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Le mie arance a un lobbista di rango
Scritto il 2011-06-17 da Franco Spicciariello su Italia

Se c’è, il reato di Bisignani sta nell’avvisare una persona corretta come Letta che magistrati disinvolti vogliono incastrarlo nel quadro del solito attacco al giro del Cav. I raider virtuisti non hanno nulla da insegnare

Faccendiere è lo spregiativo per lobbista,che già di per sé non suona onorevole in un clima di ipocrisia perbenista. Sta di fatto che il potere italiano, per funzionare, sta da sempre con un piede nelle regole e con un piede fuori. E la società italiana, sempre per poter funzionare, fa lo stesso. Luigi Bisignani è da molti anni un lobbista di rango. Ha una robusta rete di relazioni in ogni ambiente sociale e politico e imprenditoriale. Combina rapporti d’affari, maneggia le informazioni economiche e politiche riservate, è un esperto conoscitore delle burocrazie e del management pubblico, briga per le nomine dei potenti di stato, garantisce tutti con la sua riservatezza (o almeno garantiva un tempo i suoi interlocutori con quell’azione sottotraccia che è la specifica competenza di chi fa il suo mestieraccio).

Sono legioni quelli come lui, Prodi ha i suoi informatori riservati, i suoi amici di banchieri e di manager pubblici, i suoi ometti per la politica estera, e per mille relazioni speciali sottopelle, e così li hanno i D’Alema e i Casini e i Fini e i Bersani e tutti gli altri politici di peso, per non parlare degli imprenditori. Qualcosina di simile succede anche in Europa, nelle democrazie nordiche, in America. Qualche volta quel tipo di lobbista molto avventuroso e trasversale che è Bisignani ha lavorato per facilitare i contatti e la conoscenza di causa (riservata) di alcuni di loro, i puri di cuore.

L’accusa di associazione per delinquere elevata contro di lui da un Henry John Woodcock, la solita P seguita da un numero progressivo, è caduta alla prima verifica di un giudice terzo, è rimasto il “favoreggiamento personale” che lo ha portato, evidente esagerazione, ai domiciliari. Bisignani ha asserito di aver informato alcuni suoi amici politici, tra i quali Gianni Letta, di intrighi giudiziari a carico loro e di loro colleghi, tra questi il nostro Denis Verdini.

Siccome ho cercato di capire come stanno le cose nel caso di Letta e Verdini, quello relativo agli appalti post terremoto, posso dire che, se sia stato compiuto, il reato consiste nell’avvisare una persona corretta come Letta che magistrati disinvolti stanno cercando di incastrarlo nel quadro del solito attacco mediatico-giudiziario a un politico influente del giro di Berlusconi, oltre che a un vecchio protagonista del potere romano dalla Prima Repubblica ad oggi, ciò che in effetti è avvenuto. Mi pare un comportamento benemerito, nell’Italia di oggi, così com’è. E se lo condannassero per favoreggiamento personale (ma il processo è il fango sui giornali, quello giudiziario finisce quasi sempre in burla), a Bisignani porterò le arance.

Il lobbista arrestato era nelle liste della P2 prima di avere compiuto trent’anni, il che non è segno di abominio sebbene denoti una certa disinvoltura, che a quel bel tipo spiccio, intelligente, veloce, non è d’altra parte mai mancata. Fu un mio eroe quando in televisione negò spavaldamente davanti a un furbo procuratore in crociata, Antonio Di Pietro, di aver fatto quello che poi fu condannato in giudizio per aver fatto, la messa in sicurezza nelle casse del Vaticano di una parte della tangente Enimont destinata ai partiti politici di governo. Ai miei occhi il sostituto procuratore e futuro capo partito che lo interrogava stava scassando con mezzi abnormi una vecchia democrazia marcita che doveva essere rinnovata nella e dalla politica, non da una campagna forcaiola, tendenziosa, a senso unico; e il suo imputato era uno dei tanti brasseur d’affaires o power broker che nel sottobosco delle istituzioni e dell’economia italiana (da Agnelli a Gardini) si erano resi utili al funzionamento materiale di un paese semilegale, e ora con la sua impudenza difendeva una certa dignità del suo lavoro (dicono gli americani: è un lavoro sporco, a dirty job, ma qualcuno dovrà pur farlo).

