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Lobby 2013: in 10 grandi eventi
Scritto il 2013-12-30 da Gianluca Sgueo su Italia

Il 2013 è stato un anno intenso per le lobby.  I fattori che hanno contribuito a tenere vivo l’interesse sono tanti. C’è sicuramente il dibattito serrato nelle aule d’università e, soprattutto, nei palazzi del potere di tutto il mondo. C’è il racconto dei media, unito agli immancabili scandali politici e istituzionali. C’è stata anche una manciata di campagne di comunicazione, europee e statunitensi, che hanno aiutato a sensibilizzare l’opinione pubblica.

é vero che, facendo un bilancio, le chiacchiere hanno superato la sostanza. La proporzione tra parole spese sul lobbying e traguardi raggiunti segna una prevalenza netta delle prime sui secondi. E così nella classifica dei 10 grandi eventi delle lobby nel 2013 fanno il loro ingresso, oltre ai fatti, le promesse. Vediamoli:

1. Doveroso iniziare dall’Italia. Caso perfetto di promesse mancate. La prima, clamorosa, del governo. Stavolta sembrava fatta, e invece…palla in tribuna. Dopo un Consiglio dei Ministri turbolento (come si verrà a sapere più tardi) e una generica promessa di approfondimento affidata al Ministro Moavero, il tema ha perso appeal dalle parti di Palazzo Chigi, costretto a destreggiarsi tra le (sempre meno) larghe intese. Con il risultato che la tribuna – cioè il Parlamento – ha continuato a pasticciare. Ultimo caso, in ordine di tempo, quello del Movimento a 5 stelle e di Luigi Tivelli, lobbista intercettato e finito nel tritacarne mediatico. Promesse mancate sono venute anche da parte della relazione dei saggi di Napolitano (chiedevano di riformare le lobby, ricordate? Qui il resoconto) e, forse, dell’Unità per la Trasparenza del Ministero delle politiche agricole. Pareva dovesse essere il salvacondotto della trasparenza nelle lobby italiane, ma è stata ricusata dal Ministro in carica e giace sospesa nel limbo delle istituzioni mai morte (in ottima compagnia, peraltro). A consolarci restano soltanto alcuni casi virtuosi a livello regionale. Ma, fatti due conti, sembra proprio che il 2013 delle lobby lo ricorderemo probabilmente solo per il servizio de Le Iene, con il portaborse di spalle che racconta i lobbisti corrotti (Qui) e per la litigata in diretta tra Mentana e Ferrara, con ospite Luigi Bisignani (Qui).

2. Il 2013 si è confermato anno fortunato per la produzione “letteraria” sul tema lobby. Parlo sia di libri leggeri, propensi a dare spazio all’indiscrezione (uno su tutti, italiano ovviamente: L’uomo che sussurrava ai potenti, biografia di Bisignani), sia di libri più seri. Tra questi merita una segnalazione soprattutto Reshaping European Lobbying, di Guegen, voce autorevole in materia.

3. Lobby = soldi = politica. Anche nel 2013 (come sarà probabilmente nel 2014, nel 2015 e nei prossimi venti o trent’anni). Nessun evento particolare qui, solo tante informazioni che aiutano a comporre il puzzle. Soprattutto dagli Stati Uniti (leggi Qui) dove il volume di spesa per sostenere i candidati alle elezioni aumenta vertiginosamente, ma anche in Europa. In Uk ad esempio. A 3 anni dal famoso “Lobby is the next big scandal to happen” ci risiamo: 4 parlamentari, un conservatore ai Comuni e 3 Lord, due laburisti e un unionista nord-irlandese, vengono scoperti con le mani nel sacco. Ne hanno scritto e parlato in molti (Qui una raccolta di fonti di stampa).

4. Se parliamo di soldi, e magari anche di lobby, dobbiamo parlare di corruzione. E anche se, qui come nel punto precedente, non si dice nulla di nuovo, il dibattito è stato molto vivo. Lo è stato sicuramente in Italia, bastonata nell’indice della corruzione di Transparency International (Qui) e nella lenta applicazione delle nuove norme per contrastare il fenomeno (leggi Qui). A proposito di corruzione, anche la Cina ha avuto i suoi seri problemi al riguardo (Qui).

