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Tra lobbying e rappresentanza politica. Il destino della legge toscana sul governo del territorio
Scritto il 2013-12-03 da lobbyingitalia su Italia

Qualunque gruppo di pressione si ingegna come meglio può in attività di lobbying. Gli ordini professionali non fanno eccezione. Tra i servizi che erogano ai loro affiliati contemplano la capacità di esercitare la pressione più efficace sulle autorità competenti per orientare la formazione e la messa in opera delle politiche pubbliche nella direzione più confacente ai timori, alle aspettative e alle opportunità dei loro affiliati così come alle loro concezioni o visioni del mondo e delle questioni oggetto di intervento pubblico. In ciò, nulla di illegittimo: al contrario, è il sale di un sistema politico-amministrativo sanamente pluralistico che non viva nel dogma illusorio di una rappresentanza politica autosufficiente.

Non c’è dunque da stupirsi, se anche gli ordini professionali intendono esercitare la loro pressione dentro e fuori le procedure di concertazione previste dall’ordinamento regionale, senza limitare la loro fatica a fasi predeterminate del procedimento legislativo bensì spaziando sull’intero arco temporale del suo svolgersi. Una consapevole e ben studiata azione di lobbying è un flusso di interventi di pressione, non una loro semplice sommatoria: per cui anche se alla fine di una faticosa riunione di concertazione, all’amministratore pubblico di turno potrà apparire di aver acquisito una qualche risultato finalmente pacifico, chi fa lobbying riterrà del tutto naturale continuare a proporre le proprie tesi e le proprie soluzioni fino quando il processo decisionale non abbia dato evidente riconoscimento di un qualche apprezzabile successo dell’azione pressoria esercitata.

E’ tuttavia evidente come il lobbying, per quanto legittimo e fisiologico nel processo legislativo, nulla abbia a che vedere con la democrazia partecipativa. Da un lato il lobbying punta al risultato specifico e puntuale, e soprattutto predefinito (l’emendamento a una legge, la delegittimazione parziale o totale di un progetto legislativo, il rinvio di una decisione politica). Non mira certo ad aprire una qualche discussione pubblica in vista di una definizione condivisa di interesse pubblico: vuole conseguire un risultato predefinito e preme allo scopo. Dall’altro, per essere efficace, l’azione di lobbying formula giudizi di valore proponendoli come giudizi di fatto. Qualunque innovazione modifichi un assetto di relazioni, competenze e poteri preesistenti alimenterà sempre un movimento contrario che ne dichiarerà il destino fallimentare pur in assenza di qualunque argomento e prova a conforto. Ma il lobbying sa anche bene che solo “sparando alto e nel mucchio” si ottiene attenzione dai media e che solo in questo modo si può tentare di influire su una classe politica quando questa sta ancora decidendo se e quali orientamenti assumere su una data tematica conflittuale e, a monte, se e come definire in proposito una qualche “visione politica”.

Un simile scenario si va profilando attorno alla legge toscana di aggiornamento delle norme sul governo del territorio. I comunicati stampa e gli articoli a corredo che capita di leggere in questi giorni sulla protesta degli ordini professionali versus la proposta di legge regionale ne sono una specifica ma palmare conferma. E’ vero che le pratiche legittimate di concertazione costituiscono ormai una costruzione tanto barocca da tollerare ulteriori inclusioni e coinvolgere anche gli ordini professionali competenti e non solo enti locali e categorie economiche e sociali. Ma, delle regole ancora vigenti, non se ne può far colpa a chi ha dovuto applicare una normativa preesistente al procedimento legislativo in questione.

In ogni caso, anche quando la “concertazione” (esperita o auspicata) è garantita essa si configura semplicemente come la legittimazione delle attività di lobbying, nel tentativo di farle uscire dai corridoi e di renderle palesi nelle aule della decisione politico-amministrativa. Ma con un vizio intrinseco: l’obbligo implicito di postulare che le posizioni delle organizzazioni concertanti siano sempre e comunque quelle dei loro formali mandatari, una coincidenza che empiricamente richiederebbe verifiche specifiche ma raramente possibili e tanto meno tollerate dalle organizzazioni in parola (anche se la questione della rappresentatività effettiva e dunque della legittimazione ad agire non può riguardare solo il mondo e le istituzioni della politica: specie quando si indicano numeri di partecipanti, di sottoscrittori di petizioni e di assemblee tanto importanti quanto inaccertabili).