Avevo conosciuto Bisignani una decina d’anni prima di quello spettacolo processuale fantastico, che fu poi replicato con la stessa spavalderia da un altro mio vecchio amico, Primo Greganti, il compagno G. Lavorava all’Ansa e Lino Jannuzzi mi diede il suo numero di telefono per avere informazioni politiche riservate, da raccontare ai lettori di un giornale radical-socialista di breve vita che si chiamava Reporter, dove feci come notista politico una parte del mio praticantato giornalistico, e allora le informazioni riservate non erano reato. Fu abbastanza utile, e qualche tempo dopo presentai volentieri un suo libro al teatro Eliseo con Giulio Andreotti. Era un libro di spionaggio, un romanzo, gradevole ma niente di speciale. Non definii Bisignani “il Ken Follet italiano”, come ha scritto Alberto Statera ieri su Repubblica, quella dizione era la fascetta editoriale del libro, non una mia banalità. Dice Statera che Bisignani mi avrebbe introdotto in Vaticano, come una tangente qualsiasi, per darmi arie da ateo devoto, ma anche questo è falso: ho più entrature nei bordelli di Macao che nella Santa Sede, e le mie guerre culturali me le sono sempre fatte in proprio e con pochi amici. Comunque le amicizie o le frequentazioni amichevoli, per natura disinteressate, non si rinnegano nella grazia e nella disgrazia. Il lobbista che lavora sui gruppi di interesse non è un modello etico, ma censurarlo con argomenti virtuisti su un giornale edito da un rispettabile raider con la residenza in Svizzera mi sembra il colmo.

Quel che impressiona i moralisti veri, che guardano le cose con malinconico attaccamento alla loro infinitamente triste verità, è che i giullari del perbenismo, gli uomini che si dicono liberi e inconcussi, integerrimi datori di lezioni, non hanno alcun interesse a correggere questo andazzo. Diffidano delle libertà politiche e di mercato che sono la cura, insieme con un vero stato di diritto, dei mali che denunciano. Osannano il carisma rigeneratore di una casta giudiziaria che li tutela finché può e prende parte alla lotta politica negando la giustizia. Si fingono un mondo ideale inesistente e così impediscono al mondo reale di esprimere la sua vera eticità, che è sempre ambivalente, precaria, reversibile, storta, ma ha la sua radice nel demone personale di ciascuno e nelle scelte pubbliche e politiche di tutti, non nella morale delle lobby pro tempore vincenti.

