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IlVelino_Il lobbista e il suo mercato
Scritto il 2014-04-24 da Franco Spicciariello su Italia

Parole in libertà davanti a un bicchiere di vino: questo è stato lo spirito con il quale il gruppo di amici di Laboratorio Liberale, ex alunni della Scuola di Liberalismo della Fondazione Luigi Einaudi, si è ritrovato per confrontarsi sul quesito se “il lobbismo fosse fonte di libertà”, al quale hanno partecipato, tra gli altri Alfredo Borgia (Sky Italia), Francesco Delzio (Autostrade), Franco Spicciarello (Open Gate Italia) e Paolo Zanetto (Cattaneo&Zanetto). Un quesito di difficile soluzione perché, a seconda delle angolazioni e dei punti di vista, il ruolo delle lobby potrebbe vedersi come utile supporto per il decisore e la cittadinanza, ma anche come ostacolo all’innovazione e all’apertura dei mercati.

La positiva dinamica del lobbismo è data dal fatto che la rappresentazione di interessi non può essere inserita in caselle predefinite: la singola persona può essere contemporaneamente un consumatore che agisce come utente interessato, o un portatore di un interesse economico per l’azienda in cui lavora, un cittadino interessato a temi di carattere sociale/etico, che nulla hanno a che vedere con la sfera economica. Il portatore di interesse non è necessariamente il portatore di un interesse economico, questa galassia di interessi si confronta in un mercato della policy che deve essere il più possibile trasparente sia per gli attori che portano un interesse dichiarato, sia agli occhi di terzi che vogliono osservare il punto di ricaduta. Questa è la teoria della public policy di Olson, questo è il sistema di determinazione dei prezzi del mercato che trae beneficio in termini di efficienza economica dall’aumento della quantità di informazioni disponibili. In questo contesto le lobby cercano di rendere il soggetto decisore il più possibile informato e ciò dovrebbe portare benefici sia in termini economici che in termini di trasparenza. Il ruolo del lobbista dovrebbe essere quello di far emergere una posizione e di creare un dibattito tra le istanze divergenti.

Eppure in Europa, dove il capitalismo è contaminato dal familismo e il clientelismo, bisogna evitare (come sottolinea Luigi Zingales nel suo “manifesto Capitalista”) che le grandi aziende, in particolare le grandi banche, abbiano la tentazione di controllare il sistema politico , utilizzando come strumento il lobbismo. Ci sono infatti molti settori in cui oggi, in qualsiasi governo di qualsiasi parte del mondo, si può legiferare solo attraverso i lobbisti. Basti pensare al mercato dei derivati finanziari: non c’è nessun governo al mondo che ha le capacità tecniche adeguate per poterne regolamentare il mercato. Oggi i lobbisti sulla sofisticazione ingegneristica di molti mercati hanno un potere che non hanno mai avuto nella storia, è cosi persino in campi come quello aereonautico.

Il lobbista ha un’altra arma molto pericolosa e che non aveva in passato: oggi può condizionare qualsiasi mezzo di comunicazione di massa. Ed è cosi per la debolezza di gruppi editoriali, tra cui praticamente non esiste più un editore puro, salvo rari casi. Unite queste due caratteristiche del “male”, capacità tecniche esclusive del lobbista, del settore, dell’azienda e capacità di condizionamento assoluto dei media, oggi un bravo lobbista può chiudere il mercato, può fare ciò che vuole.

E rimanendo in tema di condizionamento dei lobbisti nei confronti dei decisori, non si può nascondere il problema del finanziamento della politica. Francesco Forte sostiene che in un sistema politico “liberale” ad economia di mercato, gli organismi sindacali, le cooperative, le associazioni religiose dovrebbero essere indipendenti dai partiti e il finanziamento dei partiti da parte di privati dovrebbe essere trasparente. Così come trasparenti dovrebbero essere le attività lobbistiche. Ma, per loro natura, il finanziamento di partito e il lobbismo che s’instaurano e rafforzano tramite la simbiosi fra partiti ed organismi collaterali, con annesse “porte girevoli”, per i dirigenti degli uni e degli altri, non sono trasparenti. E generano effetti perversi, tramite i finanziamenti extra bilancio dei partiti e il rafforzamento del neocorporativismo. Il primo problema dello Stato, quello italiano in particolare, è che ha troppi soldi da spendere e li usa in troppi modi diversi. La maggior parte di soggetti citati da Forte quali cooperative, associazioni, fondazioni, sono sovvenzionati da una serie di sistemi che consente loro di sopravvivere nonostante dovrebbero essere sul mercato. Questi gruppi associativi non camperebbero mai con le loro attività, ma non hanno neanche interesse a campare con le quote dei loro associati, perché vengono finanziati in mille modi diversi attraverso progetti creati ad hoc, tutti finanziati dalla macchina statale.

