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L'ambientalismo non sfoci nella lobby-fobia (Lettera43)
Scritto il 2016-04-07 da Redazione su Italia

Uno dei temi più caldi dell’agenda mediatica italiana è l’imminente referendum, indicato convenzionalmente (e in modo piuttosto semplicistico) come una consultazione “sulle trivelle”. Non è questa la sede per entrare nel merito della questione né per passare in rassegna le ragioni a favore del sì e del no.

GLI INTERESSI IN CAMPO. È chiaro che molti e contrastanti sono gli interessi in campo: i governatori regionali che si fanno portavoce delle proprie comunità locali, il governo che difende la strategicità di una politica energetica orientata a una rafforzata autonomia, le imprese che reclamano sicurezza per i propri investimenti, le associazioni ambientaliste che denunciano il rischio di pesanti ricadute. Come spesso accade, il referendum non è una mera chiamata alle urne per valutare la durata ottimale del periodo di concessione di siti di estrazione nell’Adriatico. Interessi, ideali, politica si mescolano in un impasto spesso difficile da sciogliere.

L'AMBIENTE AL CENTRO. I dibattiti sul merito delle questioni rischiano perciò di essere messi in ombra dallo scambio di bordate tra l’una e l’altra tifoseria. Al centro i temi energetico ed ambientale, fondamentali per il nostro Paese. Temi troppo spesso associati alle zone grigie nelle quali vengono immeritatamente collocate le presunte “lobby” del settore, come dimostrato dai pesanti attacchi mediatici che hanno spinto il ministro allo Sviluppo Economico Federica Guidi a fare un passo indietro, pur non essendo coinvolta in alcuna inchiesta giudiziaria. Le strumentalizzazioni del caso e il collegamento forzato di tale vicenda con il referendum non fanno onore a chi difende la propria posizione con dati e analisi. Anche in America l’accusa di essere al soldo della cosiddetta “lobby dei petrolieri” ha suscitato la reazione ferma della candidata alla nomination per la presidenza degli Stati Uniti, Hillary Clinton.

Gira da giorni uno spezzone video in cui Hillary, a margine di un comizio, reagisce con durezza alla domanda di un attivista di Greenpeace sui suoi legami con le industrie petrolifere. «Sarebbe disposta a rinunciare ai contributi finanziari di compagnie che operano con i combustili fossili?», questo il quesito rivoltole a bruciapelo in mezzo alla folla. La risposta della Clinton è stata netta: ha puntualizzato che le donazioni arrivano dai lavoratori del settore petrolifero e non dalle compagnie. Conclusione piccata e velenosa: «Sono stanca di sentire le bugie dei sostenitori di Sanders!».

I NUMERI STANNO CON HILLARY. Il senatore indipendente del Vermont, oltre a essere il suo principale competitor, ha gioco facile nell’attaccarla per i suoi indubbi legami con la finanza e la grande industria. È evidente che indicare la rivale come la preferita dei “petrolieri” è un modo per rallentarne la corsa verso la Casa Bianca. Ma è davvero così? Il Washington Post, utilizzando i dati raccolti dal Center for Responsive Politics, ha messo in fila i numeri per giustificare la stizza della Clinton. Le cifre sembrano dare ragione all’ex first lady. Al di là di qualsiasi argomentazione retorica, contano i contributi effettivamente incassati da ogni candidato. In primo luogo, è vero che la Clinton ha ottenuto dal settore oil & gas più di Sanders, ma il primato spetta ai Repubblicani provenienti da Stati quali Louisiana e Texas.

LA TRASPARENZA AMERICANA. Altro punto messo correttamente in evidenza dalla Clinton: non sono le imprese del settore a versare donazioni, ma i lavoratori. Il quotidiano fa un esempio interessante: se il gestore di un punto di vendita Chevron dona 20 dollari a Sanders, tale contributo risulta comunque proveniente dall’industria petrolifera nel complesso. Le percentuali sul totale sono comunque ridicolmente basse: 0,15% per la Clinton, 0,04% per Sanders. Greenpeace fa bene a fare il suo lavoro, ma sbaglia bersaglio. Non sono i soldi dell’industria petrolifera a cambiare le carte in tavola, perché sono in realtà le relazioni nei corridoi del Congresso l’unica strada per avviare un’interlocuzione duratura con un potenziale decisore pubblico. Differenze rispetto all’Italia? È tutto registrato e trasparente.