Fonte: Giuliana Ferrara - Il Foglio

Al direttore - Che palle questa ennesima discussione sulle lobby, eterno emblema e foglia di fico dei presunti mali italiani. E che palle le iniziative per regolamentarne l’attività che poi falliscono miseramente, salvo partorire, in risposta a periodiche emergenze, abomini legislativi come il “traffico di influenze illecite”. Il problema, sia chiaro, non è dei lobbisti veri: da tempo abbiamo fatto il callo ai titoli di giornale che descrivono “le lobby” come fonte primaria dei disastri nazionali, e il lavoro pulito non manca ai bravi professionisti. Il punto è un altro, e prima o poi dovrà venir fuori. E’ proprio sbagliato l’obiettivo di chi pensa di irreggimentare, ingabbiare, demonizzare, punire le dannate lobby, come intendono fare paleo e neocensori parlamentari. Bisogna fare il contrario: aprire il sistema a una rinnovata ed efficace rappresentanza degli interessi, una volta saltata quella vecchia, per motivi più che noti. Nel vecchio mondo la lobby era appannaggio di partiti, sindacati, associazioni datoriali e di categoria. In quel circolo chiuso si componevano i conflitti, si dettavano le priorità e si organizzavano le gerarchie degli interessi. Con i media schierati a fare da pura cassa di risonanza. E le truppe pronte a intervenire, in casi di necessità. Era semplice, il piccolo mondo antico del Novecento. Oggi le cose sono cambiate. L’universo della rappresentanza è meravigliosamente frazionato. I partiti sono personali, i sindacati pensionati, la Confindustria ininfluente, e il tavolone verde di Palazzo Chigi, dove le corporazioni più loffie vivevano il loro quarto d’ora di notorietà, è (definitivamente?) messo in soffitta. Oggi ognuno ambisce a rappresentarsi da sé. La grande azienda, con il suo solido responsabile delle relazioni istituzionali. L’agenzia di lobbying, dove professionisti di valore si muovono unicamente nell’interesse dei clienti e non del loro datore di lavoro. Gli “abusivi”, quelli che non fanno lobby per professione: presidiano un interesse, lo intermediano e ne ricavano utili, lavorando “a percentuale”, spesso bluffando, millantando conoscenze e aderenze. E poi i media, che fanno lobby in proprio. E la rete, dove gli interessi esplodono in una miriade di ingovernabili frammenti. Nel mondo nuovo si gioca un’altra partita, dove tutto è lobby, possibilità, libertà e potere di espressione, comunicazione, condivisione. Lobby è postare, twittare e ritwittare, intercettare (ops) gli influencer, creare reti, costruire relazioni. Tutte attività difficilmente “recintabili”, cui ognuno può tranquillamente sfuggire. E ha facoltà di farlo. Se invece entriamo nei sacri confini delle istituzioni, e decidiamo di darci delle regole, allora bisogna che la regolamentazione sia sexy, altro che multe, divieti e misure coercitive. Registrarsi come lobbisti deve essere un label, un marchio di qualità. E chi ha un’istanza da rappresentare deve trovare conveniente affidare la sua pratica a un “registrato”. Si può fare con chiari meccanismi di premialità. Chi si registra può telefonare a un ministro e poi a un suo cliente. Tutto normale. Trasparente, certificato e garantito. Il registrato partecipa agli approfondimenti tecnici, ha a disposizione i testi dei provvedimenti, le bozze dei documenti. Dopo che li hanno avuti i politici, prima che diventino pubblici. Il registrato accede, con un tesserino personalizzato e riconoscibile, nei palazzi delle istituzioni, e ogni volta che usa il tesserino dichiara cosa è entrato a fare e perché. La registrazione contempla la dichiarazione degli interessi che si sostengono (in linea con normative sulla privacy e con le clausole di salvaguardia presenti nei contratti e nei regolamenti aziendali). Su queste basi si può costruire un vero patto di reciprocità: i lobbisti (e i loro clienti) consentono che si acceda al loro lavoro; le istituzioni consentono agli interessi e ai lobbisti di accedere al proprio. Con modalità certe e in tempo reale, con obbligo di consultazione, di esame e di risposta sui singoli dossier. I professionisti della lobby sono pronti per questa sfida: lo dico perché ne conosco tanti bravi e capaci. Le istituzioni non ancora. Per questo continuano a diffondere il timor panico delle “lobby”.Claudio VelardiFonte: Il Foglio