Orbene, ciò che si può adesso auspicare è che il parlamento regionale assuma la propria piena centralità rappresentativa generale e non si lasci invischiare nel gioco delle pressioni contrapposte e dei loro riflessi mediatici. E che valuti con piena e coerente consapevolezza le ragioni che hanno indotto il governo della Toscana a por mano a una legge di sistema sulle regole non negoziabili che debbono disciplinare i destini e l’uso collettivo del comune patrimonio territoriale. Sono le ragioni che, tra tanti, ho cercato di riassumere su queste colonne nei mesi scorsi e che i Comuni toscani hanno contribuito in misura determinante a scrivere con l’ausilio della loro Associazione proprio in nome della loro responsabilità di rappresentanti generali della comunità toscana condividendo il disegno del governo regionale.

Ragioni che si chiamano – tra le altre – contrasto al consumo di suolo; correttezza delle procedure ed efficacia delle norme di legge; informazione e partecipazione delle popolazioni che abitano e vivono le diverse realtà territoriali; monitoraggio dell’esperienza applicativa della legge e valutazione della sua efficacia; assunzione definitoria e operativa della nozione i patrimonio territoriale come fondamento normativo e strategico delle strumentazioni di governo; pianificazione di area vasta per garantire una progettazione unitaria e multisettoriale delle trasformazioni a scala translocale; raccordo funzionale tra pianificazione territoriale e urbanistica e politiche per la casa incentrate su una nuova dotazione di alloggi sociali; prevenzione e mitigazione dei rischi idrogeologico e sismico. Ciascuno di questi lemmi trova nella nuova legge una declinazione normativa che fa tesoro dell’esperienza compiuta dalla legge 1, in parte consolidando e rafforzando, in parte innovando per garantire effettività ai suoi principi e al perseguimento dei suoi obiettivi.

Troppo spesso la legge vigente è apparsa, per l’appunto, un manifesto accademico, non capace di intercettare, proprio sul piano della cultura amministrativa, i rudi interrogativi di chi premeva sugli uffici tecnici dei Comuni per sapere se e quanto “murare”. Massimo Severo Giannini e i suoi allievi parlavano, oltre mezzo secolo fa, di copertura amministrativa delle leggi. Ebbene la legge 1 quella copertura se l’è dovuta conquistare sul campo, più che nella sua stessa strumentazione normativa. E ha fatto fatica. Molta fatica nel perseguire tale obiettivo.

Al di là dell’insano connubio tra oneri di urbanizzazione e ordinaria finanza locale; al di là delle difficoltà municipali di prospettazione strategica; al di là dell’incultura e della fragilità di un ceto edilizio-imprenditoriale sovente inconsapevole, quando non rapace, dell’irriproducibile materia prima con cui ha a che fare; al di là di una nozione di sviluppo non solo alternativa alla “decrescita felice” ma anche, e più semplicemente, a caccia di occasioni congiunturali di occupazione territorialmente… pur che sia (quante aree artigianali-industriali sono divenute concessionarie di automobili?); al di là di un mercato immobiliare che ha a lungo perseverato nelle pratiche espulsive dagli insediamenti urbani più antichi verso nuove consunzioni del territorio rurale, trasformando i centri storici in meri luoghi di loisir commerciale da fine settimana; al di là di un’affannosa ricerca di aree produttive tutte le volte che un (raro) investitore straniero si affaccia sullo scenario toscano, quasi che la pianificazione territoriale dei Comuni debba certificare la propria insussistenza; al di là delle pulsioni sui territori costieri e insulari e del loro impervio contenimento; al di là dei tantissimi sindaci virtuosi che si sono misurati con una legge complicata, che richiedeva loro una visione del territorio, del paesaggio e dei valori comuni quanto mai difficile a scala municipale; ebbene, al di là di tutto questo universo di temi, vicende e problemi, la legge 1 non ha fallito, semplicemente non è uscita dal rodaggio. Una sorta di adolescente che rinvia le responsabilità dell’età adulta.