UN TEMA CRUCIALE. Sanders attacca Clinton su questo tema perché l’ambiente si avvia a diventare uno di quelli cruciali per la scelta dei candidati, come rilevato recentemente dal Time. Secondo i sondaggi, quasi il 70% degli elettori democratici considera l’inquinamento un problema “molto serio”. In vista delle primarie dello Stato di New York sia Sanders sia la Clinton si sono dichiarati contrari alla costruzione dell’oleodotto Keystone XL e a favore di un divieto di estrazione di gas e petrolio tramite la tecnica del fracking. I loro piani energetici sono imperniati sul ricorso crescente alle energie rinnovabili. Sarà il futuro presidente degli Stati Uniti a identificare il migliore compromesso tra le legittime esigenze del settore petrolifero e le altrettanto legittime preoccupazioni dell’opinione pubblica. Come dovrebbe accadere in Italia.

Fonte: Gianluca Comin, Lettera 43 

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Analizzare l'articolo 346 bis del codice penale per capire che il reato attribuito a Federica Guidi si basa sul nullaIl reato di traffico di influenze illecite è come la corazzata Potemkin del film di Fantozzi, una boiata pazzesca: la si può girare come si vuole, ma alla fine i conti non tornano, perché è costruito sul nulla”. Non gira attorno alla questione Tullio Padovani, professore di Diritto penale all’Università Sant’Anna di Pisa, avvocato protagonista di accese battaglie legali in difesa di manager come Marco Tronchetti Provera e banchieri come Giuseppe Mussari (processo Monte dei Paschi). Per capire a pieno perché il reato che ha scatenato le dimissioni del ministro dello Sviluppo, Federica Guidi, sia in realtà basato sul “nulla”, occorre chiarire la fattispecie di cui si sta tanto parlando, disciplinata dall’articolo 346 bis del codice penale: è colpevole di traffico di influenze illecite colui (spesso definito “faccendiere”) che sfruttando la relazione con un pubblico ufficiale si fa dare o promettere “indebitamente” denaro da un privato per spingere il funzionario amministrativo a compiere un atto contrario ai suoi doveri d’ufficio, in favore del privato stesso. Un reato molto prossimo a quello previsto dall’articolo 346, compiuto dal millantatore che però, a differenza del “faccendiere”, è un semplice “venditore di fumo”, dal momento che non può disporre realmente di una relazione con il pubblico ufficiale. Dall’art. 346 bis possono dunque emergere due ipotesi di reato, due “gambe” come le definisce Padovani, entrambe incardinate su un terreno giuridico piuttosto farraginoso. La prima ipotesi è che il “faccendiere” si faccia pagare da un privato per influire sull’attività di un pubblico ufficiale, senza però l’intenzione di corromperlo. Una semplice attività di mediazione, ossia di lobbying, fino a prova contraria non illegale, in cui si tenta di convincere per esempio un parlamentare della bontà pubblica di una determinata decisione. Quand’è che quindi questa attività costituisce reato? Quando – recita l’art. 346 bis – l’attività viene svolta in maniera “indebita”, e qui, spiega Padovani, casca il primo asino: “E’ un requisito che i penalisti chiamano di illiceità speciale: la condotta per diventare penalmente illecita deve già esserlo di per sé, ma per poter definire un illecito ci vuole una legge che chiarisca cos’è una mediazione, legge da noi inesistente”. Con la conseguenza che spetta al magistrato colmare, con ampi margini di discrezionalità, il vuoto normativo. Non solo: il mediatore, una volta ottenuti i soldi dal privato, potrebbe