5. Ricorderemo il 2013 perché è stato l’anno in cui si è cominciato a parlare seriamente di riforma del registro europeo dei lobbisti. Strumento inutile in tutti i sensi: per la trasparenza, per la corruzione, per la credibilità della Commissione e del Parlamento. A difenderlo sono rimasti solamente alcuni lobbisti, molti di loro italiani, naturalmente preoccupati dall’idea che l’obbligatorietà possa costringerli a dichiarare per chi lavorano, con quali strumenti e mezzi (che poi è il punto centrale del registro). Peccato però che il dibattito sia ancora al “carissimo amico”. Lo dimostrano le ricerche di BM (Qui) e dell’OCSE (Qui un commento). Sottolineano un dato comune: non c’è affatto visione comune sulle lobby in Europa. Ed è un problema serio.

6. A proposito di riforme. Oltre all’Italia e l’Unione europea c’è anche l’Inghilterra. Entra a pieno diritto nella categoria promesse mancate. Finora si è solo parlato tanto, senza concludere nulla. Qui un reportage.

7. Tornando all’Italia, il 2013 è stato anche l’anno di Destinazione Italia. Al di la di qualche manierismo e di un approccio di grandi visioni (quando ci sarebbe bisogno soprattutto di piglio pratico, come ha ricordato più volte Dario di Vico) è un documento importante. Lo è perché segna il passo per rendere all’Italia la giusta dose di attrazione per gli investitori. E cosa c’entra questo con il lobbismo? C’entra eccome. Attrazione degli investitori significa anzitutto capacità di essere “lobbati” (leggi Qui). A proposito di lobby e mercato, imprendibile il contributo di Paolo Zanetto per l’Istituto Bruno Leoni, che riflette sul tema in modo lucido e con ottime argomentazioni.

8. Il 2013 è stato anche l’anno della democrazia digitale. E quindi, volendo, del cittadino o del no profit, che si fanno lobbisti. Qualcuno penserà che così si mischiano le carte e si fa confusione. Non è così. Il lobbying nel 2013 si è svolto spesso attraverso il supporto di canali digitali di partecipazione, coinvolgendo tante persone, magari in crowdsourcing. Separare nettamente tra partecipazione della società civile e lobbying professionale non ha più senso.

9. Più democrazia (digitale e non) e più trasparenza. é quello che ha chiesto la Sunlight Foundation, creando un apposito gruppo di lavoro per tirare giù le linee guida per disciplinare il lobbying nel mondo. Le linee guida le hanno scritte, ora bisogna vedere chi le applicherà (uno dei buoni propositi per il 2014)

10. Ma il 2013 è stato soprattutto il loro anno: i lobbisti. Com’è giusto che sia. Non solo nel male per fortuna. Anche nel bene. Per esempio per le buone promesse di carriera che si portano dietro (molte delle quali veritiere) o per quelle di rispetto delle pari opportunità (leggi Qui). Chissà che i buoni propositi di questi 12 mesi non si realizzino. C’è da aspettarne altri 12 per scoprirlo. E di sicuro non saranno noiosi.