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Perché i parlamentari si nascondono dietro un nome indefinito che evoca mostri lontani e imprendibili per scaricare le proprie responsabilitàdi Pier Luigi PetrilloEcco, ci risiamo: è colpa delle lobby. Sul Foglio la senatrice Linda Lanzillotta (Pd) ha ammesso perlomeno che le cosiddette lobby avranno sì frenato il disegno di legge Concorrenza, bloccato da un anno in Parlamento, ma anche la flemma della politica ha avuto un ruolo. Effettivamente, non mi risulta che le lobby abbiano occupato il Parlamento, si siano sostituite ai deputati di maggioranza e abbiano votato emendamenti a loro favorevoli. Mi risulta, invece, che siano stati i deputati di maggioranza a presentare emendamenti a favore di certe lobby e a votarli a maggioranza (appunto).Il disegno di legge sulla Concorrenza non è il frutto di una elucubrazione accademica ma la conseguenza naturale, in un sistema democratico, della precisa scelta politica della maggioranza che sostiene il governo; una scelta indirizzata a sostenere taluni ordini, corporazioni (anche micro), settori produttivi del paese in situazione di sostanziale monopolio. Badate bene, si tratta di scelte legittime che qui non si contestano. Ciò che si contesta è che, come al solito, ci si nasconde dietro un dito e quel dito ha un nome indefinito che evoca mostri lontani e imprendibili: le lobby, appunto! E’ colpa delle lobby se non si fanno le liberalizzazioni; colpa delle lobby se il paese ristagna in paludi ottocentesche; sono le lobby a impedire riforme strutturali. Il grande merito del governo Renzi è stato quello di dimostrare che non è così; all’opposto Renzi ha dimostrato che se c’è la volontà politica è possibile superare ogni lobby e fare davvero ciò che si è promesso di fare. Il presidente del Consiglio ha ottenuto ciò che voleva in materia di lavoro, banche, assicurazioni, perfino di riforme costituzionali ed elettorali: ha vinto su lobby temibili e inarrivabili fino a qualche tempo fa, come i sindacati (o i professori di diritto costituzionale, categoria alla quale appartengo). La maggioranza in Parlamento ha dimostrato di poter approvare in poche settimane leggi molto contrastate da talune di queste lobby. Il dato, quindi, è uno solo: in questo caso e in materia di concorrenza e di liberalizzazione, la maggioranza ha deciso da che parte stare, ha espressamente deciso di assecondare talune lobby (quelle dell’immobilismo: dai soliti tassisti agli albergatori confederati) contro altre (quelle dei consumatori, per esempio). Per non ammettere questo dato di fatto, così evidente da sembrare davvero stucchevole ogni polemica sull’articolo di Giavazzi del Corriere di qualche giorno fa, ci si nasconde dietro al consueto paravento: le lobby, queste sconosciute, brutte, sporche e cattive. E per mantenere in vita il paravento, dietro cui la politica si nasconde, non viene approvata alcuna regolamentazione del lobbying: proprio in occasione del ddl Concorrenza, alcuni senatori hanno provato a proporre qualche norma ma sono stati prontamente stoppati. Non possono essere approvate, infatti, norme che rendano trasparente l’azione dei lobbisti perché altrimenti cadrebbero gli altarini e si scoprirebbe ciò che tutti sanno: ovvero che laddove la politica è fragile e mancano indicazioni chiare, i parlamentari si sentono liberi di assecondare le lobby a loro più vicine (magari perché ne finanziano la campagna elettorale) perché sanno che, nell’oscurità che circonda il mondo delle lobby, non sarà mai colpa loro, non dovranno mai rendere conto delle loro scelte a nessun elettore (gli inglesi direbbero accountability). L’assenza di una legge sulle lobby impedisce all’elettore di comprendere cosa c’è davvero dietro l’emendamento presentato dal singolo deputato, quale interesse e chi l’ha redatto; impedisce di sapere chi paga e per cosa. Ma Renzi potrebbe battere un colpo e chiedere conto di taluni voti in Senato che hanno affossato il ddl concorrenza col parere favorevole del rappresentante del Governo, per stupire tutti con uno dei suoi colpi di genio: presentare un maxi emendamento che sostituisce per intero questo feticcio di legge e, in un colpo solo, liberalizzare settori bloccati da secoli e sciogliere così corporazioni così vetuste da essere superate dai fatti (oltre che dal mercato). In ogni caso, in un sistema democratico come il nostro, non sarà mai colpa delle lobby ma della politica (debole, fragile, succube) che le asseconda. di Pier Luigi Petrillo, Professore di Teoria e tecniche del lobbying, Luiss