in realtà anche decidere di non influire sul pubblico ufficiale. Si potrebbe insomma avere alla fine un soggetto condannato per traffico di influenze illecite, ma che in verità non ha mai cercato di condizionare l’amministratore pubblico.La seconda ipotesi di reato prefigurata dall’art. 346 bis è quella in cui il mediatore riceve del denaro anche per corrompere il pubblico ufficiale. Attenzione, però: per rimanere nell’ambito del traffico di influenze illecite, e non sfociare invece nel reato di corruzione, il denaro fornito al mediatore per corrompere il funzionario pubblico non deve essere effettivamente consegnato o promesso a quest’ultimo. “Si costituisce – spiega Padovani – un’attività meramente preparatoria del delitto di corruzione, che quindi non si completa. L’inghippo sta che l’incriminazione poggia tutta sulla finalità, ma la finalità sta nella testa della gente, e come fai a stabilirla?”. Da qualunque parte la si guardi, insomma, la norma palesa ambiguità preoccupanti in relazione alla certezza del diritto: “Si è di fronte a una fattispecie di reato che sembra esistere ma non esiste”, commenta il professore, perché “non ha uno spazio applicativo definito”, né sul primo fronte, quello della mediazione (dove manca una legge che fissi le categorie di lecito e illecito), né sul secondo fronte, quello della “corruzione abortita”, da dimostrare rintracciando oscure “finalità” corruttive. L’articolo 346 bis ha insomma “un grado di consistenza paragonabile agli zombie del film ‘La notte dei morti viventi’”, ribadisce Padovani. “Una boiata pazzesca”, sorride. Arriviamo così alla vicenda specifica del ministro Guidi, al quale – pur non essendo al momento indagato – viene rimproverato di aver inserito nella legge di Stabilità del 2015, su pressione del suo compagno e imprenditore Gianluca Gemelli, l’emendamento che sbloccava il progetto d’estrazione petrolifera Tempa Rossa, favorevole alla Total, che avrebbe poi “ripagato” l’intermediazione di Gemelli affidando un subappalto a una delle sue aziende. Una vicenda che, posta in questi termini, secondo Padovani lascia “disorientati”, perché è difficile capire a cosa si riferiscono i pm: “Il giudice penale non può stabilire se quell’atto andava bene o no, non può sindacare il merito di una decisione politica. E poi di cosa parliamo? E’ stato Renzi a dichiarare pubblicamente di aver inserito l’emendamento nella legge, e non la Guidi”. “Non riesco a credere che tutta la vicenda sia stata costruita solo su questo – aggiunge il professore – quindi credo, anzi voglio sperare, che la procura di Potenza si sia concentrata pure su altre ipotesi di reato, anche perché se hanno chiesto misure cautelari, il 346 bis c’entra come un cavolo a merenda”. Purtroppo, però, “i giornalisti vengono attratti da questo nome che circola, ‘influenze illecite’, e perdono di vista la luna che sta dietro il dito”. Dove la luna, in questo caso, è costituita dall’insieme dei reati su cui indagano i pm e che evidentemente ancora non sono finiti sui giornali, e dove il dito, invece, è rappresentato dal traffico di influenze illecite, un reato con “consistenza criminosa inafferrabile”, peraltro di modesta entità (prevede una pena da 1 a 3 anni). E allora perché è stato inserito nel codice penale? “Perché faceva tanto fine, tutti parlavano del traffico di influenze e allora mettiamocela anche noi una normettina nel codice, così rinfreschiamo la stanza, mettiamo un mobile nuovo. Ma poi ci rendiamo conto che un mobile senza cassetti non serve a niente”.   

