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Democrazia e Lobbying, alla Bocconi, in una Infografica
Scritto il 2013-10-01 da Franco Spicciariello su Italia

Lunedì è iniziato il corso su Lobbying e Democrazia in Bocconi. è una buona notizia. Il fatto che un ateneo scelga di offrire ai propri studenti un percorso di formazione su un tema così attuale (e, paradossalmente, così poco conosciuto) non può che far bene al dibattito.

Peraltro la maggior parte dell’offerta formativa in circolazione ha un taglio professionale: è cioè post-universitaria e finalizzata a formare i futuri professionisti della rappresentanza. Solamente a Roma e Milano ci sono almeno 5 master sul tema lobby e public affairs. Invece sono pochissimi i casi di insegnamenti universitari (o para-universitari, come questo in Bocconi) in cui lo scopo è discutere del tema, spiegandolo agli studenti. Pura teoria, senza l’ossessione della pratica, che in certi casi (e questo è uno di quelli) fa bene.

In tutto 8 lezioni, ciascuna divisa in due parti: la prima dedicata all’esposizione dei temi principali; la seconda destinata all’approfondimento, attraverso la discussione in aula, per elaborare volta per volta una serie di punti utili a costruire le risposte alle domande di fondo del corso.

Le prime 4 lezioni del corso sono dedicate alle regole del lobbying: nel mondo, negli Stati Uniti e in Europa e in Italia (a livello nazionale e locale). Le 3 centrali dedicate agli attori del lobbying: sistema industriale, terzo settore, società civile. L’ultima è dedicata ai lobbisti: come si formano, quanto guadagnano, dove lavorano. é prevista la presenza di 3 ospiti in rappresentanza dell’impresa, della società civile e naturalmente del mondo dei lobbisti (QUI il programma completo).

La prima lezione ha riguardato soprattutto la “scollatura” tra il racconto mediatico delle lobby e la conoscenza reale del tema. La domanda di fondo era: quanto ne sa il “signor Mario Rossi” del lobbying? Molto poco, anche se è convinto del contrario. Il poverino non sa che gran parte delle notizie che ruminano i media hanno il rating C–, spazzatura. Tra questi il famoso servizio de Le Iene (lo trovate QUI), oppure una altrettanto celebre intervista televisiva a un lobbista americano che, a domanda esplicita, risponde “tutti firmano assegni nei confronti dei politici ai parti di Washington”.

Conclusione: la realtà del lobbying è nota a pochi a causa di una narrazione mediatica distorta, e contemporaneamente a causa di una regolazione molto approssimativa e lacunosa. La geografia delle lobby, nel mondo, ci dice che pochi – pochissimi – Paesi hanno introdotto regole sul tema. La maggior parte dei governi sceglie di non regolare affatto il lavoro dei lobbisti, o di regolarlo con norme blande.

E poichè è di chiarezza che c’è bisogno, questa è la prima di una serie di Infografiche esclusive e inedite create appositamente per la lezione.

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Fonte: Gianluca Sgueo - Formiche.net