A cominciare da un quesito cruciale per il territorio toscano e per il suo paesaggio, che rozzamente possiamo riassumere così: dove comincia e finisce la “città”? Dove comincia la “campagna”? C’è una linea che abbia il coraggio culturale e strategico di una simile demarcazione per stabilire nuove e ordinate connessioni? Dove e come tracciarla? E’ una scelta normativa essenziale, perché senza quella linea non c’è “Toscana” e non c’è paesaggio e non c’è sviluppo. C’è un’ibridazione con altri paesaggi sociali tra i quali quello toscano deve poter non trascolorare e mantenere la piena riconoscibilità delle proprie città e delle proprie campagne. E’ questo il genere di sfide che il legislatore toscano è chiamato a non rimuovere né ad affidare a frammentarie transazioni, se vuole ribadire il senso stesso della sua autorità istituzionale.

E’ un compito grave ma urgente, anche perché la proposta toscana fa da apripista a una di quelle riforme strutturali che l’Italia da troppi decenni rinvia lasciandone l’intero gravame sulle spalle delle regioni. Per cui il Consiglio regionale ha l’occasione per aprire un nuovo orizzonte normativo di rilievo nazionale, in sintonia con la più evoluta legislazione europea.

 

Fonte: Massimo Morisi, Garante regionale della comunicazione nel governo del territorio - Greenreport

(@errante_filippo) Lentamente negli ultimi anni, e a ritmo tamburellante negli ultimi mesi, i riflettori della cronaca nazionale sono accesi sempre di più sull’attività di lobbying. Spesso le ricostruzioni, le più svariate, confondendo tra attività differenti, e la stessa semantica della parola “lobby”, assumono un significato negativo. È indubbio, tuttavia, che il fenomeno stia assumendo una dimensione tale da esigere una qualche forma di regolamentazione. Una regolamentazione che permetterebbe, in prima cosa, di rendere trasparente l’attività di lobbying, e, inoltre, permetterebbe di avviare quel necessario percorso culturale (sul modello anglosassone) verso l’accettazione di una pratica comune a tutte le democrazie.In Italia, le radici dell’attività di public affairs sono, inevitabilmente, deboli. Coincidono con la destrutturazione dei soggetti politici e la disintermediazione del sistema politico italiano. L’esistenza di grandi partiti di massa aveva impedito la nascita del lobbying professionale; i partiti, infatti, erano in grado, da soli, di rappresentare tutti gli interessi particolari della società. I partiti li interpretavano e in Parlamento si svolgeva la necessaria funzione di ricomposizione.Oggi, non è più così. I partiti non sono più in grado di rappresentare la complessità del pluralismo sociale e i diversi interessi che da essa scaturiscono. Peraltro, non è solo il sistema dei partiti che ha perduto radicamento e rappresentanza. La disintermediazione è di “sistema” e ha colpito tutti i corpi intermedi, comprese le associazioni di categoria che svolgevano la funzione di raccordo tra gli interessi particolari e la politica. Un cambiamento, quindi, che coinvolge tutto il sistema della democrazia italiana, e, quindi, anche il rapporto tra portatori di interessi organizzati e la politica.La crisi di rappresentanza dei corpi intermedi “tradizionali” ha reso necessaria una riorganizzazione dei legittimi interessi particolari dei diversi settori della società italiana. Ecco, quindi, che i lobbisti svolgono una funzione di supplenza, di rappresentanza di interessi, che necessariamente devono interagire con il decisore pubblico. È, peraltro, una necessità bidirezionale: poiché anche la politica, per comprendere al meglio gli interessi in gioco, ha la necessità di confrontarsi con attori competenti e credibili. Non sarebbe esagerato, allora, sostenere che i lobbisti hanno colmato un vuoto, un deficit di rappresentanza in una società articolata, complessa e plurale. Un vuoto che è stato necessario colmare con la crisi dei corpi intermedi iniziata con la fine degli Anni Ottanta.Non è un caso che le prime società di lobbying nascano a metà degli Anni Novanta; come non è un caso che, oggi, una qualsiasi azienda modernamente organizzata si doti al suo interno di una sezione legata alle “relazioni istituzionali”, nelle diverse forme in cui può essere declinata. L’attività di lobbying sta diventando una componente essenziale della nostra democrazia, in una fase di profonda trasformazione dei meccanismi della rappresentanza degli interessi e del rapporto tra questi e la politica. Ed è, peraltro, un processo non solo irreversibile, ma che sta evolvendo, in questa direzione, con notevole velocità. Dunque, il Re è nudo. La pratica del lobbying è un fatto incontestabile, una realtà della nostra democrazia. Grande assente è la politica. Il legislatore, dopo innumerevoli tentativi, ancora non è riuscito a legiferare in materia; impedendo la formazione di un sistema trasparente e l’avvio di quella svolta, prima di tutto culturale, tanto attesa.Filippo Andrea Errante, Relazioni esterne, comunicazione e fundraising - Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli 