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Tutti i disegni di legge sono fermi, a dispetto delle intenzioni più volte dichiarate, così come la legge sul conflitto di interessi. Ma ora il governo, per riscattarsi dal caso Guidi, dice di volere intervenire"Dobbiamo cercare di arrivare ad avere una legge», dice Maria Elena Boschi. Come impegno è un po’ poco, ma il messaggio che il ministro vuole mandare dalle poltrone dello studio di Porta a porta è che il governo intende accelerare sulla legge che dovrebbe regolare il rapporto tra i parlamentari e i lobbisti, i portatori di interessi che lavorano per aziende, multinazionali, categorie professionali o sociali.Legge che non c’è e la cui assenza è illuminata dalla vicenda di Federica Guidi, dalle telefonate tra l’ex ministro dello Sviluppo economico, già accusata di conflitto di interessi per via dell’azienda di famiglia, Ducati Energie, e il suo compagno, Gianluca Gemelli, accusato di «traffico di influenze illecite».L'accusa di Gemelli cita l’articolo 346 bis del codice penale, un reato voluto dal ministro Cancellieri che però da solo non regolamenta le molteplici forme con cui le lobby si interfacciano con le istituzioni, ed è insufficiente a definire i confini di quella che potremmo considerare un’attività di lobby positiva, come nota Pier Luigi Petrillo, professore di Teorie e tecniche del lobbying alla Luiss Guido Carli di Roma: «Si è introdotto il reato di traffico, che descrive il lobbying illecito, senza tracciare prima i confini del lobbying lecito».Per ora però le intenzioni, ribadite da Boschi, non hanno prodotto molto. Sono quasi due anni che la commissione Affari costituzionali del Senato ha in mano una serie di testi sulla materia, più o meno stringenti. Ed è quasi un anno che tra le dodici diverse proposte è stato individuato un testo base, quello dell’ex Cinque Stelle Luis Orellana, su cui sono stati presentati circa 250 emendamenti.«Ma non sono neanche ancora stati raccolti in un fascicolo», dice all’Espresso Orellana, «tant’è che non ho potuto ancora leggerli, non essendo io membro della prima commissione». Dopo le dichiarazioni di Maria Elena Boschi i più scommettono che la presidente Anna Finocchiaro faccia riprendere l’iter, perché nel merito non se ne discute da giugno 2015, salvo l’impegno messo a verbale nella seduta del 25 novembre scorso, quando la commissione si riprometteva di «riprendere l’esame del disegno di legge».Cosa mai successa. Tra gli aspetti positivi del testo di Orellana c’è il cosiddetto divieto “revolving doors": il rappresentate o il dirigente dell’istituzione pubblica, se cambia lavoro, non potrà diventare lobbista, almeno per due anni.A parziale discolpa dei senatori bisogna dire che la commissione ha prima dedicato molti mesi alla riforma costituzionale e poi ora ha sotto esame, tra le altre, la legge sul conflitto di interessi già approvata alla Camera (anche questa sarebbe stata utile nel caso Guidi, anche se il testo in questione non avrebbe impedito la nomina della vicepresidente di Confidustria) e la riforma della legge sul sostegno all’editoria. Comunque, mentre si attende di capire come il governo voglia concretizzare l’impegno dichiarato e se la commissione del Senato possa accelerare, la Camera dei deputati potrebbe esser la prima a intervenire.Un testo fotocopia di quello di Orellana è stato infatti presentato anche Montecitorio dalla deputata di Scelta Civica Adriana Galgano, anche se il successo per ora è lo stesso. Scarso: presentata a ottobre 2015, assegnata alla prima commissione, l'iter non è cominciato. Più fortunato potrebbe esser invece Pino Pisicchio. La giunta per il regolamento, infatti, venerdì 8 aprile chiude il termine per la presentazione degli emendamenti al testo che porta la firma del deputato centrista e che punta a istituire «un registro dei soggetti che svolgono attività di relazione istituzionale nei confronti dei deputati». Sarebbe solo un protocollo, e durerebbe solo fino alla fine della legislatura (questo perché altrimenti dovrebbe passare al voto dell’aula) ma sarebbe un primo passo avanti: «Molto piccolo», commenta Orellana, «perché a differenza di quello che potrebbe fare una legge vera e propria riguarda solo i deputati e non tutti gli altri decisori pubblici su cui i portatori di interessi esercitano le loro legittime pressioni. Non c’è il governo, tanto per cominciare e quindi non ci sarebbe stata la Guidi, e non ci sono i dirigenti dei ministeri che spesso sono più preziosi di noi parlamentari». «Entro la fine di aprile possiamo approvarlo», dice comunque Pisicchio. E almeno sapremmo chi può entrare a Montecitorio oltre ai deputati e ai giornalisti.Con il protocollo della Camera, non si risolve certo il tema degli incontri fuori dalle istituzioni, né il tema dei finanziamenti delle aziende alla politica, che d’altronde non risolve neanche il testo Orellana che prevede sanzioni per chi non si iscrive ai registri e l’obbligo per i portatori di interessi di pubblicare un annuale report su chi si è incontrato e perché. «Si potrebbe inserire anche l’obbligo di un report per i decisori pubblici», ragiona Orellana con l’Espresso, «così da incrociare i dati e verificare le dichiarazioni, ma certo gli incontri informali, a casa o in un caffè, si potrà sempre trovare il modo di tenerli segreti». Quello di Pisicchio sarebbe comunque un passo verso un registro sul modello delle istituzioni europee, dove c’è il “Registro per la Trasparenza”, un database dove sono iscritte quasi 10mila lobby, di tutti i Paesi, Italia inclusa. Se ne iscrivono 50 ogni settimana tra uffici di consulenza, gruppi di categoria, di settore, dell'industria o studi legali, liberi professionisti, associazioni professionali, charity e ovviamente ong e gruppi religiosi.E proprio al modello europeo pensa il professor Petrillo che ancora a Annalisa Chirico de Il Foglio dice: «Non serve l’ennesimo albo professionale, io li abolirei tutti. Basterebbe introdurre un registro, sul modello europeo, fissando criteri di accesso trasparenti». Parlamentari e ministri, però, dovrebbero poi esser obbligati «a tenere un’agenda conoscibile degli incontri con i portatori di interesse». Il cittadino così potrebbe valutare la frequenza degli incontri e gli effetti sulle norme approvate. Sui finanziamenti, invece: «Le lobby non dovrebbero finanziare le campagne elettorali», dice ancora il professore. Ma qui l’orientamento è diverso. Nessuna delle leggi presentate affronta il tema, che d’altronde è stato normato con la riforma del finanziamento dei partiti, mantenendo solo il 2 per mille come forma di finanziamento pubblico e consentendo i finanziamenti privati anche da società e associazioni.Fonte: Luca Sappino, L'Espressohttp://goo.gl/EiQrGo