In pratica, in Italia i gruppi di interesse sono finanziati dalla politica, ma la politica non è finanziata dai gruppi di interesse. Gordon Tullock verso la fine degli anni 70 fece una famosa domanda provocatoria: “come mai ci sono cosi pochi soldi privati nella politica?” Posto che una decisione regolatoria del Governo vale miliardi per qualsiasi settore, come mai sono cosi relativamente pochi i soldi che vengono investiti in questo processo? E come mai in un modello come quello americano, dove il finanziamento della politica è a capitale esclusivamente privato, la maggior parte delle erogazioni provengono da singoli cittadini che mettono ciascuno poche decine di dollari, anziché dalle grandi corporazioni, che investono milioni di dollari per comprare il favore e l’amicizia del politico? La verità è che questo è un investimento inefficace non tanto per ragioni etiche quanto per ragioni pratiche. La prova sta nel misurare, ad esempio, l’efficacia in tal senso della lobby del tabacco, accusata dai più di aver comprato il senato americano nei modi più indegni. L’ultima volta che il senato americano ha dovuto decidere nel merito di un provvedimento che andava a regolamentare in senso negativo l’industria del tabacco, dei primi 10 senatori che avevano ricevuto i maggiori finanziamenti da tale industria, 8 su 10 hanno votato a favore dell’inasprimento. Il tema è più difficile, anche perché il politico è attento alle funzioni di controllo della stampa, dell’opinione pubblica e dei singoli elettori, che possono verificare lo scrutinio del singolo provvedimento e monitorare se la decisione è stata distorta contro l’interesse generale e a favore di qualcuno. Il denaro non automaticamente compra consenso in ambito politico, il denaro paradossalmente è speso meglio in attività di lobbying che punti sui contenuti.

Il sistema delle donazioni ai partiti è legale anche in Italia ma è poco diffuso per molte ragioni sociali. Se si guarda alle donazioni fatte per la campagna elettorale del 2013, si scopre che non esiste una sola donazione del valore superiore a 100 mila euro fatta da qualcuno che non fosse un candidato all’interno del partito politico. La singola donazione più alta fatta da un soggetto non candidato è stata erogata dall’ amministratore delegato di Prada a favore del partito per il quale provava un’idealità, ma in generale in Italia non accade nient’altro che una grande partecipazione popolare da parte di soggetti che hanno donato piccole somme come forma di partecipazione alla politica.

Il denaro può sicuramente alterare la percezione da parte del politico nel senso di rispondenza ad un interesse particolare piuttosto che un interesse generale, ma nell’esperienza americana la massa di denaro a disposizione del finanziamento elettorale senza una forma di finanziamento pubblico, dove la massa di denaro è stata enorme, non ha prodotto effetti empiricamente efficaci. L’efficacia dell’investimento è stata tutt’altro che dimostrata, al punto tale che alcuni dei maggior spender in attività di lobbying in America è completamente assente dal piano del finanziamento elettorale evidentemente non solo per ragioni etiche, ma perché lo riterranno poco efficace. Come nella cultura europea l’investimento della risorsa scarsa tempo nel partecipare al comizio, alla manifestazione di piazza è stata la forma di partecipazione alla vita politica per decine di anni, allo stesso modo nella cultura americana “autotassarsi” è un modo di partecipare ad un processo elettorale certamente meno territorializzato che in Europa.

Un’altra analisi interessante riguarda le spese trasparenti (quindi tutte tracciate) di lobby negli Usa degli ultimi 4 anni. Il dato curioso ma inquietante è che i due settori nei quali il governo Obama ha legiferato di più e su cui ha fatto le due riforme più incisive, ovvero sanità ed energie rinnovabili, sono i due settori nei quali le aziende hanno investito di più in spese di lobby. La loro capacità di influenza è stata misurata rispetto agli effetti delle riforme sul fatturato del settore di riferimento: gli investimenti in lobby di questi due settori rappresentavano solo 1% dell’aumento di fatturato dovuto alle conseguenze delle riforme Obama. Pagando 1 hanno ottenuto 100. Questo non dimostra e non vuol dimostrare che si possa comprare la decisione del governo Obama, ma è una spia importante del fatto che le spese di lobby negli Usa sono certamente l’investimento con il ritorno più alto.