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Perché i parlamentari si nascondono dietro un nome indefinito che evoca mostri lontani e imprendibili per scaricare le proprie responsabilitàdi Pier Luigi PetrilloEcco, ci risiamo: è colpa delle lobby. Sul Foglio la senatrice Linda Lanzillotta (Pd) ha ammesso perlomeno che le cosiddette lobby avranno sì frenato il disegno di legge Concorrenza, bloccato da un anno in Parlamento, ma anche la flemma della politica ha avuto un ruolo. Effettivamente, non mi risulta che le lobby abbiano occupato il Parlamento, si siano sostituite ai deputati di maggioranza e abbiano votato emendamenti a loro favorevoli. Mi risulta, invece, che siano stati i deputati di maggioranza a presentare emendamenti a favore di certe lobby e a votarli a maggioranza (appunto).Il disegno di legge sulla Concorrenza non è il frutto di una elucubrazione accademica ma la conseguenza naturale, in un sistema democratico, della precisa scelta politica della maggioranza che sostiene il governo; una scelta indirizzata a sostenere taluni ordini, corporazioni (anche micro), settori produttivi del paese in situazione di sostanziale monopolio. Badate bene, si tratta di scelte legittime che qui non si contestano. Ciò che si contesta è che, come al solito, ci si nasconde dietro un dito e quel dito ha un nome indefinito che evoca mostri lontani e imprendibili: le lobby, appunto! E’ colpa delle lobby se non si fanno le liberalizzazioni; colpa delle lobby se il paese ristagna in paludi ottocentesche; sono le lobby a impedire riforme strutturali. Il grande merito del governo Renzi è stato quello di dimostrare che non è così; all’opposto Renzi ha dimostrato che se c’è la volontà politica è possibile superare ogni lobby e fare davvero ciò che si è promesso di fare. Il presidente del Consiglio ha ottenuto ciò che voleva in materia di lavoro, banche, assicurazioni, perfino di riforme costituzionali ed elettorali: ha vinto su lobby temibili e inarrivabili fino a qualche tempo fa, come i sindacati (o i professori di diritto costituzionale, categoria alla quale appartengo). La maggioranza in Parlamento ha dimostrato di poter approvare in poche settimane leggi molto contrastate da talune di queste lobby. Il dato, quindi, è uno solo: in questo caso e in materia di concorrenza e di liberalizzazione, la maggioranza ha deciso da che parte stare, ha espressamente deciso di assecondare talune lobby (quelle dell’immobilismo: dai soliti tassisti agli albergatori confederati) contro altre (quelle dei consumatori, per esempio). Per non ammettere questo dato di fatto, così evidente da sembrare davvero stucchevole ogni polemica sull’articolo di Giavazzi del Corriere di qualche giorno fa, ci si nasconde dietro al consueto paravento: le lobby, queste sconosciute, brutte, sporche e cattive. E per mantenere in vita il paravento, dietro cui la politica si nasconde, non viene approvata alcuna regolamentazione del lobbying: proprio in occasione del ddl Concorrenza, alcuni senatori hanno provato a proporre qualche norma ma sono stati prontamente stoppati. Non possono essere approvate, infatti, norme che rendano trasparente l’azione dei lobbisti perché altrimenti cadrebbero gli altarini e si scoprirebbe ciò che tutti sanno: ovvero che laddove la politica è fragile e mancano indicazioni chiare, i parlamentari si sentono liberi di assecondare le lobby a loro più vicine (magari perché ne finanziano la campagna elettorale) perché sanno che, nell’oscurità che circonda il mondo delle lobby, non sarà mai colpa loro, non dovranno mai rendere conto delle loro scelte a nessun elettore (gli inglesi direbbero accountability). L’assenza di una legge sulle lobby impedisce all’elettore di comprendere cosa c’è davvero dietro l’emendamento presentato dal singolo deputato, quale interesse e chi l’ha redatto; impedisce di sapere chi paga e per cosa. Ma Renzi potrebbe battere un colpo e chiedere conto di taluni voti in Senato che hanno affossato il ddl concorrenza col parere favorevole del rappresentante del Governo, per stupire tutti con uno dei suoi colpi di genio: presentare un maxi emendamento che sostituisce per intero questo feticcio di legge e, in un colpo solo, liberalizzare settori bloccati da secoli e sciogliere così corporazioni così vetuste da essere superate dai fatti (oltre che dal mercato). In ogni caso, in un sistema democratico come il nostro, non sarà mai colpa delle lobby ma della politica (debole, fragile, succube) che le asseconda. di Pier Luigi Petrillo, Professore di Teoria e tecniche del lobbying, Luiss