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(Alberto Cattaneo) Fare lobby significa spesso lavorare in difesa di interessi specifici che si incastrano in situazioni complicate e dalle verità multiple. Ha ragione chi difende la sperimentazione animale in nome della ricerca e della salute degli uomini o hanno ragione gli animalisti a sostenere il diritto alla vita degli animali? Ha ragione l’ambientalista o l’azienda inquinante? Ha ragione chi difende il gioco legale o il movimento di opinione che lo vorrebbe abolire? Non è facile dare delle risposte a questo genere di domande e sarebbe troppo facile dire che la verità o la soluzione a questi “dilemmi sociali” risiede in un giusto mezzo, nel ritrovare un punto di equilibrio che possa soddisfare le parti interessate. Il lobbista, nella sua essenza, è proprio colui che ricerca questo punto di equilibrio, ma ciò che ci interessa oggi è quanto possa essere difficile farlo quando qualcuno o qualcosa “impone” una verità precostituita. In un contesto dove la comunicazione viaggia veloce e raggiunge in modo multiforme la cosiddetta opinione pubblica, è facile che si costruisca una qualche forma di verità che cristallizza posizioni identificando i “buoni” e i “cattivi”, i “giusti” e gli “sbagliati”. Spesso a farlo è la magistratura inquirente, altre volte la politica, altre ancora i media. Sono numerosi le fonti, infatti, capaci di creare una “verità” e farla passare per l’unica possibile. Come dovrebbe lavorare un lobbista in questo genere di situazioni?* Proviamo a fare un passo indietro. Che cosa è la verità? Nietzsche direbbe che la verità è “un mobile esercizio di metafore, metonimie, antroporformismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite e che, dopo un lungo uso, sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti”. In estrema sintesi la verità è frutto di un esercizio linguistico e di un codice il cui carattere è sempre più “sociale e in definitiva anche politico” (cioè relazionale). La verità, intesa in questo modo, è solo un termine – come ci dice Vattimo – che “allude alla possibilità per singoli, gruppi e per la stessa specie, di riconosere e organizzare il mondo esterno in modo favorevole alla propria esistenza”. In un certo senso, dunque, l’uomo non vuole tanto la verità ma desidera che le conseguenze di questa verità siano piacevoli ed è “indifferente rispetto alla conoscenza pura priva di conseguenze, mentre è disposto addirittura ostilmente verso le verità forse dannose e distruttive” (Nietzsche). Se si accetta questa impostazione il lobbista si trova a competere in uno strano mercato: quello della costruzione della verità. Un costruttore della verità si trova, dunque, a creare un “framing” grazie a un utilizzo efficace di metafore e combinazioni di fatti che dettano il codice con cui si valuta una determinata situazione. E un costruttore basa la sua efficacia nel potere (power) che ha di affermare tale verità: ad esempio un magistrato, un primo ministro, la prima firma di un giornale hanno certamente più potere istituzionale rispetto a un singolo cittadino di affermare un framing di lettura e quindi una qualche verità. Si può costruire una matrice i cui assi sono proprio costituiti da framing e power e da quattro possibili posizioni. Il lobbista si può ritrovare a lavorare in difesa di un interesse che può essere collocato: 1. in un framing positivo ma con debole potere di affermarlo; 2. in un framing negativo e con potere debole; 3. in un framing positivo con alto potere di mantenerlo tale; 4. in un framing negativo con alto potere di modificarlo. Queste posizioni per un lobbista esprimonono quattro condizioni di lavoro: 1. Weak Winner 2. Heavy Looser 3. Winner but Target; 4. Potential Looser. Vediamoli nel dettaglio. 