Parole in libertà davanti a un bicchiere di vino: questo è stato lo spirito con il quale il gruppo di amici di Laboratorio Liberale, ex alunni della Scuola di Liberalismo della Fondazione Luigi Einaudi, si è ritrovato per confrontarsi sul quesito se “il lobbismo fosse fonte di libertà”, al quale hanno partecipato, tra gli altri Alfredo Borgia (Sky Italia), Francesco Delzio (Autostrade), Franco Spicciarello (Open Gate Italia) e Paolo Zanetto (Cattaneo&Zanetto). Un quesito di difficile soluzione perché, a seconda delle angolazioni e dei punti di vista, il ruolo delle lobby potrebbe vedersi come utile supporto per il decisore e la cittadinanza, ma anche come ostacolo all’innovazione e all’apertura dei mercati.
La positiva dinamica del lobbismo è data dal fatto che la rappresentazione di interessi non può essere inserita in caselle predefinite: la singola persona può essere contemporaneamente un consumatore che agisce come utente interessato, o un portatore di un interesse economico per l’azienda in cui lavora, un cittadino interessato a temi di carattere sociale/etico, che nulla hanno a che vedere con la sfera economica. Il portatore di interesse non è necessariamente il portatore di un interesse economico, questa galassia di interessi si confronta in un mercato della policy che deve essere il più possibile trasparente sia per gli attori che portano un interesse dichiarato, sia agli occhi di terzi che vogliono osservare il punto di ricaduta. Questa è la teoria della public policy di Olson, questo è il sistema di determinazione dei prezzi del mercato che trae beneficio in termini di efficienza economica dall’aumento della quantità di informazioni disponibili. In questo contesto le lobby cercano di rendere il soggetto decisore il più possibile informato e ciò dovrebbe portare benefici sia in termini economici che in termini di trasparenza. Il ruolo del lobbista dovrebbe essere quello di far emergere una posizione e di creare un dibattito tra le istanze divergenti.
Eppure in Europa, dove il capitalismo è contaminato dal familismo e il clientelismo, bisogna evitare (come sottolinea Luigi Zingales nel suo “manifesto Capitalista”) che le grandi aziende, in particolare le grandi banche, abbiano la tentazione di controllare il sistema politico , utilizzando come strumento il lobbismo. Ci sono infatti molti settori in cui oggi, in qualsiasi governo di qualsiasi parte del mondo, si può legiferare solo attraverso i lobbisti. Basti pensare al mercato dei derivati finanziari: non c’è nessun governo al mondo che ha le capacità tecniche adeguate per poterne regolamentare il mercato. Oggi i lobbisti sulla sofisticazione ingegneristica di molti mercati hanno un potere che non hanno mai avuto nella storia, è cosi persino in campi come quello aereonautico.
Il lobbista ha un’altra arma molto pericolosa e che non aveva in passato: oggi può condizionare qualsiasi mezzo di comunicazione di massa. Ed è cosi per la debolezza di gruppi editoriali, tra cui praticamente non esiste più un editore puro, salvo rari casi. Unite queste due caratteristiche del “male”, capacità tecniche esclusive del lobbista, del settore, dell’azienda e capacità di condizionamento assoluto dei media, oggi un bravo lobbista può chiudere il mercato, può fare ciò che vuole.
E rimanendo in tema di condizionamento dei lobbisti nei confronti dei decisori, non si può nascondere il problema del finanziamento della politica. Francesco Forte sostiene che in un sistema politico “liberale” ad economia di mercato, gli organismi sindacali, le cooperative, le associazioni religiose dovrebbero essere indipendenti dai partiti e il finanziamento dei partiti da parte di privati dovrebbe essere trasparente. Così come trasparenti dovrebbero essere le attività lobbistiche. Ma, per loro natura, il finanziamento di partito e il lobbismo che s’instaurano e rafforzano tramite la simbiosi fra partiti ed organismi collaterali, con annesse “porte girevoli”, per i dirigenti degli uni e degli altri, non sono trasparenti. E generano effetti perversi, tramite i finanziamenti extra bilancio dei partiti e il rafforzamento del neocorporativismo. Il primo problema dello Stato, quello italiano in particolare, è che ha troppi soldi da spendere e li usa in troppi modi diversi. La maggior parte di soggetti citati da Forte quali cooperative, associazioni, fondazioni, sono sovvenzionati da una serie di sistemi che consente loro di sopravvivere nonostante dovrebbero essere sul mercato. Questi gruppi associativi non camperebbero mai con le loro attività, ma non hanno neanche interesse a campare con le quote dei loro associati, perché vengono finanziati in mille modi diversi attraverso progetti creati ad hoc, tutti finanziati dalla macchina statale.
In pratica, in Italia i gruppi di interesse sono finanziati dalla politica, ma la politica non è finanziata dai gruppi di interesse. Gordon Tullock verso la fine degli anni 70 fece una famosa domanda provocatoria: “come mai ci sono cosi pochi soldi privati nella politica?” Posto che una decisione regolatoria del Governo vale miliardi per qualsiasi settore, come mai sono cosi relativamente pochi i soldi che vengono investiti in questo processo? E come mai in un modello come quello americano, dove il finanziamento della politica è a capitale esclusivamente privato, la maggior parte delle erogazioni provengono da singoli cittadini che mettono ciascuno poche decine di dollari, anziché dalle grandi corporazioni, che investono milioni di dollari per comprare il favore e l’amicizia del politico? La verità è che questo è un investimento inefficace non tanto per ragioni etiche quanto per ragioni pratiche. La prova sta nel misurare, ad esempio, l’efficacia in tal senso della lobby del tabacco, accusata dai più di aver comprato il senato americano nei modi più indegni. L’ultima volta che il senato americano ha dovuto decidere nel merito di un provvedimento che andava a regolamentare in senso negativo l’industria del tabacco, dei primi 10 senatori che avevano ricevuto i maggiori finanziamenti da tale industria, 8 su 10 hanno votato a favore dell’inasprimento. Il tema è più difficile, anche perché il politico è attento alle funzioni di controllo della stampa, dell’opinione pubblica e dei singoli elettori, che possono verificare lo scrutinio del singolo provvedimento e monitorare se la decisione è stata distorta contro l’interesse generale e a favore di qualcuno. Il denaro non automaticamente compra consenso in ambito politico, il denaro paradossalmente è speso meglio in attività di lobbying che punti sui contenuti.