Perché i parlamentari si nascondono dietro un nome indefinito che evoca mostri lontani e imprendibili per scaricare le proprie responsabilitàdi Pier Luigi PetrilloEcco, ci risiamo: è colpa delle lobby. Sul Foglio la senatrice Linda Lanzillotta (Pd) ha ammesso perlomeno che le cosiddette lobby avranno sì frenato il disegno di legge Concorrenza, bloccato da un anno in Parlamento, ma anche la flemma della politica ha avuto un ruolo. Effettivamente, non mi risulta che le lobby abbiano occupato il Parlamento, si siano sostituite ai deputati di maggioranza e abbiano votato emendamenti a loro favorevoli. Mi risulta, invece, che siano stati i deputati di maggioranza a presentare emendamenti a favore di certe lobby e a votarli a maggioranza (appunto).Il disegno di legge sulla Concorrenza non è il frutto di una elucubrazione accademica ma la conseguenza naturale, in un sistema democratico, della precisa scelta politica della maggioranza che sostiene il governo; una scelta indirizzata a sostenere taluni ordini, corporazioni (anche micro), settori produttivi del paese in situazione di sostanziale monopolio. Badate bene, si tratta di scelte legittime che qui non si contestano. Ciò che si contesta è che, come al solito, ci si nasconde dietro un dito e quel dito ha un nome indefinito che evoca mostri lontani e imprendibili: le lobby, appunto! E’ colpa delle lobby se non si fanno le liberalizzazioni; colpa delle lobby se il paese ristagna in paludi ottocentesche; sono le lobby a impedire riforme strutturali. Il grande merito del governo Renzi è stato quello di dimostrare che non è così; all’opposto Renzi ha dimostrato che se c’è la volontà politica è possibile superare ogni lobby e fare davvero ciò che si è promesso di fare. Il presidente del Consiglio ha ottenuto ciò che voleva in materia di lavoro, banche, assicurazioni, perfino di riforme costituzionali ed elettorali: ha vinto su lobby temibili e inarrivabili fino a qualche tempo fa, come i sindacati (o i professori di diritto costituzionale, categoria alla quale appartengo). La maggioranza in Parlamento ha dimostrato di poter approvare in poche settimane leggi molto contrastate da talune di queste lobby. Il dato, quindi, è uno solo: in questo caso e in materia di concorrenza e di liberalizzazione, la maggioranza ha deciso da che parte stare, ha espressamente deciso di assecondare talune lobby (quelle dell’immobilismo: dai soliti tassisti agli albergatori confederati) contro altre (quelle dei consumatori, per esempio). Per non ammettere questo dato di fatto, così evidente da sembrare davvero stucchevole ogni polemica sull’articolo di Giavazzi del Corriere di qualche giorno fa, ci si nasconde dietro al consueto paravento: le lobby, queste sconosciute, brutte, sporche e cattive. E per mantenere in vita il paravento, dietro cui la politica si nasconde, non viene approvata alcuna regolamentazione del lobbying: proprio in occasione del ddl Concorrenza, alcuni senatori hanno provato a proporre qualche norma ma sono stati prontamente stoppati. Non possono essere approvate, infatti, norme che rendano trasparente l’azione dei lobbisti perché altrimenti cadrebbero gli altarini e si scoprirebbe ciò che tutti sanno: ovvero che laddove la politica è fragile e mancano indicazioni chiare, i parlamentari si sentono liberi di assecondare le lobby a loro più vicine (magari perché ne finanziano la campagna elettorale) perché sanno che, nell’oscurità che circonda il mondo delle lobby, non sarà mai colpa loro, non dovranno mai rendere conto delle loro scelte a nessun elettore (gli inglesi direbbero accountability). L’assenza di una legge sulle lobby impedisce all’elettore di comprendere cosa c’è davvero dietro l’emendamento presentato dal singolo deputato, quale interesse e chi l’ha redatto; impedisce di sapere chi paga e per cosa. Ma Renzi potrebbe battere un colpo e chiedere conto di taluni voti in Senato che hanno affossato il ddl concorrenza col parere favorevole del rappresentante del Governo, per stupire tutti con uno dei suoi colpi di genio: presentare un maxi emendamento che sostituisce per intero questo feticcio di legge e, in un colpo solo, liberalizzare settori bloccati da secoli e sciogliere così corporazioni così vetuste da essere superate dai fatti (oltre che dal mercato). In ogni caso, in un sistema democratico come il nostro, non sarà mai colpa delle lobby ma della politica (debole, fragile, succube) che le asseconda. di Pier Luigi Petrillo, Professore di Teoria e tecniche del lobbying, Luiss