1. Weak Winner. E’ una condizione certamente favorevole perché il tipo di verità che emerge asseconda gli interessi che il lobbista si trova a difendere. Ma è una posizione scomoda in quanto il potere di difendere questa tipo di framing non è consolidato e quindi può essere messo in discussione da un qualcuno che questo potere di fatto ce l’ha. In questa situazione il lobbista deve stare necessariamente fermo e svolgere per lo più un lavoro di rafforzamento del proprio “potere di framing” recuperando soggetti più credibili e autorevoli, Il dilemma esiste, però: cercando di costruire nuovo potere si può “svegliare il can che dorme” e quindi l’analisi del posizionamento delle “fonti” che si vanno a toccare riveste un ruolo cruciale. Il mapping stakeholder e l’intelligence sugli interessi che lo compongono diventano allora l’attività core in questo quadrante. Si è dei vincitori, ma deboli. Si deve essere umili, cercare alleati e mantenere la pace. Non si è dei conquistatori. 2. Heavy Looser. E’ la condizione disperata. Il framing precostituito non è positivo (non da ragione all’interesse da difendere) e non si ha il potere per modificare la situazione. Si è perdenti. E lo si è pesantamente. Ma non si è disperati. Bisogna solo rendersi conto che l’azione che si ha davanti richiede pazienza e tempo (e spesso i portatori di interessi non hanno né l’uno né l’altro). Il lavoro è primariamente quello di lavorare sul linguaggio su cui il framing si basa e se la verità è “la somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente” si tratta di costruire un piano di stakeholder engagement che miri non tanto ad ottenere un obiettivo specifico quando a fare comprendere all’altro che la verità può essere intesa in modo diverso. Il target è chi lavora sui linguaggi (i media ad esempio, i “politici da talk show” altro esempio). Difficile. Estremamente difficile. Perché bisogna cambiare la poetica e la retorica con cui si presenta il problema. E questo non solo non è sempre possibile ma, appunto, richiede pazienza, accantonare gli obiettivi di breve (che non sarebbero comunque raggiunti! … inutile illudersi), fare nuovi esercizi linguistici. Il portatore di interessi diventa così, pazientemente, un nuovo poeta, un nuovo creatore di retorica. Se genuina, seria e vera questa retorica si trasforma in power. 3. Winner but Target. Ottimo. Siamo i predatori. La verità è dalla nostra parte e abbiamo il potere di difenderla. Diventiamo però il target per tutti quelli che vogliono cambiare questa verità. Siamo il bersaglio. Il segreto qui è allo stesso semplice e drammatico. Il predatore non può smettere di predare, di fare paura. Al primo segno di debolezza si diventa prede. Non ci sono compromessi. Non ci sono mediazioni con i più deboli. Fare un passo indietro significa velocemente modificare il proprio status, rinunciare al proprio power, diventare potential looser. 4. Potential Looser. Siamo potenti. Facciamo paura. Ma il framing è negativo. La verità non ci da ragione e prima o poi… Dalla nostra abbiamo il potere di lavorare sui codici linguistici perché abbiamo la possibilità di affermare una nuova retorica nelle relazioni. In questa situazione non possiamo stare fermi. Dobbiamo essere agili e veloci perché è un corsa contro il tempo. Prima o poi il nostro potere sarà eroso se non modifichiamo il modo con cui il framing guarda al nostro interesse. La due situazioni del looser hanno a che fare con “l’innovare il modo con cui si fa relazione”. E per noi innovazione significa modificare il codice linguistico. Diventare poeti significa diventare portatori di qualcosa di sensazionale, di nuovo stupore, di uno schock che ridesti le attenzioni e che faccia capire agli altri (al singolo, al gruppo o alla specie) che vale la pena di investire energie per accettare una nuova verità. Da dove nasce quanta capacità poetica? Dall’analisi delle conseguenze (l’uomo non vuole la verità, desidera conseguenze piacevoli). Ecco allora che l’analisi delle conseguenze, che non sempre il lobbista si ricorda di fare, diventa l’elemento critico. Il fattore di successo. Per capire le conseguenze bisogna diventare conoscitori delle dinamiche sociali, diventare esperti di un settore. Bisogna immergersi in profondità per riemergere con nuove intuizioni. Riemergere come nuovi poeti. *Riconosco che esiste un problema anche etico nel lavoro del “costruttore” di verità che ha mio avviso esiste per qualsiasi costruttore, sia esso istituzionale o meno. Riconosco anche che per il lobbista il pregiudizio negativo che lo contrassegna implica una maggiore attenzione al tipo di comportamenti che adotta nei suoi tentativi di costruzione della verità. Fonte: Infiniti Gesti  

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