Il sistema delle donazioni ai partiti è legale anche in Italia ma è poco diffuso per molte ragioni sociali. Se si guarda alle donazioni fatte per la campagna elettorale del 2013, si scopre che non esiste una sola donazione del valore superiore a 100 mila euro fatta da qualcuno che non fosse un candidato all’interno del partito politico. La singola donazione più alta fatta da un soggetto non candidato è stata erogata dall’ amministratore delegato di Prada a favore del partito per il quale provava un’idealità, ma in generale in Italia non accade nient’altro che una grande partecipazione popolare da parte di soggetti che hanno donato piccole somme come forma di partecipazione alla politica.
Il denaro può sicuramente alterare la percezione da parte del politico nel senso di rispondenza ad un interesse particolare piuttosto che un interesse generale, ma nell’esperienza americana la massa di denaro a disposizione del finanziamento elettorale senza una forma di finanziamento pubblico, dove la massa di denaro è stata enorme, non ha prodotto effetti empiricamente efficaci. L’efficacia dell’investimento è stata tutt’altro che dimostrata, al punto tale che alcuni dei maggior spender in attività di lobbying in America è completamente assente dal piano del finanziamento elettorale evidentemente non solo per ragioni etiche, ma perché lo riterranno poco efficace. Come nella cultura europea l’investimento della risorsa scarsa tempo nel partecipare al comizio, alla manifestazione di piazza è stata la forma di partecipazione alla vita politica per decine di anni, allo stesso modo nella cultura americana “autotassarsi” è un modo di partecipare ad un processo elettorale certamente meno territorializzato che in Europa.
Un’altra analisi interessante riguarda le spese trasparenti (quindi tutte tracciate) di lobby negli Usa degli ultimi 4 anni. Il dato curioso ma inquietante è che i due settori nei quali il governo Obama ha legiferato di più e su cui ha fatto le due riforme più incisive, ovvero sanità ed energie rinnovabili, sono i due settori nei quali le aziende hanno investito di più in spese di lobby. La loro capacità di influenza è stata misurata rispetto agli effetti delle riforme sul fatturato del settore di riferimento: gli investimenti in lobby di questi due settori rappresentavano solo 1% dell’aumento di fatturato dovuto alle conseguenze delle riforme Obama. Pagando 1 hanno ottenuto 100. Questo non dimostra e non vuol dimostrare che si possa comprare la decisione del governo Obama, ma è una spia importante del fatto che le spese di lobby negli Usa sono certamente l’investimento con il ritorno più alto.
Inoltre, uno studio del 2007 di UCLA spiega come, superata una certa cifra base, ogni aumento dell’1% in investimenti in lobbying consente una diminuzione della pressione fiscale su quell’azienda tra lo 0,6 e l’1%. Nel 2007 il 54% degli sgravi fiscali degli Stati Uniti è stato preso da 100 società soltanto. Non si compra dunque la politica ma l’investimento in conoscenza fornito alla politica, e questo avviene in molti settori cruciali, dalla finanzia alla R&S. Tali investimenti portano non solo a partecipare alla costruzione della norma, ma anche ad adattare la propria azienda a tali norme ed anticipare così i propri competitors. L’investimento in lobbying in Italia è arretrato, perché non si è ancora percepito quali siano i benefici diretti, ma anche quelli indiretti, intesi come regolamentazione del mercato.
Dunque la debolezza del modello lobbistico americano in Italia è forse dovuta anche dalla scarsa sensibilità e dalla scarsa percezione della forza dei contenuti dei lobbisti sui decisori. Anche perché in Italia sembra abbia preso più piede un lobbismo “ad personam”, si punta più sulle persone e le loro capacità relazionali che sui contenuti. Come diceva Michael Walzer, “l’efficacia del lobbismo dipende principalmente dalla capacità di allacciare strette relazioni personali ovvero dalle reti sociali e da amicizie individuali, un buon lobbista compensa la debolezza o la scarsità degli argomenti con il fascino, l’inserimento e la conoscenza diretta.”
Per riuscire a rappresentare le proprie istanze non dovrebbe servire la propria capacità relazionale, dovrebbero bastare le procedure di trasparenza previste dall’ordinamento, come avviene in Europa. Il problema è che in Italia le procedure non funzionano: sebbene sia prevista l’analisi d’impatto per ciascun provvedimento regolatorio, di fatto il Governo non la applica. D’altronde il potere governativo sta prevalendo nettamente rispetto alla funzione del Parlamento, e decreti legge, disegni di legge, decreti ministeriali, vengono scritti da oscuri funzionati che spesso non hanno competenze specifiche sulle materie in oggetto, cosicché i provvedimenti arrivano in Gazzetta Ufficiale senza che possano essere minimamente valutati. Una mancanza di trasparenza delle procedure che fortunatamente non troviamo nelle autorità regolatorie, dove ad ogni presentazione in bozza di una delibera si aprono le consultazioni pubbliche, dove vengono rispettate procedure e competenze e dove il decisore ha la possibilità (e il dovere) di informarsi, e poi decidere autonomamente.



