Inoltre, uno studio del 2007 di UCLA spiega come, superata una certa cifra base, ogni aumento dell’1% in investimenti in lobbying consente una diminuzione della pressione fiscale su quell’azienda tra lo 0,6 e l’1%. Nel 2007 il 54% degli sgravi fiscali degli Stati Uniti è stato preso da 100 società soltanto. Non si compra dunque la politica ma l’investimento in conoscenza fornito alla politica, e questo avviene in molti settori cruciali, dalla finanzia alla R&S. Tali investimenti portano non solo a partecipare alla costruzione della norma, ma anche ad adattare la propria azienda a tali norme ed anticipare così i propri competitors. L’investimento in lobbying in Italia è arretrato, perché non si è ancora percepito quali siano i benefici diretti, ma anche quelli indiretti, intesi come regolamentazione del mercato.

Dunque la debolezza del modello lobbistico americano in Italia è forse dovuta anche dalla scarsa sensibilità e dalla scarsa percezione della forza dei contenuti dei lobbisti sui decisori. Anche perché in Italia sembra abbia preso più piede un lobbismo “ad personam”, si punta più sulle persone e le loro capacità relazionali che sui contenuti. Come diceva Michael Walzer, “l’efficacia del lobbismo dipende principalmente dalla capacità di allacciare strette relazioni personali ovvero dalle reti sociali e da amicizie individuali, un buon lobbista compensa la debolezza o la scarsità degli argomenti con il fascino, l’inserimento e la conoscenza diretta.”

Per riuscire a rappresentare le proprie istanze non dovrebbe servire la propria capacità relazionale, dovrebbero bastare le procedure di trasparenza previste dall’ordinamento, come avviene in Europa. Il problema è che in Italia le procedure non funzionano: sebbene sia prevista l’analisi d’impatto per ciascun provvedimento regolatorio, di fatto il Governo non la applica. D’altronde il potere governativo sta prevalendo nettamente rispetto alla funzione del Parlamento, e decreti legge, disegni di legge, decreti ministeriali, vengono scritti da oscuri funzionati che spesso non hanno competenze specifiche sulle materie in oggetto, cosicché i provvedimenti arrivano in Gazzetta Ufficiale senza che possano essere minimamente valutati. Una mancanza di trasparenza delle procedure che fortunatamente non troviamo nelle autorità regolatorie, dove ad ogni presentazione in bozza di una delibera si aprono le consultazioni pubbliche, dove vengono rispettate procedure e competenze e dove il decisore ha la possibilità (e il dovere) di informarsi, e poi decidere autonomamente.