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Saranno ormai quarant'anni che si parla di regolamentare le lobby. Allora, era la metà degli anni 70, bisognava spiegare cosa significasse quella parola; nel frattempo "lobby" ha fatto a tempo a dilatarsi e insieme a rattrappirsi, comunque moltiplicando i suoi valori d'uso oltre ogni ragionevole significato. In questi casi, anche se il termine suona un po' ricercato, si dice che la lobby, anzi le lobby sono divenute polisemiche. I politici e i giornalisti, categorie per loro natura e vocazione abbastanza orecchianti, adorano le polisemie, specie quando gli lasciano le mani libere - un po' meno la testa, ma è un altro discorso. Può esistere dunque una lobby rosa, nel senso di un gruppo che favorisce gli interessi e il potere delle donne nelle istituzioni e nell'economia: "Emily", il "branco rosa" e così via. Ma anche esiste una agguerrita lobby delle armi, cioè gente che cerca di piazzare mine, cannoni e micidiali sistemi di puntamento in giro per il mondo, soprattutto ai paesi africani, cosa non proprio simpatica. Le aziende dispongono di professionisti ad hoc che battono anche il Parlamento. In una raccolta di vignette su Montecitorio, già alla metà degli anni 80 il disegnatore Vincino raffigurò "il lobbista dell'Aeritalia" che svolazzava per il Transatlantico con delle eliche che gli uscivano dal retro della giacca, come un drone ante litteram. Insomma tante cose diverse. Nell'economia la faccenda è più pacifica che in politica o nella cronaca giudiziaria. Si tratta di tutelare degli interessi, come spiegano benissimo i protagonisti dell'inchiesta di Carmine Saviano. Le Camere sono la palestra, il giacimento, l'arena, la serra, la taverna e il giardino zoologico dei lobbisti. Qualche mese fa i cinquestelle hanno beccato un ex funzionario di Montecitorio che scriveva, al volo e brevi manu, un emendamento per modificare un provvedimento in commissione, e l'hanno fatto cacciare. Hanno poi esposto il suo volto in aula con dei cartelli. Quello, poveretto, ha cercato di sminuire il suo ruolo, pure definendosi "un giuggiolone". Ma ai tempi in cui Marcello Pera presiedeva il Senato, 2005, nel depliant della sua fondazione "Magna Carta" era esplicitamente contemplata l'attività di lobbying; e l'ex presidente della Camera Irene Pivetti, adesso, cosa fa? Semplice, fa lobbying.  Dal che si intuiscono gli effetti non tanto forse della mancata regolamentazione, ma della implicita e magari anche connaturata confusione che reca in sé l'ambiguo tragitto della parola "lobby", nella sua variante "all'italiana". Così alla caduta del governo Berlusconi l'ex ministro Mastella, l'ineffabile, evocò la "lobby ebraica"; ma qualche mese prima, quando alla presidenza della Rai era arrivata Letizia Moratti, venne lanciato un allarme contro la "lobby di San Patrignano", che sarebbe una nota comunità di recupero per tossicodipendenti, ma si disse così per intendere che direttori di rete o dei tg si diventava solo previo assenso della Moratti, appunto, che dell'iniziativa di Vincenzo Muccioli (poi con il figlio e la moglie hanno ferocemente litigato) era e seguita a restare la grande patrona e finanziatrice.  Altre lobby entrate più o meno di straforo nella cronaca: la "lobby di Lotta continua" (ai tempi dei processi Sofri); la "lobby gay" (in Vaticano); la "lobby dei tesorieri di partito" (che continua a bussare a quattrini aggirando leggi e referendum). Si tratta di esempi per lo più negativi. Ma per anni il progetto educativo del cardinal Ruini è stato presentato anche dai suoi fautori come strutturalmente connesso a un'opera di lobbying a favore dei principi irrinunciabili. Bizzarro perciò è il destino dei grimaldelli semantici, sempre sul punto di trasformarsi in piè di porco. Questo, per dire, è un Lele Mora d'annata, già proteso a togliersi dagli impicci: "Io - diceva - non piazzo le starlette nei letti, faccio solo incontrare gente, lobbying, altro che festini!". Era la fine del 2006, poi è finita con qualche anno di galera. Nel frattempo le lobby crescono e si moltiplicano a loro indeterminato piacimento. E ciascuno le consideri un po' come meglio ritiene: se e quando verranno regolamentare, sarà probabilmente troppo tardi. Fonte: Filippo Ceccarelli - Repubblica.it