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Le polemiche di questi giorni sull'affaire Tempa Rossa hanno una molteplicità di risvolti, alcuni dei quali riguardano la magistratura e possibili ipotesi di reato.In Italia non sappiamo ancora gestire le lobby.Esse mettono però in luce un fatto: nel nostro paese abbiamo una grande difficoltà a gestire i rapporti con le lobby, soprattutto se esse sono rappresentative di grandi imprese e potentati economici internazionali. Passiamo dalla soggezione, che consente loro di avere voce in capitolo prima e più degli altri, alla demonizzazione estrema, quasi che la rappresentanza di interessi particolari - penso alle aziende farmaceutiche, all'hitech o alle aziende elettriche - fosse di per sé un fatto di corruttela. Regolamentare i rapporti tra potere politico amministrativo e soggetti privati non è una soluzione automatica, ma almeno permetterebbe di guardare la realtà in faccia e di distinguere il lecito dall'illecito. Certo di corruzione ne abbiamo vista tanta in questi anni, con favoritismi di vario genere, soprattutto nel campo degli appalti con l'amministrazione pubblica. Ma proprio per questo la questione va affrontata di petto.Il registro delle lobby: primi tentativi di regolamentazioneCi ha già provato l'Unione europea istituendo un Registro delle lobby, dal 1996 solo presso il Parlamento europeo, dal 2008 anche presso la Commissione e dal 2011 trasformando i due registri in un registro unitario. Tale registro, tuttavia, non essendo obbligatorio, ha fatto sì che si iscrivessero solo le lobby più deboli, come ad esempio le associazioni di utenti, e che si lasciasse indisturbato il lavoro molto meno trasparente dei soggetti forti. Non a caso nel nuovo programma 2016/18 la Commissione Europea propone che il registro unico dei lobbisti diventi obbligatorio per chiunque voglia avere rapporti di "influenza", non solo con Parlamento e Commissione, ma anche con il Consiglio. Anche in Italia qualcosa si è mosso. Per la prima volta, dopo più di 50 tentativi infruttuosi dal 1954 ad oggi, un disegno di legge, a prima firma del sen. Orellana, ha iniziato il suo iter in Commissione affari costituzionali del Senato, insieme ad altri 9 disegni di legge sullo stesso tema. Il Ministero delle politiche agricole ha istituito dal 2012 un suo registro, così come alcune Regioni: Toscana, Abruzzo e Molise, alle quali si è andata ad aggiungere recentemente la Calabria.Serve "tracciare" i canali di relazione.Da una parte, c'è l'esigenza di creare canali di interlocuzione assolutamente tracciabili e trasparenti, dove trovino spazio proposte, integrazioni ed emendamenti provenienti dalle lobby; d'altra parte, allo stesso tempo, permangono canali che si potrebbero definire aumm aumm, nei quali il singolo deputato o consigliere o amministratore trattano direttamente con i singoli soggetti, promettendo emendamenti in cambio di voti o favori. Di questi canali si viene a sapere solo quando scoppia qualche scandalo: dagli incontri del Buzzi di Mafia Capitale con politici locali di ogni schieramento al Rolex per il figlio dell'ex ministro Lupi, dagli incontri tra Nunzia De Girolamo e i vertici della Asl di Benevento alla telefonata tra Vendola e il responsabile delle Relazioni pubbliche dell'Ilva Archinà o tra l'ex ministra Cancellieri e Antonino Ligresti, fino a quella più recente tra il ministro Guidi ed il suo compagno imprenditore Gemelli. Quanto preferirei un modello in cui si sappia chiaramente, come avviene negli Stati Uniti, che il senatore "X" è espressione della lobby dei petrolieri e il ministro "Y" è espresso dagli interessi delle cooperative!Lobby? È partecipazione, purché sia trasparente.Infatti, alla politica serve l'attività di lobbying e non è detto che essa generi corruzione. Per esempio, come si potrebbe fare una buona legge sul commercio senza ascoltare i commercianti o un buon provvedimento