Perché i parlamentari si nascondono dietro un nome indefinito che evoca mostri lontani e imprendibili per scaricare le proprie responsabilitàdi Pier Luigi PetrilloEcco, ci risiamo: è colpa delle lobby. Sul Foglio la senatrice Linda Lanzillotta (Pd) ha ammesso perlomeno che le cosiddette lobby avranno sì frenato il disegno di legge Concorrenza, bloccato da un anno in Parlamento, ma anche la flemma della politica ha avuto un ruolo. Effettivamente, non mi risulta che le lobby abbiano occupato il Parlamento, si siano sostituite ai deputati di maggioranza e abbiano votato emendamenti a loro favorevoli. Mi risulta, invece, che siano stati i deputati di maggioranza a presentare emendamenti a favore di certe lobby e a votarli a maggioranza (appunto).Il disegno di legge sulla Concorrenza non è il frutto di una elucubrazione accademica ma la conseguenza naturale, in un sistema democratico, della precisa scelta politica della maggioranza che sostiene il governo; una scelta indirizzata a sostenere taluni ordini, corporazioni (anche micro), settori produttivi del paese in situazione di sostanziale monopolio. Badate bene, si tratta di scelte legittime che qui non si contestano. Ciò che si contesta è che, come al solito, ci si nasconde dietro un dito e quel dito ha un nome indefinito che evoca mostri lontani e imprendibili: le lobby, appunto! E’ colpa delle lobby se non si fanno le liberalizzazioni; colpa delle lobby se il paese ristagna in paludi ottocentesche; sono le lobby a impedire riforme strutturali. Il grande merito del governo Renzi è stato quello di dimostrare che non è così; all’opposto Renzi ha dimostrato che se c’è la volontà politica è possibile superare ogni lobby e fare davvero ciò che si è promesso di fare. Il presidente del Consiglio ha ottenuto ciò che voleva in materia di lavoro, banche, assicurazioni, perfino di riforme costituzionali ed elettorali: ha vinto su lobby temibili e inarrivabili fino a qualche tempo fa, come i sindacati (o i professori di diritto costituzionale, categoria alla quale appartengo). La maggioranza in Parlamento ha dimostrato di poter approvare in poche settimane leggi molto contrastate da talune di queste lobby. Il dato, quindi, è uno solo: in questo caso e in materia di concorrenza e di liberalizzazione, la maggioranza ha deciso da che parte stare, ha espressamente deciso di assecondare talune lobby (quelle dell’immobilismo: dai soliti tassisti agli albergatori confederati) contro altre (quelle dei consumatori, per esempio). Per non ammettere questo dato di fatto, così evidente da sembrare davvero stucchevole ogni polemica sull’articolo di Giavazzi del Corriere di qualche giorno fa, ci si nasconde dietro al consueto paravento: le lobby, queste sconosciute, brutte, sporche e cattive. E per mantenere in vita il paravento, dietro cui la politica si nasconde, non viene approvata alcuna regolamentazione del lobbying: proprio in occasione del ddl Concorrenza, alcuni senatori hanno provato a proporre qualche norma ma sono stati prontamente stoppati. Non possono essere approvate, infatti, norme che rendano trasparente l’azione dei lobbisti perché altrimenti cadrebbero gli altarini e si scoprirebbe ciò che tutti sanno: ovvero che laddove la politica è fragile e mancano indicazioni chiare, i parlamentari si sentono liberi di assecondare le lobby a loro più vicine (magari perché ne finanziano la campagna elettorale) perché sanno che, nell’oscurità che circonda il mondo delle lobby, non sarà mai colpa loro, non dovranno mai rendere conto delle loro scelte a nessun elettore (gli inglesi direbbero accountability). L’assenza di una legge sulle lobby impedisce all’elettore di comprendere cosa c’è davvero dietro l’emendamento presentato dal singolo deputato, quale interesse e chi l’ha redatto; impedisce di sapere chi paga e per cosa. Ma Renzi potrebbe battere un colpo e chiedere conto di taluni voti in Senato che hanno affossato il ddl concorrenza col parere favorevole del rappresentante del Governo, per stupire tutti con uno dei suoi colpi di genio: presentare un maxi emendamento che sostituisce per intero questo feticcio di legge e, in un colpo solo, liberalizzare settori bloccati da secoli e sciogliere così corporazioni così vetuste da essere superate dai fatti (oltre che dal mercato). In ogni caso, in un sistema democratico come il nostro, non sarà mai colpa delle lobby ma della politica (debole, fragile, succube) che le asseconda. di Pier Luigi Petrillo, Professore di Teoria e tecniche del lobbying, Luiss