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Saranno ormai quarant'anni che si parla di regolamentare le lobby. Allora, era la metà degli anni 70, bisognava spiegare cosa significasse quella parola; nel frattempo "lobby" ha fatto a tempo a dilatarsi e insieme a rattrappirsi, comunque moltiplicando i suoi valori d'uso oltre ogni ragionevole significato. In questi casi, anche se il termine suona un po' ricercato, si dice che la lobby, anzi le lobby sono divenute polisemiche. I politici e i giornalisti, categorie per loro natura e vocazione abbastanza orecchianti, adorano le polisemie, specie quando gli lasciano le mani libere - un po' meno la testa, ma è un altro discorso. Può esistere dunque una lobby rosa, nel senso di un gruppo che favorisce gli interessi e il potere delle donne nelle istituzioni e nell'economia: "Emily", il "branco rosa" e così via. Ma anche esiste una agguerrita lobby delle armi, cioè gente che cerca di piazzare mine, cannoni e micidiali sistemi di puntamento in giro per il mondo, soprattutto ai paesi africani, cosa non proprio simpatica. Le aziende dispongono di professionisti ad hoc che battono anche il Parlamento. In una raccolta di vignette su Montecitorio, già alla metà degli anni 80 il disegnatore Vincino raffigurò "il lobbista dell'Aeritalia" che svolazzava per il Transatlantico con delle eliche che gli uscivano dal retro della giacca, come un drone ante litteram. Insomma tante cose diverse. Nell'economia la faccenda è più pacifica che in politica o nella cronaca giudiziaria. Si tratta di tutelare degli interessi, come spiegano benissimo i protagonisti dell'inchiesta di Carmine Saviano. Le Camere sono la palestra, il giacimento, l'arena, la serra, la taverna e il giardino zoologico dei lobbisti. Qualche mese fa i cinquestelle hanno beccato un ex funzionario di Montecitorio che scriveva, al volo e brevi manu, un emendamento per modificare un provvedimento in commissione, e l'hanno fatto cacciare. Hanno poi esposto il suo volto in aula con dei cartelli. Quello, poveretto, ha cercato di sminuire il suo ruolo, pure definendosi "un giuggiolone". Ma ai tempi in cui Marcello Pera presiedeva il Senato, 2005, nel depliant della sua fondazione "Magna Carta" era esplicitamente contemplata l'attività di lobbying; e l'ex presidente della Camera Irene Pivetti, adesso, cosa fa? Semplice, fa lobbying.  Dal che si intuiscono gli effetti non tanto forse della mancata regolamentazione, ma della implicita e magari anche connaturata confusione che reca in sé l'ambiguo tragitto della parola "lobby", nella sua variante "all'italiana". Così alla caduta del governo Berlusconi l'ex ministro Mastella, l'ineffabile, evocò la "lobby ebraica"; ma qualche mese prima, quando alla presidenza della Rai era arrivata Letizia Moratti, venne lanciato un allarme contro la "lobby di San Patrignano", che sarebbe una nota comunità di recupero per tossicodipendenti, ma si disse così per intendere che direttori di rete o dei tg si diventava solo previo assenso della Moratti, appunto, che dell'iniziativa di Vincenzo Muccioli (poi con il figlio e la moglie hanno ferocemente litigato) era e seguita a restare la grande patrona e finanziatrice.  Altre lobby entrate più o meno di straforo nella cronaca: la "lobby di Lotta continua" (ai tempi dei processi Sofri); la "lobby gay" (in Vaticano); la "lobby dei tesorieri di partito" (che continua a bussare a quattrini aggirando leggi e referendum). Si tratta di esempi per lo più negativi. Ma per anni il progetto educativo del cardinal Ruini è stato presentato anche dai suoi fautori come strutturalmente connesso a un'opera di lobbying a favore dei principi irrinunciabili. Bizzarro perciò è il destino dei grimaldelli semantici, sempre sul punto di trasformarsi in piè di porco. Questo, per dire, è un Lele Mora d'annata, già proteso a togliersi dagli impicci: "Io - diceva - non piazzo le starlette nei letti, faccio solo incontrare gente, lobbying, altro che festini!". Era la fine del 2006, poi è finita con qualche anno di galera. Nel frattempo le lobby crescono e si moltiplicano a loro indeterminato piacimento. E ciascuno le consideri un po' come meglio ritiene: se e quando verranno regolamentare, sarà probabilmente troppo tardi. Fonte: Filippo Ceccarelli - Repubblica.it