sul terzo settore senza ascoltare le organizzazioni civiche? Quando l'attività di lobbying viene fatta alla luce del sole, in modo pubblico e trasparente, dovremmo chiamarla "partecipazione" e potremmo essere orgogliosi di attuarla. L'importante è che tutti siano messi in condizione di partecipare, che tutti possano conoscere gli esiti della partecipazione e che nessuno possa esercitare un potere di ricatto sul politico "influenzato". Nel Lazio, proprio nel territorio in cui è nato e si è sviluppato il fenomeno di Mafia Capitale, ci stiamo provando, con gli obiettivi chiari della trasparenza, della partecipazione e della maggiore qualità delle leggi regionali, ma anche con il realismo e partendo dai limiti di competenza della legge regionale rispetto a quella statale.L'esperimento del Lazio.Ci piacerebbe un registro obbligatorio dei lobbisti ed un divieto di esercitare attività di lobbying al di fuori dei canali istituzionali. Ed infatti sosteniamo l'iniziativa della Commissione europea per un registro europeo obbligatorio. Ma la legge regionale un registro obbligatorio non lo può istituire, perché si creerebbe una professione regolamentata, come quella degli avvocati o dei medici, cosa che può fare solo la legge statale. Inoltre, le risorse economiche per effettuare un controllo capillare sulle infinite possibilità di interlocuzione tra politici e lobbisti non ci sono. Non possiamo mettere 007 o microspie in tutti i bar di Roma e provincia.D'altronde, chi conosce la politica americana o anche, semplicemente, si è appassionato alla serie tv House of Cards, sa che anche negli Usa, paese dotato di regole dettagliate sulla trasparenza dei portatori di interessi, il lobbista, se vuole, si incontra con il capo di gabinetto del Presidente al parco o in una rosticceria, piuttosto che alla Casa Bianca. Allora, in attesa che sia la legge statale ad istituire il registro obbligatorio e a mettere in condizione le Regioni di fare lo stesso, abbiamo pensato di partire dagli interessi dei cittadini: a loro non interessa sapere soltanto quante aziende o quanti lobbisti si sono accreditati, per poi magari non attivarsi concretamente o per continuare ad interloquire di nascosto. A loro interessa piuttosto sapere come una norma nasce, con quali studi alla base, con quali trasformazioni lungo il suo iter di approvazione, con quali incontri e quali pressioni.Verso la registrazione online dei lobbisti.Quindi, non un registro che a priori accrediti i lobbisti a svolgere il loro lavoro presso le istituzioni regionali, ma una registrazione on line, che da una parte consenta ai lobbisti di interloquire telematicamente e quindi in tempi brevissimi con i decisori regionali su ogni atto in discussione e di avere accesso ad atti preparatori e riservati, e che dall'altra permetta ai cittadini di avere piena cognizione di ogni passaggio, di ogni incontro, di ogni documento inviato, ricevuto, modificato, accolto o respinto, tramite il sito web istituzionale.A questo punto, il lobbista che viene sorpreso con un documento riservato in mano senza essere registrato o il politico che viene sorpreso ad incontrare un lobbista non registrato, ben potranno essere valutati dalla magistratura per "traffico di influenze illecite".All'elaborazione di questa proposta ha contribuito un Tavolo di lavoro presso la Giunta regionale del Lazio, che ho animato con la collaborazione dell'Assessore regionale allo sviluppo, Guido Fabiani: vi hanno partecipato portatori di interessi di diverso tipo, dalle aziende farmaceutiche o energetiche alle associazioni ambientaliste o dei consumatori e il dibattito sarà ulteriormente allargato. Presto anche la regione Lazio avrà la sua disciplina sulla trasparenza dell'attività di lobbying. Magari più misurata negli intenti, ma, mi auguro, più efficace negli effetti concreti.Fonte: Teresa Petrangolini, Huffington Posthttp://goo.gl/BXopaj