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Saranno ormai quarant'anni che si parla di regolamentare le lobby. Allora, era la metà degli anni 70, bisognava spiegare cosa significasse quella parola; nel frattempo "lobby" ha fatto a tempo a dilatarsi e insieme a rattrappirsi, comunque moltiplicando i suoi valori d'uso oltre ogni ragionevole significato. In questi casi, anche se il termine suona un po' ricercato, si dice che la lobby, anzi le lobby sono divenute polisemiche. I politici e i giornalisti, categorie per loro natura e vocazione abbastanza orecchianti, adorano le polisemie, specie quando gli lasciano le mani libere - un po' meno la testa, ma è un altro discorso. Può esistere dunque una lobby rosa, nel senso di un gruppo che favorisce gli interessi e il potere delle donne nelle istituzioni e nell'economia: "Emily", il "branco rosa" e così via. Ma anche esiste una agguerrita lobby delle armi, cioè gente che cerca di piazzare mine, cannoni e micidiali sistemi di puntamento in giro per il mondo, soprattutto ai paesi africani, cosa non proprio simpatica. Le aziende dispongono di professionisti ad hoc che battono anche il Parlamento. In una raccolta di vignette su Montecitorio, già alla metà degli anni 80 il disegnatore Vincino raffigurò "il lobbista dell'Aeritalia" che svolazzava per il Transatlantico con delle eliche che gli uscivano dal retro della giacca, come un drone ante litteram. Insomma tante cose diverse. Nell'economia la faccenda è più pacifica che in politica o nella cronaca giudiziaria. Si tratta di tutelare degli interessi, come spiegano benissimo i protagonisti dell'inchiesta di Carmine Saviano. Le Camere sono la palestra, il giacimento, l'arena, la serra, la taverna e il giardino zoologico dei lobbisti. Qualche mese fa i cinquestelle hanno beccato un ex funzionario di Montecitorio che scriveva, al volo e brevi manu, un emendamento per modificare un provvedimento in commissione, e l'hanno fatto cacciare. Hanno poi esposto il suo volto in aula con dei cartelli. Quello, poveretto, ha cercato di sminuire il suo ruolo, pure definendosi "un giuggiolone". Ma ai tempi in cui Marcello Pera presiedeva il Senato, 2005, nel depliant della sua fondazione "Magna Carta" era esplicitamente contemplata l'attività di lobbying; e l'ex presidente della Camera Irene Pivetti, adesso, cosa fa? Semplice, fa lobbying.  Dal che si intuiscono gli effetti non tanto forse della mancata regolamentazione, ma della implicita e magari anche connaturata confusione che reca in sé l'ambiguo tragitto della parola "lobby", nella sua variante "all'italiana". Così alla caduta del governo Berlusconi l'ex ministro Mastella, l'ineffabile, evocò la "lobby ebraica"; ma qualche mese prima, quando alla presidenza della Rai era arrivata Letizia Moratti, venne lanciato un allarme contro la "lobby di San Patrignano", che sarebbe una nota comunità di recupero per tossicodipendenti, ma si disse così per intendere che direttori di rete o dei tg si diventava solo previo assenso della Moratti, appunto, che dell'iniziativa di Vincenzo Muccioli (poi con il figlio e la moglie hanno ferocemente litigato) era e seguita a restare la grande patrona e finanziatrice.  Altre lobby entrate più o meno di straforo nella cronaca: la "lobby di Lotta continua" (ai tempi dei processi Sofri); la "lobby gay" (in Vaticano); la "lobby dei tesorieri di partito" (che continua a bussare a quattrini aggirando leggi e referendum). Si tratta di esempi per lo più negativi. Ma per anni il progetto educativo del cardinal Ruini è stato presentato anche dai suoi fautori come strutturalmente connesso a un'opera di lobbying a favore dei principi irrinunciabili. Bizzarro perciò è il destino dei grimaldelli semantici, sempre sul punto di trasformarsi in piè di porco. Questo, per dire, è un Lele Mora d'annata, già proteso a togliersi dagli impicci: "Io - diceva - non piazzo le starlette nei letti, faccio solo incontrare gente, lobbying, altro che festini!". Era la fine del 2006, poi è finita con qualche anno di galera. Nel frattempo le lobby crescono e si moltiplicano a loro indeterminato piacimento. E ciascuno le consideri un po' come meglio ritiene: se e quando verranno regolamentare, sarà probabilmente troppo tardi. Fonte: Filippo Ceccarelli - Repubblica.it

