Parlare di lobbies senza evocare stanze segrete dove eleganti uomini in giacca e cravatta tramano improbabili piani di controllo dello Stato appare molto difficile; ma, bypassando le facili ironie, la domanda che lo stesso Autore – professore ordinario di Scienza politica presso l’Università di Torino – si pone nell’introduzione, ossia che cosa sono le lobbies e “quali interessi rappresentano oltre ai poteri forti a cui sono solitamente associate”, afferma implicitamente un piano d’azione che non si conosce realmente, bensì solo falsato attraverso le cronache giudiziarie e qualche testo di eminente scrittore.
Effettivamente la fama non è positiva, ma, altrettanto chiaramente, le lobbies – collocate all’interno di un contesto istituzionale – possono recare al processo decisionale pubblico un prezioso apporto, divenendo fondamentale collegamento tra le Istituzioni e la società civile.
Quanto sopra non rappresenta l’unico piano d’azione all’interno del quale le lobbies operano; non si può dimenticare il mondo dell’economia (“che rimane la forza di gran lunga preponderante nel sistema delle pressioni”) che, nel contempo, non è possibile demonizzare, pena un discorso utopico che non trova riscontri nel contesto reale.
La vera problematica che il testo in esame cerca di esporre (“nelle pagine che seguono non c’è partito preso né a favore né contro. Se emerge un profilo per qualche verso indulgente, è per mettere in luce aspetti sottaciuti”) non si concentra tanto sui vari profili di azione delle lobbies, quanto sui modi e mezzi dell’interazione pubblico – privato, unitamente alle forme di regolazione che – ci si augura – in un futuro potrebbero imporre tale strumento non solo in ambiti stranieri, quale quello americano, e generali – si pensi al fenomeno all’interno della Comunità europea – ma anche nazionale.
L’approccio seguito dall’Autore è “quello comportamentista, consistente nello studiare il fenomeno là dove più ampiamente si manifesta. Vi sono due sistemi politici nei quali il lobbying è largamente praticato e variamente riconosciuto: Washington e Bruxelles. I lineamenti dell’attività hobbistica sono ricavati da come esso si pratica negli Stati Uniti e a livello di Comunità europea”.
Proprio queste ultime parole chiariscono, a parere di colui che scrive, che il testo del libro non deve essere considerato come “obbligatorio”, e a tal punto proprio l’Autore precisa che “il lobbying non deve essere così: ma Washington e Bruxelles forniscono elementi utili per fissare un tipo ideale su cui misurare le specifiche forme assunte in altri contesti”.
Il contenuto
Il primo capitolo – Cosa sono le lobbies? Lobbies e società civile – introduce il discorso generale, prendendo come riferimento il contesto americano, e più nello specifico la lobby anti armi e la lobby delle università.
La prima – Handgun Control – si interessa di un campo – quello delle armi – oggetto di numerose polemiche, soprattutto all’interno di un contesto sociale dove il bisogno di sicurezza è molto sentito, unitamente alla configurazione di un vero e proprio diritto a possedere armi, protetto dal Secondo Emendamento della Costituzione.
La lobby in questione non si pone come assolutamente contraria all’utilizzo di armi, bensì “restringe l’obiettivo a pistole e armi a canna corta, a basso prezzo e facilmente occultabili, che ne fanno il mezzo preferito della criminalità. Non è, insomma, una generica lobby anti armi: è anti violenza e per la sicurezza pubblica” (pagina 9 del testo in esame).
Il secondo esempio è quello della lobby delle università americane, nata sull’onda delle contestazioni del 1968, unitamente ad una crescente dipendenza dalle strutture governative per quanto riguardava settori quali la ricerca; quanto sopra rese necessaria la costituzione di una azione politica organizzata che, al contrario di quella sulle armi, non è mai stata voluta, bensì indotta dagli eventi.
A testimonianza di quanto sopra lo stralcio del discorso pronunciato nel 1958 dall’allora Presidente dell’Associazione delle università americane C. W. De Kiewiet per cui “che l’Associazione delle università americane (AAU) debba diventare un’altra lobby è pensiero disdicevole. Ci sono tuttavia occasioni e problemi rispetto ai quali abbiamo l’obbligo di dare una qualche guida e leadership”.
Il capitolo procede affrontando il secondo problema del fenomeno stesso; ossia la necessità di un quadro d’azione omogeneo e dettagliato, per affermare le condizioni ottimali di una attività di lobbying responsabile.
L’Autore indica tre condizioni indispensabili:
1) diffusione delle associazioni come base sociale e volano del lobbying;
2) istituzioni di Governo aperte alle domande della società e capaci di rispondervi responsabilmente;
3) un sistema di gruppi il più pluralista possibile.
Le tre condizioni sono necessarie soprattutto per legittimare il fenomeno, rendendo più facile – e più costruttivo – l’obiettivo da raggiungere.
