Damasco, Parigi, Londra, Mosca, Singapore, Roma, Riad, Washington. Marriot, Four Season, Hilton, hotel de Russie. La lobby è quella stanza attigua la hall di ogni albergo. Qui, sprofondati su poltrone di pelle, avvolti dalla nebbia di un Montecristo, è ancora possibile incontrarsi con discrezione, parlare senza infingimenti di politica e affari, affari e politica. Il silenzio, la riservatezza, sono qualità assai pregevoli nella vita sociale, come ricorda Michel de Montaigne. Qualità apprezzate soprattutto da chi si muove in quella zona grigia che fa da trait d’union tra l’industria bellica e la politica. Comitati d’affari, gruppi d’interesse o singoli intermediari costretti a nascondere i propri legittimi interessi o quelli di cui si fanno latori perché ritenuti spesso sconvenienti, quando non criminali.
E così se l’interesse (economico) è l’anticamera del peccato morale, i sospetti diventano verità, le insinuazioni un abito da mostrare in pubblico, senza pudore. La trasparenza non è possibile perché presterebbe il fianco alla condanna morale di quanti, al contrario di Dorian Gray, credono a tutto a condizione che sia sufficientemente credibile. Forte del pregiudizio, il giornalismo d’inchiesta si fa scudo della necessità di informare prima ancora di verificare. L’indignazione pubblica diventa l’ostentato compiacimento di chi scrive, in un circuito autoreferenziale che si auto-alimenta e si auto-giustifica.
La recente vicenda dello “scandalo” Finmeccanica, asset strategico nell’industria della difesa, dunque nella difesa della sovranità nazionale, è ancora provvidenzialmente avvolta da una nube di sospetti, tra i quali si possono solo distinguere le sagome di diversi indagati. Invece di lasciar diradare la nebbia allo Stato, cui spetta il compito di separare i peccati da reati, una torma scalciante attende già alla gogna pubblica i boiardi di Stato additati da molti giornali come colpevoli comunque, oltre ogni ragionevole dubbio.
Fondata nel 1948 come caposettore nel campo dell’ingegneria meccanica dell’IRI, oggi la holding di piazza Monte Grappa è un’industria chiave che controlla diversi assets in campo militare come civile. Guidata da Pier Francesco Guarguaglini da 9 anni e 7 mesi circa, Finmeccanica è una partecipata del Ministero del Tesoro: gli uomini di via XX settembre detengono il 30% dell’azienda e attraverso questa golden sharepartecipano attivamente alla composizione del suo cda(e di quelli delle controllate). Già, la politica.
Nel campo dell’aeronautica, Finmeccanica svetta grazie a una joint venture con la francese ATR. E’ leader nel campo dell’avionica (radar e sensori nel campo dell’ homeland protection) con Selex Sistemi Integrati, controllata di Finmeccanica stessa, oggi al centro della tempesta giudiziaria che coinvolge il gruppo. E’ anche ai vertici del settore dell’aerospazio con la Thales Alenia Space, controllata al 67% dai francesi di Thales e al 33% da Finmeccanica. Thales che, a sua volta, è coinvolta in uno dei successi più controversi della holding:l’acquisizione nel 2008 del gruppo DRS.
La scalata a DRS – colosso americano nel settore della tecnologia al servizio della difesa (sistemi di spionaggio) – è avvenuta battendo proprio Thales sul filo di lana. La multinazionale francese aveva offerto di più della compagnia guidata da Guarguaglini, ma fu la Casa Bianca a fermare l’avanzata francese. Oggi, grazie al controllo su DRS, Finmeccanica è considerata ‘di casa’ in un mercato, quello statunitense, ritenuto chiave per l’industria della difesa. Secondo i molti nemici di Guarguaglini, questa operazione sarebbe una delle tante mosse che hanno esposto il gruppo ad un indebitamento insostenibile.
