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Pier Luigi Petrillo

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I miei ultimi articoli
Ecco la terza parte dell’intervento del prof. Petrillo. La prima parte si può leggere qui, e qui la seconda. Siamo d’accordo nel considerare “lobbisti” i soggetti, persone fisiche o giuridiche, che rappresentano professionalmente, presso i decisori pubblici, interessi leciti, anche di natura non economica, al fine di incidere sui processi decisionali pubblici in atto, ovvero di avviarne di nuovi. E siamo d’accordo nel ricomprendervi anche coloro che, pur operando nell’ambito o per conto di organizzazioni senza scopo di lucro, ovvero di organizzazioni il cui scopo sociale prevalente non è l’attività di rappresentanza di interessi particolari, svolgono per conto dell’organizzazione di appartenenza, la suddetta attività? E quindi considerare in questa definizione anche le rappresentanze datoriali e i sindacati, al di fuori dei processi concertativi definiti dalle leggi, nonché chi cura le relazioni istituzionali delle grandi società pubbliche o a partecipazione pubblica? E siamo d’accordo nel considerare “decisori pubblici” i parlamentari, i loro assistenti e collaboratori, i ministri, vice ministri e sottosegretari e i membri dei loro gabinetti, i componenti delle autorità indipendenti e i componenti dei gabinetti, i dirigenti della Pubblica Amministrazione e i consiglieri parlamentari? Oppure riteniamo che si possa intervenire solo su uno spettro più ridotto di individui o società o decisori? TRASPARENZA DI LOBBISTI E DECISORI PUBBLICI Siamo tutti d’accordo sul fatto che i portatori di interessi particolari dovrebbero iscriversi in un Elenco pubblico, dichiarando per chi lavorano, con quali obiettivi, con quanti soldi a disposizione, e rendicontando, almeno annualmente, l’attività svolta e gli incontri avuti? Oppure esiste un modo diverso dall’elenco per assicurare la trasparenza di tali soggetti? E tale Elenco deve essere una sorta di albo abilitante o, più semplicemente, un registro? E chi non è iscritto nell’Elenco può fare comunque lobbying? E l’iscrizione dovrebbe essere obbligatoria o volontaria? Siamo anche d’accordo sul fatto che i decisori pubblici dovrebbero rendicontare pubblicamente gli incontri avuti con i lobbisti, anche al di fuori delle sedi istituzionali, raccontando, sinteticamente, chi come e quando si sono confrontati con le lobby? DIVIETO DI REVOLVING DOOR Siamo d’accordo nel vietare a chi ha esercitato funzioni pubbliche, anche non elettive, di svolgere l’attività di lobbying per un certo periodo dalla cessazione della suddetta funzione? IL CONTROLLORE Siamo d’accordo che dovrebbe esserci una Autorità preposta a controllare l’attuazione e il rispetto di queste regole? Possiamo pensare che questa attività di controllo sia svolta dall’ANAC in quanto autorità competente a vigilare sulla trasparenza nella PA anche al fine di evitare fenomeni patologici della rappresentanza d’interessi quali la corruzione? DIRITTI DEI LOBBISTI E DOVERI DEI DECISORI Siamo d’accordo nel fissare una serie di diritti dei lobbisti (connessi ad esempio a procedure di consultazione obbligatorie, preventive alla redazione dell’atto) nonché dei doveri dei decisori pubblici (come ad esempio quello di indicare l’origine di una certa proposta o di un certo emendamento, ovvero di rifiutarsi di incontrare chi non è iscritto nell’Elenco)? Si tratta di regole banalissime, diffuse nelle democrazie più avanzate, con sfumature e intensità diverse. Si tratta di regole che derivano direttamente dai principi elaborati dall’OCSE per contrastare i fenomeni della corruzione, assicurare una reale competizione tra i vari interessi pubblici e privati, e consentire ai cittadini di conoscere effettivamente le ragioni di determinate scelte della politica. Ma siamo d’accordo su questi punti minimali? Il dibattito è aperto. Sperando che almeno questa volta si faccia sul serio; altrimenti il #cambiaverso resterebbe semplicemente (e solo) un hasthag. Fonte: Formiche.net