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Il primo di una serie di approfondimenti su lobby e regolamentazione a cura di Pier Luigi Petrillo, professore associato di Diritto pubblico e docente di Teorie e tecniche di Lobbying Ogni giorno il Presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Renzi, accusa le lobby di fermare lo sviluppo del paese. Prima di lui, l’accusa era stata mossa dai suoi predecessori: Enrico Letta, Mario Monti, Silvio Berlusconi, per limitarci agli ultimi. E con loro anche i Presidenti di Camera e Senato, periodicamente, “urlano” contro le lobby che invadono i palazzi. Eppure non si hanno notizie né di interventi governativi né di interventi parlamentari finalizzati a regolamentare i gruppi di pressione. Ogni giorno si scopre, così, che dietro ai “gufi” che vogliono lasciare immobile il Paese ed impediscono le riforme necessarie, ci sono le lobby, ogni sorta di lobby, con l’effetto che tutto è lobby, perfino i funzionari pubblici: si pensi alle “lobby” dei magistrati (“no alla riduzione delle ferie”), a quella dei dirigenti pubblici (“no alla riduzione degli stipendi”) o perfino a quella dei senatori (“no alla riduzione del Senato”). In questo quadro le lobby continuano ad essere il paravento della politica: basta dire che è colpa delle lobby per scrollarsi di dosso ogni responsabilità. E appare ovvio che se le lobby fossero regolamentate e la loro azione fosse pubblica, ecco che i cittadini scoprirebbero il gioco dello scarica barile: il paravento d’incanto cadrebbe e si scoprirebbe che la colpa di certo immobilismo non sono le lobby ma la politica. LE ULTIME TAPPE DI UN TIMIDO TENTATIVO DI FARE SUL SERIO Rispetto a vent’anni fa, tuttavia, qualche barlume di speranza comincia a vedersi. Nel 2007, durante il secondo governo Prodi, l’allora Ministro per l’attuazione del programma di governo, Giulio Santagata, spronato dal suo capo di gabinetto, il Consigliere di Stato Michele Corradino (ora componente dell’ANAC), fece approvare dal Consiglio dei Ministri il primo e unico disegno di legge in materia d’iniziativa governativa. Qualche mese dopo il governo fu sfiduciato e il testo dimenticato. Nel 2012, sotto il governo Monti, ci riprovò Mario Catania, allora Ministro dell’Agricoltura, istituendo l’obbligo per i lobbisti “agricoli” di iscriversi in un elenco pubblico. La netta contrarietà delle principali organizzazioni di categoria (Coldiretti, Cia, Confagricoltura) fece naufragare l’esperimento. Nel 2013 è il premier Enrico Letta, in prima persona, a farsi promotore di una coerente regolamentazione del lobbying, chiedendo al segretario generale di Palazzo Chigi, Roberto Garofoli, e al sottoscritto, di predisporre una bozza di disegno di legge. Ma il Consiglio dei Ministri, dopo avere approvato i principi della regolamentazione nel maggio 2013, decise di bocciare il testo predisposto, considerandolo troppo stringente. E siamo arrivati al governo Renzi: entro giugno 2014, aveva dichiarato il Premier nel Documento di Economia e Finanza 2014 (DEF), avremo una regolamentazione dei gruppi di pressione. Sono passati 3 mesi da quella scadenza ma non c’è traccia nemmeno di una qualche bozza. Eppur si muove: nel silenzio generale, il Vice Ministro alle Infrastrutture, Riccardo Nencini (forse l’unico a credere davvero all’importanza di questa questione), è riuscito ad inserire nel disegno di legge delega di riforma del codice degli appalti, un principio legato alla trasparenza dei gruppi di pressione; anni luce lontani dalla regolamentazione delle lobby ma almeno è un segnale. E’ ripartito da qui Giovanni Grasso, il giornalista dell‘Avvenire che, venerdì e sabato scorso, ha dedicato sul suo giornale un’inchiesta al rapporto tra politica e gruppi di pressione, invitando il Ministro della Funzione Pubblica, Marianna Madia, a prendere la palla in mano, trattandosi, anzitutto, di una questione di trasparenza della Pubblica Amministrazione (centrale e periferica). MA PER FARE (DAVVERO) SUL SERIO, DA DOVE RIPARTIRE? Ripartiamo dall’inchiesta di Grasso; rileggiamo gli stimoli recenti pervenuti da lobbisti d’eccezione come Gianluca Comin, per anni direttore delle relazioni istituzionali in Enel, o Stefano Lucchini, per anni a capo dell’Eni e ora in Intesa, o le proposte avanzate da Claudio Velardi, Massimo Micucci e l’ottimo gruppo del “Rottamatore”, da Fabio Bistoncini (“vent’anni da sporco lobbista”), da Franco Spicciariello e il suo sito lobbyingitalia.com, da Gianluca Sgueo su Formiche.net, da esperti come Giovanni Galgano e Giuseppe Mazzei de “Il Chiostro”, da studiosi come Maria Cristina Antonucci e Marco Mazzoni, dal collega Alberto Alemanno della New York University, dal gruppo #lobby (purtroppo non più attivo) degli ultimi 7 anni di #VeDrò, da riviste come Percorsi Costituzionali e AGE-Analisi Giuridica dell’Economia e proviamo ad offrire al Legislatore qualche idea su come e per cosa fare sul serio. Fonte: Formiche.net

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