La notizia è che non c'è notizia. Sui due provvedimenti che il Consiglio dei ministri aveva in calendario? L'abolizione delle Province, la regolamentazione delle lobby? E' salpato il primo, è rimasto all'ancora il secondo. Ma il primo sarebbe salpato in ogni caso, giacché sulle Province dovrà esercitarsi la revisione costituzionale complessiva cui s'accinge il Parlamento; e semmai c'è il rischio che i due procedimenti s'intralcino a vicenda.
Quanto alle lobby, dopo 54 progetti di legge andati in fumo, avremmo preferito il sapore dell'arrosto. Invece il governo, pur avendo un testo bell'e pronto, ha chiesto al ministro Moavero un esame comparato con gli altri Paesi europei. Ma perché, non l'avevano già fatto prima di scrivere le norme? E non è bastato l'esame comparato sugli stipendi dei parlamentari (nel 2011), una scusa per non cavare poi un ragno dal buco?
Diciamolo: la non notizia è una cattiva notizia. Per ragioni etiche, ma se vogliamo anche semantiche. Difatti lobby, in inglese, significa corridoio. Un ambiente contiguo alle stanze del potere, dove i lobbisti trasmettono le loro richieste ai signori del potere. Nel mondo anglosassone, però, i corridoi sono illuminati da finestre, insomma aperti al controllo della pubblica opinione. Perché così vuole la legge, e infatti negli Usa il Lobbying Act risale al 1946, e viene aggiornato di continuo.
Come d'altronde in Canada, Israele, Svizzera, Germania e varie altre contrade. In Italia, viceversa, non c'è legge, sicché ogni incontro si trasforma in un appuntamento clandestino. Come quello fra due amanti, o magari fra due ladri.Ma adesso basta, bisogna darci un taglio. Anzitutto nell'interesse dei lobbisti, che a certe condizioni svolgono una funzione utile per lo stesso legislatore.
Come diceva J. F. Kennedy, un lobbista mi fa capire in dieci minuti questioni che i miei assistenti spiegherebbero in tre giorni. In secondo luogo perché senza trasparenza non c'è democrazia. E l'Italia dei mercati sotterranei, dei poteri trasversali, della P4 che segue la P3 che segue la P2, è ben poco democratica.
In terzo luogo per elidere il sospetto dalla nostra cittadella pubblica, come succede quando un ex ministro si trasferisce il giorno dopo nella tolda di comando di un'azienda, o quando un servizio delle «Iene» denuncia che le multinazionali pagano i parlamentari.
E in quarto luogo, sì: per restaurare l'autorità perduta dello Stato. Ce n'è bisogno proprio adesso, mentre il ministro Cancellieri segnala l'azione paralizzante delle lobby, mentre il Consiglio nazionale forense e altri organismi dell'Avvocatura le rispondono esigendo pubbliche scuse.
C'è un che di sbilanciato nel rapporto che le grandi corporazioni private intrattengono con le istituzioni pubbliche. Potenti e prepotenti le prime, impotenti le seconde. Ecco perché una legge sulle lobby servirebbe a ordinare i posti in tavola, e servirebbe a noi tutti per osservare la distribuzione del menu. Ne guadagnerebbe la trasparenza della nostra vita pubblica, ma pure la libertà di concorrenza.
Non a caso l'indice della libertà economica misurato dalla Heritage Foundation ci colloca, nel 2012, alla 92esima posizione in tutto il mondo, nonché penultimi in Europa (peggio di noi solo la Grecia). Ma in Italia funziona così: la concorrenza rantola, le liberalizzazioni languono, e neanche noi ci sentiamo troppo bene.
Michele Ainis, costituzionalista, è ordinario nell’università di Roma Tre. Ha pubblicato un romanzo (Doppio riflesso, Rizzoli 2012) e una ventina di volumi (l’ultimo è Privilegium, Rizzoli 2012) su temi politici e istituzionali.
Fonte: http://bit.ly/134qXAl






