Italia

Il secondo di una serie di approfondimenti su lobby e regolamentazione su Formiche.net a cura di Pier Luigi Petrillo, professore associato di Diritto pubblico e docente di Teorie e tecniche di Lobbying Ecco la seconda parte dell’intervento del prof. Petrillo. La prima parte si può leggere qui. Le opzioni di intervento sembrano essere prevalentemente 3: le prime due più “soft”, potenzialmente approvabili in pochissimo tempo; la seconda più “hard” ma più seria. 1) L’opzione-esempio (una sorta di Negroni) Consapevoli che un disegno di legge in Parlamento rischierebbe di arenarsi, il Presidente del Consiglio può con proprio Decreto regolamentare il rapporto tra Pubblica Amministrazione e lobbisti. Ovviamente tali norme varrebbero solo per Palazzo Chigi, i Ministeri e le Società controllate dalle Stato. Non sarebbe comunque poco ma soprattutto darebbe il buon esempio. Una sorta di sveglia per il Parlamento e il modo migliore di rispondere ai #gufi. 2) L’opzione-esempio invertito (il Negroni sbagliato, ovviamente) Consapevoli che il Governo non ha voglia di intervenire sul punto, i Presidenti di Camera e Senato intervengono d’imperio, esercitando i poteri d’interpretazione dei regolamenti parlamentari loro attribuiti. Possono così disporre, ad esempio, regole d’accesso pubbliche e trasparenti per i lobbisti ovvero (a mero titolo d’esempio) impegnare i parlamentari a rendere pubblici gli incontri avuti. Gli stessi effetti potrebbero essere prodotti, più democraticamente, facendo approvare una risoluzione dalle rispettive assemblee oppure, per essere ancora più democratici, modificando i regolamenti parlamentari (come propose il sen. Andreatta nel lontano 1988). E’ l’esempio francese dove, da quattro anni, esiste una regolamentazione delle lobby presso l’Assemblea Nazionale introdotta con una risoluzione parlamentare. In questo modo sarebbe il Parlamento a dare la sveglia al governo … 3) L’opzione “all inclusive” (quindi impossibile … una vera Caipirinha) Il governo presenta alle Camere un disegno di legge, dichiarandolo urgente così da essere calendarizzato in tempi certi. Poiché ci va di sognare, possiamo anche ipotizzare che con questo provvedimento il Legislatore corregga le numerose norme già vigenti ma totalmente disapplicate che dovrebbero imporre trasparenza e partecipazione in taluni procedimenti pubblici. Sempre in questo contesto, si dovrebbero modificare le assurde norme sul finanziamento della politica da parte dei privati. Ci si chiede: possono esserci altri percorsi normativi? E tra quelli sopra individuati, quale sarebbe l’opzione preferibile? Fonte: Formiche

Italia

Il primo di una serie di approfondimenti su lobby e regolamentazione a cura di Pier Luigi Petrillo, professore associato di Diritto pubblico e docente di Teorie e tecniche di Lobbying Ogni giorno il Presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Renzi, accusa le lobby di fermare lo sviluppo del paese. Prima di lui, l’accusa era stata mossa dai suoi predecessori: Enrico Letta, Mario Monti, Silvio Berlusconi, per limitarci agli ultimi. E con loro anche i Presidenti di Camera e Senato, periodicamente, “urlano” contro le lobby che invadono i palazzi. Eppure non si hanno notizie né di interventi governativi né di interventi parlamentari finalizzati a regolamentare i gruppi di pressione. Ogni giorno si scopre, così, che dietro ai “gufi” che vogliono lasciare immobile il Paese ed impediscono le riforme necessarie, ci sono le lobby, ogni sorta di lobby, con l’effetto che tutto è lobby, perfino i funzionari pubblici: si pensi alle “lobby” dei magistrati (“no alla riduzione delle ferie”), a quella dei dirigenti pubblici (“no alla riduzione degli stipendi”) o perfino a quella dei senatori (“no alla riduzione del Senato”). In questo quadro le lobby continuano ad essere il paravento della politica: basta dire che è colpa delle lobby per scrollarsi di dosso ogni responsabilità. E appare