Il secondo capitolo – Le tecniche – illustra le quattro tecniche più utilizzate:
1) Lobbying diretto, attuato attraverso un rapporto faccia a faccia, utilizzando il concetto di persuasione;
2) Lobbying indiretto – cd grass roots lobbying – attuato “dalla base con coinvolgimento di movimenti e semplici cittadini”, attraverso il quale – secondo le parole di Mill – il lobbista è il cittadino che è aiutato a praticare attivamente la propria cittadinanza, secondo uno dei precetti classici della democrazia (J. S. Mill, Considerazioni sul governo rappresentativo, Bompiani, Milano, 1946);
3) Coalizioni che “consentono di radunare forza per il numero di gruppi che vi partecipano (anche 100 – 150 organizzazioni) e rappresentatività, allorché sono coinvolte più famiglie di interessi” (pagina 38 del testo in esame);
4) Finanziamenti elettorali – cd. Political Action Committees (PAC) – che hanno contribuito alla formazione di una arena politica (almeno per quanto riguarda lo scenario americano) fortemente influenzata dal dato economico, unitamente alla visione degli stessi come un mero investimento, “dirigendosi verso chi è già in carica e ha molte chances di rimanervi, a scapito degli sfidanti (pagina 42 del testo in esame).
Oltre alle audizioni parlamentari che “consentono ai gruppi di fare formalmente valere la propria voce”; le audizioni divengono così uno strumento fondamentale in una ottica di consolidamento dei necessari contatti.
Il terzo capitolo – Bruxelles: paradiso dei lobbisti? – sposta la riflessione dal panorama americano a quello europeo, affermando come il fenomeno risenta fortemente del carattere ibrido ed unico di un sistema politico che non rappresenta uno Stato, ma va al di là degli Stati.
Il capitolo, infatti, cerca di analizzare il contesto d’azione europeo per comprendere come il fenomeno stesso possa interagire/integrarsi/crescere/maturare, senza perdere di vista l’obiettivo finale, ossia la crescita di rappresentanza – e quindi di tutela - di un interesse.
Il quarto capitolo – Washington, Bruxelles, Roma. La regolazione del lobbying – introduce il lettore alla problematica della regolamentazione del fenomeno; una regolamentazione, quindi, non solo sociale – si pensi ad una cultura del lobbying o alle varie forme di istituzionalizzazione, e quindi di riconoscimento, della professione – ma soprattutto giuridica, stante una situazione attuale all’interno della quale solo gli Stati Uniti, il Canada, la Germania e l’Australia dispongono di strumenti legislativi ad hoc.
Il capitolo riassume le caratteristiche principali della rappresentanza privata, per come la stessa viene praticata nel contesto americano ed europeo, attraverso una comparazione; emerge così come lo stile di lobbying sia aggressivo e conflittuale nel panorama americano, mentre nel panorama europeo si è affermata una tecnica improntata alla ricerca del consenso, quindi meno gerarchica.
E ancora nel panorama europeo, sono privilegiati i contatti personali diretti rispetto alla tecnica sopra esposta del grass roots lobbying e dei finanziamenti elettorali, non attuabili per ovvie ragioni; i professionisti del lobbying sono meno numerosi, così come “il sistema dei gruppi è meno ampio che negli Stati Uniti (2.000 attivi a Bruxelles, 7.000 o più a Washington)”.
La differenza più importante tra i due sistemi – a parere di colui che scrive – è sicuramente da individuare nella differente regolazione nei due contesti; il contesto europeo, infatti, si regge esclusivamente su di una regolamentazione sociale, quindi su codici di condotta volontari che non trovano riscontro in nessun testo legislativo, bensì solo nel buon senso delle parti: un galateo non scritto, insomma.
Discorso diverso per il contesto americano, all’interno del quale si afferma una regolamentazione centrata sulla disciplina giuridica: il Federal Regulation of Lobbying Act risalente al 1946 successivamente “sostituito” dal Lobbying Disclosure Act del 1995.
Il primo provvedimento era parte integrante di una legge finalizzata alla riorganizzazione del Congresso e si limitava alla regolarizzazione del fenomeno solo su di un versante legislativo, escludendo quindi il lobbying rivolto all’Amministrazione; la caratteristica principale rilevata dall’Autore è che la normativa in esame si incentra maggiormente sul singolo piuttosto che sul gruppo, “obbedendo a una visione individuale anziché organizzata dell’attività lobbistica”.
Il Lobbying Disclosure Act del 1995 rappresenta senz’altro una crescita legislativa, se non altro per il fatto che la normativa interessa sia il settore legislativo che quello esecutivo, unitamente al dato che configura nuovi poteri sanzionatori (sino a multe di 50.000 dollari) per la Camera e per il Senato.
