in Bristol-Myers Squibb nel farmaceutico, passando per Stefano Lucchini, responsabile della direzione centrale International and Regulatory Affairs di Intesa Sanpaolo.
Altre fonti «quotano» Paolo Bruschi per Poste Italiane, Stefano Genovese per Unipol e sempre sul fronte delle compagnie assicurative Simone Bemporad, direttore comunicazione e relazioni esterne del gruppo Generali. Poi ci sono le società di consulenza come Open Gate Italia, molto presente sul tema banda larga e ICT con l’ex capo delle strategie di Wind Laura Rovizzi, o la più “comunicativa” Reti dell’ex consigliere di D’Alema, Claudio Velardi, fino a Comin & Partners di Gianluca Comin. Altri nomi storici sono quelli di Giuliano Frosini per Lottomatica (ora Gtech) o Fabio Bistoncini di FB & Associati che ha pure scritto un libro («Vent’anni da sporco lobbista») ed è stato il primo in Italia a fondare una società di lobbying occupandosi soprattutto di diritto d’autore.
E le multinazionali? C’è Microsoft, dove Pier Luigi Dal Pino, scuola Procter & Gamble, da 15 anni naviga l’industria dell’ICT per conto di Bill Gates ed è diventato un riferimento per tutte le new entry del settore, mentre nel tabacco si scontrano Alessandro Poggiali di Philip Morris, Valerio Forconi di Imperial Tobacco e ultimo arrivato il rutelliano ed ex Finmeccanica Gianluca Ansalone a BAT. Quanto alle quote rosa, ci sono Veronica Pamio di JTI e Maria Laura Cantarelli di Nexive (ex TNT Post), entrambe ex Presidenza del Consiglio e di frequentazioni lettiane, con quest’ultima da anni al fronte «contro» Poste.
Tutti chiedono chiarezza. E trasparenza. Perchè le lobby all’italiana non diventino un paravento o un alibi della politica e la parola lobbista non sia più una parolaccia da mettere in un titolo di giornale.








