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Pisicchio, autore del testo per la Camera: «Ma ormai puntano sui palazzi del governo»Quanti siano i lobbisti che si aggirano silenziosi e occhiuti nei corridoi del Parlamento nessuno lo sa. A dicembre, quando la legge di Stabilità arrivò in Senato all’«ultimo miglio», quello dell’«assalto alla diligenza», il presidente Pietro Grasso provò a contare i lobbisti, confinandoli tra i banchi della commissione Sanità. Lontana, ma non troppo, dai senatori della Bilancio destinatari degli emendamenti dell’ultimo minuto da inserire nella Finanziaria 2016.E ora che il caso petrolio/ Basilicata torna ad accendere i riflettori sui rapporti tra governo/Parlamento e la popolazione carsica di lobbisti, la giunta del Regolamento della Camera presieduta da Laura Boldrini prova a varare entro aprile il «Codice di condotta dei deputati» e il «Regolamento dell’attività di lobbying». L’incarico di stendere un testo, prima che venissero pubblicate le intercettazioni del ministro Federica Guidi, è stato affidato a un veterano di Montecitorio, il presidente del gruppo Misto Pino Pisicchio, che entro venerdì raccoglierà gli emendamenti dei gruppi per poi proporre alla giunta l’articolato definitivo, che non dovrà passare dall’Aula.Il «Registro» delle attività alla CameraLa bozza Pisicchio prevede l’istituzione di un Registro delle attività di relazione istituzionale svolte tra le mura della Camera che riguarderà «persone, associazioni, enti e società» che avanzano «proposte, richieste, suggerimenti, studi, ricerche, analisi e qualsiasi comunicazione anche per via elettronica intesa a perseguire interessi leciti propri o di terzi nei confronti dei membri della Camera».Per essere iscritto al Registro, il lobbista, che non deve avere subito nell’ultimo decennio condanne definitive per reati contro la pubblica fede e contro il patrimonio, dovrà chiarire quali sono i suoi «interessi» e chi sono i deputati che intende contattare. Inoltre dovrà consegnare relazioni semestrali sulla sua attività che poi saranno pubblicate sul sito della Camera. Le sanzioni per la violazione del Regolamento verranno stabilite di volta in volta dall’Ufficio di presidenza. Le regole valgono anche per gli ex parlamentari, spesso arruolati come lobbisti.Il «Codice» di condottaParallelamente, la giunta del Regolamento voterà entro aprile il Codice di condotta dei deputati che introduce nuove norme di trasparenza: si possono accettare doni con un valore inferiore ai 250 euro fatti salvi, però, i «rimborsi delle spese di viaggio, alloggio e soggiorno di deputati ai pagamenti diretti di dette spese da parte di terzi quando i deputati partecipano sulla base di un invito e nell’esercizio delle loro funzioni a eventi organizzati da terzi». Viene inoltre istituito il Comitato consultivo sulla condotta dei deputati che può disporre la pubblicità dei comportamenti scorretti sul sito della Camera. Pisicchio conta sull’appoggio di tutti i gruppi, già consultati: «Tuttavia — osserva — non bisogna dimenticare che da anni i lobbisti puntano, più che sul Parlamento, sui palazzi del governo».Fonte: Dino Martirano, Corriere della Serahttp://goo.gl/KEhOOH

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