ovvio che se le lobby fossero regolamentate e la loro azione fosse pubblica, ecco che i cittadini scoprirebbero il gioco dello scarica barile: il paravento d’incanto cadrebbe e si scoprirebbe che la colpa di certo immobilismo non sono le lobby ma la politica. LE ULTIME TAPPE DI UN TIMIDO TENTATIVO DI FARE SUL SERIO Rispetto a vent’anni fa, tuttavia, qualche barlume di speranza comincia a vedersi. Nel 2007, durante il secondo governo Prodi, l’allora Ministro per l’attuazione del programma di governo, Giulio Santagata, spronato dal suo capo di gabinetto, il Consigliere di Stato Michele Corradino (ora componente dell’ANAC), fece approvare dal Consiglio dei Ministri il primo e unico disegno di legge in materia d’iniziativa governativa. Qualche mese dopo il governo fu sfiduciato e il testo dimenticato. Nel 2012, sotto il governo Monti, ci riprovò Mario Catania, allora Ministro dell’Agricoltura, istituendo l’obbligo per i lobbisti “agricoli” di iscriversi in un elenco pubblico. La netta contrarietà delle principali organizzazioni di categoria (Coldiretti, Cia, Confagricoltura) fece naufragare l’esperimento. Nel 2013 è il premier Enrico Letta, in prima persona, a farsi promotore di una coerente regolamentazione del lobbying, chiedendo al segretario generale di Palazzo Chigi, Roberto Garofoli, e al sottoscritto, di predisporre una bozza di disegno di legge. Ma il Consiglio dei Ministri, dopo avere approvato i principi della regolamentazione nel maggio 2013, decise di bocciare il testo predisposto, considerandolo troppo stringente. E siamo arrivati al governo Renzi: entro giugno 2014, aveva dichiarato il Premier nel Documento di Economia e Finanza 2014 (DEF), avremo una regolamentazione dei gruppi di pressione. Sono passati 3 mesi da quella scadenza ma non c’è traccia nemmeno di una qualche bozza. Eppur si muove: nel silenzio generale, il Vice Ministro alle Infrastrutture, Riccardo Nencini (forse l’unico a credere davvero all’importanza di questa questione), è riuscito ad inserire nel disegno di legge delega di riforma del codice degli appalti, un principio legato alla trasparenza dei gruppi di pressione; anni luce lontani dalla regolamentazione delle lobby ma almeno è un segnale. E’ ripartito da qui Giovanni Grasso, il giornalista dell‘Avvenire che, venerdì e sabato scorso, ha dedicato sul suo giornale un’inchiesta al rapporto tra politica e gruppi di pressione, invitando il Ministro della Funzione Pubblica, Marianna Madia, a prendere la palla in mano, trattandosi, anzitutto, di una questione di trasparenza della Pubblica Amministrazione (centrale e periferica). MA PER FARE (DAVVERO) SUL SERIO, DA DOVE RIPARTIRE? Ripartiamo dall’inchiesta di Grasso; rileggiamo gli stimoli recenti pervenuti da lobbisti d’eccezione come Gianluca Comin, per anni direttore delle relazioni istituzionali in Enel, o Stefano Lucchini, per anni a capo dell’Eni e ora in Intesa, o le proposte avanzate da Claudio Velardi, Massimo Micucci e l’ottimo gruppo del “Rottamatore”, da Fabio Bistoncini (“vent’anni da sporco lobbista”), da Franco Spicciariello e il suo sito lobbyingitalia.com, da Gianluca Sgueo su Formiche.net, da esperti come Giovanni Galgano e Giuseppe Mazzei de “Il Chiostro”, da studiosi come Maria Cristina Antonucci e Marco Mazzoni, dal collega Alberto Alemanno della New York University, dal gruppo #lobby (purtroppo non più attivo) degli ultimi 7 anni di #VeDrò, da riviste come Percorsi Costituzionali e AGE-Analisi Giuridica dell’Economia e proviamo ad offrire al Legislatore qualche idea su come e per cosa fare sul serio. Fonte: Formiche.net

Italia