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Il primo di una serie di approfondimenti su lobby e regolamentazione a cura di Pier Luigi Petrillo, professore associato di Diritto pubblico e docente di Teorie e tecniche di Lobbying Ogni giorno il Presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Renzi, accusa le lobby di fermare lo sviluppo del paese. Prima di lui, l’accusa era stata mossa dai suoi predecessori: Enrico Letta, Mario Monti, Silvio Berlusconi, per limitarci agli ultimi. E con loro anche i Presidenti di Camera e Senato, periodicamente, “urlano” contro le lobby che invadono i palazzi. Eppure non si hanno notizie né di interventi governativi né di interventi parlamentari finalizzati a regolamentare i gruppi di pressione. Ogni giorno si scopre, così, che dietro ai “gufi” che vogliono lasciare immobile il Paese ed impediscono le riforme necessarie, ci sono le lobby, ogni sorta di lobby, con l’effetto che tutto è lobby, perfino i funzionari pubblici: si pensi alle “lobby” dei magistrati (“no alla riduzione delle ferie”), a quella dei dirigenti pubblici (“no alla riduzione degli stipendi”) o perfino a quella dei senatori (“no alla riduzione del Senato”). In questo quadro le lobby continuano ad essere il paravento della politica: basta dire che è colpa delle lobby per scrollarsi di dosso ogni responsabilità. E appare ovvio che se le lobby fossero regolamentate e la loro azione fosse pubblica, ecco che i cittadini scoprirebbero il gioco dello scarica barile: il paravento d’incanto cadrebbe e si scoprirebbe che la colpa di certo immobilismo non sono le lobby ma la politica. LE ULTIME TAPPE DI UN TIMIDO TENTATIVO DI FARE SUL SERIO Rispetto a vent’anni fa, tuttavia, qualche barlume di speranza comincia a vedersi. Nel 2007, durante il secondo governo Prodi, l’allora Ministro per l’attuazione del programma di governo, Giulio Santagata, spronato dal suo capo di gabinetto, il Consigliere di Stato Michele Corradino (ora componente dell’ANAC), fece approvare dal Consiglio dei Ministri il primo e unico disegno di legge in materia d’iniziativa governativa. Qualche mese dopo il governo fu sfiduciato e il testo dimenticato. Nel 2012, sotto il governo Monti, ci riprovò Mario Catania, allora Ministro dell’Agricoltura, istituendo l’obbligo per i lobbisti “agricoli” di iscriversi in un elenco pubblico. La netta contrarietà delle principali organizzazioni di categoria (Coldiretti, Cia, Confagricoltura) fece naufragare l’esperimento. Nel 2013 è il premier Enrico Letta, in prima persona, a farsi promotore di una coerente regolamentazione del lobbying, chiedendo al segretario generale di Palazzo Chigi, Roberto Garofoli, e al sottoscritto, di predisporre una bozza di disegno di legge. Ma il Consiglio dei Ministri, dopo avere approvato i principi della regolamentazione nel maggio 2013, decise di bocciare il testo predisposto, considerandolo troppo stringente. E siamo arrivati al governo Renzi: entro giugno 2014, aveva dichiarato il Premier nel Documento di Economia e Finanza 2014 (DEF), avremo una regolamentazione dei gruppi di pressione. Sono passati 3 mesi da quella scadenza ma non c’è traccia nemmeno di una qualche bozza. Eppur si muove: nel silenzio generale, il Vice Ministro alle Infrastrutture, Riccardo Nencini (forse l’unico a credere davvero all’importanza di questa questione), è riuscito ad inserire nel disegno di legge delega di riforma del codice degli appalti, un principio legato alla trasparenza dei gruppi di pressione; anni luce lontani dalla regolamentazione delle lobby ma almeno è un segnale. E’ ripartito da qui Giovanni Grasso, il giornalista dell‘Avvenire che, venerdì e sabato scorso, ha dedicato sul suo giornale un’inchiesta al rapporto tra politica e gruppi di pressione, invitando il Ministro della Funzione Pubblica, Marianna Madia, a prendere la palla in mano, trattandosi, anzitutto, di una questione di trasparenza della Pubblica Amministrazione (centrale e periferica). MA PER FARE (DAVVERO) SUL SERIO, DA DOVE RIPARTIRE? Ripartiamo dall’inchiesta di Grasso; rileggiamo gli stimoli recenti pervenuti da lobbisti d’eccezione come Gianluca Comin, per anni direttore delle relazioni istituzionali in Enel, o Stefano Lucchini, per anni a capo dell’Eni e ora in Intesa, o le proposte avanzate da Claudio Velardi, Massimo Micucci e l’ottimo gruppo del “Rottamatore”, da Fabio Bistoncini (“vent’anni da sporco lobbista”), da Franco Spicciariello e il suo sito lobbyingitalia.com, da Gianluca Sgueo su Formiche.net, da esperti come Giovanni Galgano e Giuseppe Mazzei de “Il Chiostro”, da studiosi come Maria Cristina Antonucci e Marco Mazzoni, dal collega Alberto Alemanno della New York University, dal gruppo #lobby (purtroppo non più attivo) degli ultimi 7 anni di #VeDrò, da riviste come Percorsi Costituzionali e AGE-Analisi Giuridica dell’Economia e proviamo ad offrire al Legislatore qualche idea su come e per cosa fare sul serio. Fonte: Formiche.net

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