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Lo scandalo ha messo in risalto l’immobilismo del Parlamento sulla regolamentazione delle lobby e del conflitto d’interessiScoppia il caso Guidi e la mancata regolamentazione dell’attività di lobby torna alla ribalta del dibattito politico e con essa anche la riforma delle norme in materia di conflitto di interessi.Il testo base sulle lobby (S. 1522 e conn.) giace da mesi in commissione Affari Costituzionali al Senato dove è stato continuamente posticipato il termine per la presentazione degli emendamenti senza poi fare alcun passo avanti. Circa un mese fa era stata avanzata l’ipotesi di trasferirlo direttamente all’interno del disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza (S. 2085), per consentirne un’accelerazione dell’iter, ma l’ipotesi è tramontata pare definitivamente.Alla fine di febbraio, invece, la Camera ha approvato in prima lettura una proposta di legge volta a superare l’attuale e contestatissima legge in materia di conflitto di interessi, emanata sotto il governo Berlusconi (C.275 e abb.). Il provvedimento, inoltrato all’altro ramo del Parlamento, non è ancora ancora calendarizzato.Ci si interroga adesso, di fronte alle vicende che hanno portato alle dimissioni del ministro dello Sviluppo economico, cosa sarebbe successo se questi due provvedimenti fossero già diventati legge.Se fosse stato operativo il registro di chi svolge attività di lobbying, il compagno della ex ministro Federica Guidi avrebbe dovuto e potuto esservi regolarmente iscritto ed avrebbe dovuto dichiarare in maniera trasparente i suoi scopi professionali e i suoi clienti. In questo caso il conflitto d’interessi sarebbe stato immediatamente evidente e, di conseguenza, sarebbe stato molto difficile coprire i motivi che hanno portato l’emendamento sotto i riflettori dei media.Il riconoscimento ed una buona regolamentazione delle lobby e norme chiare ed inequivocabili in materia di conflitto di interessi, potrebbero per il futuro impedire che clientelismo e nepotismo si instaurino in un sottobosco di opacità in cui è lecito far passare leggi in virtù di un’amicizia e non di un interesse pubblico.Fonte: Polit'xhttp://goo.gl/922bUZ

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