(Giovanni Gatto) «Una cattiva legge sul finanziamento dei privati ai partiti e la totale mancanza di ogni regolamentazione delle lobby rischiano di creare un vero cortocircuito nella politica italiana». Il costituzionalista Pier Luigi Petrillo, che ha dedicato parte dei suoi studi proprio ai gruppi di pressione, è tranchant: «Da una parte abbiamo creato un sistema di finanziamento che, a partire dal 2017, si baserà in prevalenza sul contributo dei privati. Dall’altra non abbiamo approvato alcuna regola per garantire la piena trasparenza sui contributi elargiti e sui soggetti elargitori. Il sistema così non può funzionare, andremo incontro a una serie di gravi problemi che intaccano la qualità della nostra democrazia, a partire da una sfera troppo ampia di influenza concessa ai potentati economici sulla politica». Scarica l'articolo in pdf Il suo è un allarme piuttosto serio... Si basa su un dato di fatto difficilmente contestabile, ossia la mancanza di trasparenza. In questo nuovo sistema di finanziamento alla politica sapremo i nomi di chi dona denaro ai partiti e perché lo fa? Conosceremo le cifre e i destinatari? La risposta allo stato è no. Ci spieghi meglio: cos’è che non va nella legge di riforma del finanziamento ai partiti? A dire il vero, un lobbista interessato a mantenere una situazione di totale opacità sui finanziamenti alla politica non avrebbe potuto concepire una legge migliore. Il problema è che la legge, così come è stata modificata (o meglio stravolta) in Parlamento, non prevede alcun vero obbligo di trasparenza. Un punto della legge riguarda l’obbligo di rendere pubblici tutti i finanziamenti superiori ai 5mila euro. Faccio un inciso: in altri Paesi - penso agli Stati Uniti ma anche ai principali Paesi dell’Ue – è necessario documentare qualsiasi contributo elettorale che superi i 50 dollari in Usa, o le 50 sterline in Gran Bretagna o i 50 euro in Francia, Austria e Germania. Ma la la cosa più grave è che in Italia anche la regola dai 5mila euro in su viene neutralizzata immediatamente, perché nella legge vi è anche scritto che la pubblicazione del contributo viene reso pubblico solo se c’è il consenso del donatore... Il quale, specie se si tratta di una grande azienda o di una società finanziaria, ha tutto l’interesse a tenere nascosta una consistente oblazione in favore di quello o di quel partito. L’obbligo, insomma, diventa facoltativo: un controsenso logico e una mostruosità giuridica. Viene da dire: fatta la legge, trovato l’inganno...Tuttavia almeno la legge prevede un tetto alle donazioni private ai partiti, stabilito in 100mila euro per partito. Il tetto, a mio parere, non ha alcun senso. Infatti è facilmente aggirabile. Oggi con una spesa minima si possono formare delle società e anche le grandi società dispongo di un numero di soggetti (fondazioni, consociate, partecipate, controllate, ecc.) che possono di fatto moltiplicare il contributo dei 100 mila euro con grande facilità. L’unica strada percorribile è quella di rendere tutto pubblico e trasparente, prevedendo un sistema efficace di sanzioni pecunarie e penali per chi sgarra. Naturalmente per far funzionare il sistema occorrono anche altre misure. Ce le illustri, professore... C’è il nodo del funzionamento interno dei partiti. Oggi se uno va a vedere i loro bilanci, si noterà che la parte più rilevante delle entrate riguarda la voce "mezzi propri". In questa voce ci può essere di tutto: dalle risorse dei propri fondatori, agli investimenti, e così via. Ma in questa voce possono finire tranquillamente i finanziamenti, anche consistenti, di soggetti privati. In mancanza di una regolamentazione pubblica dei partiti, questi non hanno alcun obbligo di tenere bilanci trasparenti. E la Corte dei Conti non può indagare. È questo il male oscuro dei partiti su cui bisognerebbe intervenire con decisione. E poi bisogna analogamente regolamentare le fondazioni politiche che allo stato non hanno alcun obbligo di rendicontazione pubblica dei propri finanziamenti. Si capisce da soli che diventa ridicolo regolamentare strettamente i finanziamenti ai partiti e poi lasciare completa mano libera a chi vuole elargire denari alle fondazioni riconducibili a partiti o a uomini politici. Infine, ma non ultimo, c’è il discorso della regolamentazione delle lobby... In Italia si è sempre impedito che l’attività di lobbying fosse regolamentata, impedendo tra l’altro