Secondo le parole dell’Autore, la normativa del 1995 “innova la disciplina giuridica su cinque punti:
1) include come ho detto sia il Legislativo che l’Esecutivo nelle figure istituzionali sopra dettagliate. Il contatto con uno di questi uffici volto a influenzare leggi, regolamenti, contratti e altri atti, configura l’azione come attività di lobbying;
2) introduce i termini attività lobbistiche e contatto lobbistico assenti nella legge del 1946. il primo sta per l’insieme di attività burocratiche propedeutiche al contatto con i decisori. Contatto, per comunicazione scritta o orale volta a influire su una serie di atti (leggi, regolamenti amministrativi, contratti, nomine soggette a ratifica senatoriale);
3) dà una più precisa definizione di cosa debba intendersi per lobbista;
4) (dà una più precisa definizione) di chi debba registrarsi, con un occhio rivolto alle organizzazioni più che ai singoli lobbisti com’era il caso per la vecchia legge;
5) contempla meccanismi più puntuali e penalità più severe per i trasgressori.”
Il capitolo dedica attenzione anche al panorama italiano che presenta due tratti pesantemente distintivi rispetto alle esperienze americane ed europee; il primo “è il lento e tuttora incompiuto enuclearsi del lobbismo come professione autonoma. Il secondo e più grave ostacolo è il legame reale o supposto fra lobbying e corruzione” (pagina 99 del testo in esame).
Infine le conclusioni.
Il dato più interessante è soprattutto quello per cui l’attività in esame è sostanzialmente opposta e contraria ad ogni forma di clientelismo; il lobbying, infatti, “è, più precisamente, la trasposizione alla politica della concorrenza e dei suoi principi, in aggiunta ai partiti e a complemento delle forze di rappresentanza elettiva che i partiti assicurano”.
E a ben vedere proprio tale riflessione rappresenta un positivo input per affermare che il fenomeno potrebbe divenire, in un prossimo futuro, una realtà – ben inteso, disciplinata – non più esclusivamente propria del panorama americano, bensì prassi europea e, perché no, anche italiana.
Osservazioni critiche
Il testo è sicuramente rivolto a diversi target; quindi non solo professionisti del settore della comunicazione, ma anche e soprattutto studenti universitari.
Ne è riprova la provenienza professionale dell’Autore – professore ordinario di Scienza politica nell’Università di Torino, già vicepresidente dell’Associazione internazionale di scienza politica (IPSA) e professore in visita presso la New York University, l’Istituto di Studi politici di Parigi e Bordeaux, l’Università libera di Bruxelles e l’Istituto universitario europeo – unitamente alla presenza, all’interno del testo in esame, di una bibliografia molto accurata in merito ai vari temi trattati, unitamente ad alcune domande essenziali, ma mai così utili, soprattutto se si pensa che il fenomeno ha subito, nel tempo, diverse interpretazioni/distorsioni da parte del settore letterario e cinematografico (i testi presenti sono divisi in testi in italiano e testi stranieri).
Le appendici presenti nel testo sono cinque (due relative al contesto americano, due relative all’ambito europeo unitamente alla proposta di legge risalente al 1998 per regolarizzare le “attività di relazione” in Italia), e tutte confermano l’utilità di riportare i testi normativi – nazionali/europei/internazionali - di interesse.
Troviamo quindi stralci del Lobbying Disclosure Act del 1995, uno schema dei rappresentanti privati che operano a Washington unitamente alle caratteristiche professionali di un campione di lobbisti, la Comunicazione della Commissione europea del 2 dicembre 1992 per “Un dialogo aperto e strutturato fra la Commissione e i gruppi di interesse speciale, una parte del Libro bianco sulla governance europea del 2001 (Come la Commissione europea consulta. Il pacchetto Telecom – 1998/2001), nonché uno stralcio della proposta di legge del 1998 sulla “Disciplina dell’attività di relazione nei confronti dei componenti delle Assemblee legislative e dei titolari di pubbliche funzioni” (la proposta di legge è stata oggetto di una relazione presentata alla Camera il 25 marzo 1998 dalla Commissione speciale per l’esame dei progetti di legge sulla prevenzione e repressione della corruzione).
In conclusione, un testo agile, facile da consultare, serrato e puntuale nella trattazione, fondamentale per comprendere un fenomeno che troppo spesso trova giustificazione solo in trame cinematografiche ben congeniate.
Luigi Graziano è professore di Scienza politica all'Università di Torino. Laureatosi all'Università "La Sapienza" di Roma, si è specializzato all'Institut d'Etudes Politiques de Paris e a Princeton (Ph.D.). E' stato visiting professor alla New York University (1987-1990), all'Institut d'Etudes Politique de Paris e all'IEP di Bordeaux (1996-1997). Oggi è vice-presidente di IPSA, presidente del centro di ricerca IPSA sul Pluralismo. Membro del centro europeo di ricerca dello European Centre for the Public Affairs del Templeton College, Oxford, lavora prevalentemente a Bruxelles studiando con focus sulle lobbies.
Fonte : Stefano Martello - www.diritto.it







