L’indebitamento di 3 miliardi circa cui il gruppo è esposto era in realtà sostenibile a fronte di ordini acquisiti nel solo 2010 per una cifra sette volte superiore. Il downgrade dell’Italia ha fatto peggiorare anche la fiducia dei mercati e degli investitori, anche in Finmeccanica. La crisi economica ha portato tagli in settori spesso ritenuti politicamente non convenienti, come la difesa, i cui spin-off in ambito civile sono scientificamente ignorati. Senza contare le commesse bloccate per effetto della recente guerra di Libia (elicotteri, sensori, sistemi di controllo per i confini per oltre 1 miliardo) e l’incertezza di un mondo arabo ancora in tenuta primaverile seppur a novembre inoltrato.
L’unica cosa certa, ad oggi, è che dall’arrivo di Guarguaglini a piazza Monte Grappa, il gruppo è passato dal rischio dismissione a trovarsi tra le prime dieci industrie al mondo nel settore tecnologico-militare (ottava secondo una ricerca presentata dal SIPRI nel 2010, subito dietro a giganti come Lockheed Martin o Northrop Grumman). La crescita di Finmeccanica è avvenuta grazie ad operazioni come la rilevazione di DRS e l’acquisizione della compagnia britannica di elicotteri Westland, divenuta oggi AgustaWestland dopo la fusione del 2000 con la storica industria fondata dal conte Agusta, pioniere italiano dell’aviazione.
Altri successi ascrivibili agli anni recenti della gestione Finmeccanica sono l’espansione del settore civile (Fincantieri, Ansaldo) e il mantenimento di gioielli come l’Oto Melara che produce il tank Ariete in dotazione al nostro esercito o l’azienda motoristica Avio (controllata al 14% da Finmeccanica), che fa gola agli appetiti famelici dei nostri interessati “cugini” d’oltralpe.
Questo il quadro prima che i mercati, i giornali “d’inchiesta” e politici improvvisamente desiderosi di trasparenza si accanissero sul gruppo. Prima ancora che i magistrati abbiano accertato le effettive responsabilità. La politica, di riflesso, ha già provveduto a scaricare i presunti responsabili dei traffici illeciti e degli scambi di favori di cui troppo a lungo ha usufruito con complicità. In America, una delle commissioni più importanti di Capitol Hill, l’Armed Service Committe, si occupa senza vergogna del rapporto tra industria delle armi e Congresso. I membri della commissione sono eletti grazie a campagne elettorali pagate da Boeing, General Atomics e altri colossi del campo militare, le cui donazioni sono pubblicate ad ogni tornata elettorale.
E’ logico che, una volta insediatisi, difenderanno quelli interessi, come noto agli elettori. Questo avviene in un Paese normale: il matrimonio d’interesse tra politica e interesse privato non rappresenta un peccato da additare in pubblico, ma un’attività legittima e necessaria in un’economia libera, in un Paese libero. Matrimonio regolato in maniera trasparente dal Lobbying Disclosure Act del 1995, che riconosce i ‘lobbisti’ come “gruppi portatori d’interesse da tutelare”.
Non che il mondo degli armamenti sia esente da zone d’ombra. I mercanti di morte si muovono consapevolmente anche nel lato oscuro tra crimini e traffici illeciti, accettandone i rischi per ottenere guadagni maggiori, senza scrupoli, senza morale. Come Yuri Orlov, interpretato da Nicolas Cage in Lord of War,hanno una sola certezza: saranno i padroni del mondo, perché tutti gli altri saranno impegnati a spararsi.
Se sono stati commessi reati nella vicenda Finmeccanica sarà accertato. Quello che è evidente sin da ora è il riflesso condizionato di un Paese rimasto quello fotografato da Alberto Sordi in Finchè c’è guerra c’è speranza. Il protagonista è un trafficante di morte che, una volta smascherato, viene ripudiato dalla propria famiglia che per anni aveva vissuto nel lusso e nel confort consentito da un sistema che tutti conoscevano ma preferivano non vedere. Meglio accettare la realtà prima e regolarla in maniera trasparente che scaricarla frettolosamente dopo essere stati scoperti: vedi Finmeccanica.
Niccolò De Scalzi - Meridiani Relazioni Internazionali
