di distinguere tra interessi leciti e opachi, tra professionisti e faccendieri. Negli Stati Uniti tutto si svolge alla luce del sole. Ma anche in molti Paesi europei esiste un elenco pubblico dei lobbisti, consultando il quale si può conoscere per chi uno lavora, di quali interessi è portatore, di quanti soldi ha speso per l’attività di lobbying e chi ha incontrato. Chi è Pier Luigi Petrillo è professore aggregato di Diritto pubblico comparato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Unitelma Sapienza di Roma, dove insegna anche Istituzioni di Diritto pubblico e Diritto costituzionale. E vanta numerose collaborazioni a livello istituzionale. È il titolare del corso di Teoria e Tecniche del Lobbying e di diritto comparato dei gruppi di pressione presso la Luiss, insegnamento unico nel suo genere in Italia. Tra le sue numerose pubblicazioni "Democrazie sotto pressione. Parlamenti e lobbies nel diritto pubblico comparato",(Giuffrè 2010). Fonte: Avvenire

Interviste

Con la trasmissione "le Iene" si torna a parlare (impropriamente) di lobby. non avere norme sulle lobby aiuta una politica impotente. Nel nostro Paese, le lobbies rappresentano una via di fuga per la classe politica: è sempre colpa loro quando la decisione assunta dalla politica non soddisfa i cittadini; è colpa loro se le liberalizzazioni non vengono attuate ecc. Il problema, dunque, non sono le lobbies ma è l’assenza di regole (o la loro disapplicazione) che permettano a questi soggetti di interagire con la politica in modo trasparente, partecipato, uguale per tutti. Spetta a “Le Iene”, stavolta, far parlare di “lobby”. L’accusa è di quelle pesanti: alcune “multinazionali”, secondo quanto ci racconta il servizio, avrebbero corrotto dei senatori per ottenere in cambio l’approvazione di emendamenti a loro favore. E l’anonimo accusatore intervistato dalla trasmissione di ItaliaUno, precisa: a pagare “sono le cosiddette lobby”. Chiunque ha un minimo di cultura giuridica o politica sa che, in realtà, il concetto di “lobby” non è sinonimo di “multinazionali”, e sa anche che le lobbies sono portatrici pure di interessi non economici (come possono essere le lobby del WWF o di Amnesty International). E sa che la corruzione non c’entra con le lobbies, tanto è vero che pur in presenza di una legge seria sulle lobbies i fenomeni descritti dal servizio delle Iene si avrebbero comunque. Tuttavia questo servizio riporta all’attenzione dell’opinione pubblica il tema delle lobbies. Si tratta di qualcosa di ciclico, oramai, direi stagionale: ogni 4 mesi se ne torna a parlare; il presidente di turno propone una regolamentazione; poi la stampa se ne dimentica e con essa l’intera opinione pubblica. Passano 4 mesi, arriva la primavera e, voilà, si riparla di lobby e il gioco continua. Ma le stagioni passano senza che nulla cambi. Come mai? Molto semplice: non avere norme sulle lobby aiuta una politica impotente. Nel nostro Paese, le lobbies rappresentano una via di fuga per la classe politica: è sempre colpa loro quando la decisione assunta dalla politica non soddisfa i cittadini; è colpa loro se le liberalizzazioni non vengono attuate; colpa loro se il prezzo della benzina sale; colpa loro se la sanità costa di più; colpa loro se pochi pagano quanto deve e molti altri evadono. Le lobbies sono divenute così un paravento della mancata scelta del politico di turno: poiché non ne conosciamo il nome, il volto e l’operato, non potendole identificare, la politica si è spesso nascosta dietro di loro, trasferendovi il mancato coraggio di compiere certe scelte. E facendo così dimenticare ai cittadini che la responsabilità di una scelta è sempre e solo del politico, e non dei soggetti esterni alla politica che hanno provato ad influenzarlo, poiché è il politico l’unico che può effettivamente scegliere, premendo il pulsante per il sì o per il no. Da cosa dipende questa anomalia? Da due motivi: da un lato dal fatto che in Italia le numerose norme volte ad assicurare la trasparenza