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Transparency International presenta il suo report sulla rappresentanza degli interessi in Italia. Tra dati allarmanti  -  solo l'11% dei rapporti tra politica e "gruppi di pressione" è in chiaro  -  e le proposte per approvare finalmente una legge sul "traffico d'influenze" Ci hanno provato cinquanta volte, dalla nascita della Repubblica a oggi, con altrettanti disegni di legge. Ma non c'è mai stato verso: qualche discussione in commissione, qualche passaggio in Aula. Nulla da fare: il velo che nel nostro Paese copre e protegge il lobbying non è mai stato alzato. E i gruppi di pressione che cercano di orientare l'attività politica, di influire sui processi di formazione delle decisioni pubbliche, si sono sempre mossi nell'ombra, in un'opacità poco tollerabile per le istituzioni democratiche. Parte da questa fotografia "Lobbying e Democrazia. La rappresentanza degli interessi in Italia," il report preparato dalla sezione nostrana di Transparency International, l'associazione che in tutto il mondo lotta contro la corruzione. I numeri e l'etica pubblica. A voler utilizzare la statistica, i dati sono allarmanti: il livello di accesso da parte dei cittadini italiani alle informazioni sui gruppi di pressione è valutato intorno all'11%, nulla. Mentre gli "standard etici" raggiunti nel rapporto tra lobbisti e decisori pubblici arriva al 27%: tre quarti delle loro "frequentazioni" sono fuori dai canoni dell'etica pubblica. E va ancora peggio se ci si sofferma a considerare l'eguaglianza di rappresentanza e partecipazione ai processi decisionali. Qui, altro che democrazia: solo il 22% delle scelte pubbliche riesce a raggiungere, in questo contesto, standard adeguati. Il lobbyng ad personam. Il punto centrale indicato da Transparency International è proprio la mancanza di regolazione, l'assenza di una legge che consenta, per lo meno, di tracciare i binari sul quale far muovere la rappresentanza degli interessi. E se si può parlare, senza pericolo di smentite, di un "caso Italia"  -  siamo quasi gli unici nel mondo occidentale a non avere una legge in materia  -  allo stesso tempo bisogna evitare di confondere ciò che appare da ciò che accade: perché anche se per il nostro ordinamento i lobbisti non esistono, la realtà è diversa: fatta di un lobbying ad personam che troppo spesso, basta ricordare le inchieste su Expo 2015 o sulla P4, sfocia nella totale noncuranza delle leggi e dell'interesse pubblico. Il modello europeo. Basterebbe alzare un attimo gli occhi, verso Bruxelles. Perché in Europa, un elenco dei gruppi di pressione esiste eccome. Si chiama Registro per la Trasparenza, ed è stato adottato nel 2011 dalla Commissione Europea: a ottobre 2014, erano censiti 612 lobbisti italiani. E basta scorrere i nomi per rendersi conto che al "traffico di influenze" partecipano tutti: associazioni, Ong, rappresentanti delle industrie che si occupano di telecomunicazioni, energia, tabacco. Poi le fondazioni bancarie, le aziende farmaceutiche.  Interessi di parte, tutti legittimi: ma che sono costretti, da un vuoto normativo, a muoversi alla luce del sole in Europa ma nell'ombra delle Aule parlamentari italiane. Virtuosi nel deserto. Qualche esempio virtuoso esiste comunque nel nostro Paese. Bisogna abbandonare il livello statale e passare a quello regionale: in Toscana, Molise e Abbruzzo esistono dei registri, in queste regioni il lobbying non è più un'attività che si fa a porte chiuse. Nella consapevolezza che rendere trasparente "chi chiede cosa" aiuta a separare la rappresentanza legittima degli interessi dall'alveo concettuale della corruzione. Insomma, fare una legge è possibile: ad oggi le proposte in questo senso presentate in Parlamento sono nove e lo stesso governo Renzi definisce come una sua priorità la messa a punto di una normativa efficace. Cinque passi per una legge. Infine, le proposte di Transparency International. Si parte dall'istituzione, da parte del governo, di un registro pubblico dei lobbisti, garantito da un'autorità super partes. Poi l'apertura al pubblico del processo legislativo, soprattutto nelle prime fasi, quando vengono raccolte quelle "informazioni" che poi orienteranno l'iter delle leggi. Poi, l'obbligo per i parlamentari di rendere pubblici i dettagli dei loro incontri con i lobbisti: basta bar e ristoranti al centro di Roma o le sale d'attesa degli aeroporti. Ancora: l'adozione del Freedom of Information Act e la regolamentazione del "Revolving Doors": impedire, per un determinato periodo di tempo, che chi ha fatto parte delle istituzioni possa poi passare senza soluzione di continuità alla rappresentanza di interessi particolari. Sfide difficili, ma alla portata di una democrazia moderna e matura. Ovvero quella che vuole evitare che i gruppi di pressione diventino il fattore dominante del sistema politico. Fonte: Carmine Saviano - Repubblica.it

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