degli interessi dei parlamentari sono disapplicate; dall’altro dal fatto che manca una regolamentazione organica del fenomeno lobbistico. Così, ad esempio, non tutti sanno che dal 1982 è in vigore una legge che obbliga tutti i parlamentari, i loro coniugi e i loro figli conviventi, entro 3 mesi dall’elezione, a depositare la loro dichiarazione dei redditi e dichiarare i diritti reali su beni immobili e mobili, le azioni di società possedute, le quote di partecipazioni a società, l’esercizio di funzioni di sindaco o amministratore di società; ed una identica dichiarazione deve essere resa anche a conclusione del mandato parlamentare, entro un mese, al fine di evidenziare eventuali guadagni non coerenti con lo stipendio percepito. Di tali dichiarazioni, che dovrebbero essere rese pubbliche sul sito web della Camera e del Senato, non c’è traccia. Perché il Presidente del Senato non comincia a renderle pubbliche sul sito web dell’Alta Istituzione? Per quanto riguarda le lobbies, la situazione è ancora più imbarazzante. Qualcuno si chiederà come esse facciano ad accedere ai Palazzi del potere. In molti sistemi democratici avanzati (Stati Uniti d’America, Unione europea, Canada, Gran Bretagna, Germania, Francia, Austria, Francia) esiste un registro dei lobbisti in cui questi devono dichiarare chi li paga e per fare cosa; i soggetti iscritti nel registro hanno, tra l’altro, il diritto ad entrare in Parlamento. E in Italia? In Italia l’accesso a Camera e Senato dipende dall’assoluta discrezionalità del Collegio dei questori (composto da deputati o da senatori) che decide, di volta in volta e sulla base delle richieste dei lobbisti più o meno “amici”, a chi rilasciare un tesserino di accesso permanente a Palazzo, senza dover in alcun modo motivare. L’effetto è che le grandi lobbies hanno libero accesso mentre quelle le lobby economicamente più deboli restano fuori. Anche qui: ricordate l’allora Presidente Renato Schifani tuonare contro le lobby che banchettavano appena fuori dalla porta della Commissione Bilancio? Che ne è stato di quei tuoni? Un temporale estivo, si direbbe… Molti dei ministri in carica, avendo avuto significative esperienze europee, sanno perfettamente quanto importante sia il ruolo svolto dalle lobbies in un sistema democratico. D’altronde l’attività di lobbying è, anche in Italia, un diritto costituzionale, come ha evidenziato la Corte costituzionale in diverse sentenze a partire dal 1974. Ed infatti solo nei sistemi illiberali le lobbies, al pari di tutti gli altri corpi intermedi, sono proibite. Il problema, dunque, non sono le lobbies ma è l’assenza di regole (o la loro disapplicazione) che permettano a questi soggetti di interagire con la politica in modo trasparente, partecipato, uguale per tutti. Oggi più che mai è il tempo delle lobbies. Ed è tempo che esse siano regolate: perché il loro contributo è prezioso per il decisore pubblico; perché, nell’assenza di regole, fioriscono soggetti ed interlocutori che, presentandosi come lobby, operano con strumenti poco ortodossi; perché solo in questo modo si può rendere davvero trasparente il processo decisionale. Il governo in carica ha tutte le carte in regola per riuscire laddove gli altri o non hanno tentato o hanno fallito. Si potrebbe prendere ad esempio quello che è stato già fatto dal Ministero dell’Agricoltura, che ha introdotto un Elenco dei Lobbisti cui ora la ministra Nunzia De Girolamo dovrà dare attuazione. O si potrebbero considerare le proposte formulate negli ultimi 7 anni dal think-tank VeDrò, di cui il presidente del Consiglio Enrico Letta è il fondatore. Si dirà che è una vana speranza? Speriamo di no. E comunque si sa: la speranza è l’ultima a morire. * Pier Luigi Petrillo coordina il gruppo di lavoro “Lobby” di VeDrò e l’Unità per la trasparenza del Ministero dell’Agricoltura. E’ docente di Teoria e tecniche del Lobbying alla Luiss Guido Carli. Su twitter è plpetrillo  Fonte: Formiche.net

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