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Viva le lobby, ovvero viva la libertà. Lezioni americane
Scritto il 2013-07-17 da lobbyingitalia su World

(Matteo Borghi) Quando sentiamo parlare di lobby ci viene subito in mente qualcosa di oscuro, poco chiaro, ai limiti della legalità. Eppure in un grande Paese come gli Stati Uniti d’America, le lobbies sono parte integrante del sistema democratico. Ne abbiamo parlato con Howard Segermark, uno dei più importanti lobbisti di Washington – è partner della Patten&Associates, un colosso nel mondo del lobbismo (in passato è stato collaboratore di Arthur Laffer, l’economista che suggerì a Reagan il piano di riduzione delle tasse del 1981) – che abbiamo avuto l’onore di incontrare a Milano nel corso di un incontro organizzato dal Columbia Institute diretto dall’amico Marco Respinti. Durante l’ora e mezza di lezione – dal titolo programmatico Lobbying, like sex, it’s not always immoral – Segermark ci ha spiegato come funziona dalle parti di Washington.

Anzitutto è bene sapere che in America quello delle lobby è un mestiere regolato in modo preciso dalla legge. Ognuno, per esercitare deve iscriversi a un apposito registro: nella capitale degli States sono in 14mila per un giro d’affari di 3,2 miliardi di dollari, tutti tracciati. Come agiscono dunque i lobbisti? Denaro e i regali per i politici rientrano, ovviamente, fra le attività illegali. Per questo fanno, piuttosto, azioni di advocacy: informano i politici della posizione che vorrebbero essi sostenessero in Congresso (to advocate, in inglese significa difendere, propugnare), incoraggiandoli a farlo attraverso alcuni sistemi. Anzitutto commissionando una serie di sondaggi per sondare la posizione degli elettori (se molti sono favorevoli il parlamentare sarà più incentivato a proporre qualcosa in parlamento), organizzando incontri sul tema e facendo pubblicità su stampa e riviste specialistiche. Poi si può agire sui contributi della campagna elettorale: è noto che i politici, negli Usa, sono sostenuti dalle lobby che chiedono loro sostegno su determinate tematiche. Nulla di così scandaloso come si potrebbe pensare. Di certo meglio dell’Italia della Prima Repubblica, con la sua Tangentopoli occulta, e della Seconda Repubblica coi suoi rimborsi elettorali di cui si sono avvantaggiati loschi soggetti del calibro di Franco Fiorito e Renzo “il Trota” Bossi.

Anche perché dobbiamo chiarirci su una cosa: le lobby non sono solo quelle delle armi o del petrolio. Certo la National Rifle Association, con i suoi 5 milioni di iscritti, è molto potente ma esistono anche associazioni con scopi umanitari e di difesa del territorio: fondazioni culturali, associazioni benefiche e di lotta alle malattie (come la American Cancer Society) o semplici comitati di cittadini (Citizens for Tax Justice). Costoro si rivolgono a società come la Patten&Associates in grado di influenzare, a loro vantaggio, i politici di Washington.

Si tratta di un sistema che – secondo Segermark – è in grado di «limitare il potere di un Leviatano sempre più grande». Da liberista coerente Segermark ha una sua visione specifica: «Io credo che la lobby possa essere morale o immorale, dipende da come la si intende: morale quando serve a promuovere libertà e concorrenza, immorale quando punta ad ottenere benefici dallo Stato, limitando la libertà altrui». Il lobbismo serve, quindi, a garantire i diritti individuali, minacciati dallo Stato centrale: del resto – come recita il motto della Patten – «se non hai una prenotazione al tavolo (dei potenti), probabilmente ti ritroverai a far parte del menu».

Fonte: L'Intraprendente

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Il presidente Usa sembra aver perso la battaglia contro i produttori di pistole. Nonostante le sue pressioni, l'import è a livelli record. E la presa della National Rifle Association sul Congresso è più forte che mai «Se mi chiede qual è il settore in cui sento di essere stato più frustrato e più ostacolato è il fatto che gli Stati Uniti sono la sola nazione avanzata sulla Terra in cui non abbiamo leggi di buon senso per il controllo delle armi, nonostante le ripetute uccisioni di massa. Se consideriamo il numero di americani uccisi per terrorismo dall'11 settembre sono meno di cento, mentre le vittime della violenza delle armi sono nell'ordine delle decine di migliaia. Non essere in grado di risolvere questo problema è stato angosciante: ma non è un tema sul quale ho intenzione di smettere di lavorare nei restanti 18 mesi». Queste parole di Barack Obama arrivavano, consegnate al microfono di un inviato BBC, all'indomani della strage di Charleston, in cui Dylann Storm Roof, 21 anni, ha fatto fuoco con una pistola calibro 45 regalatagli per il compleanno dal padre, all'interno della Emmanuel African Methodist Episcopal Church durante una lettura della Bibbia. Il bilancio della sua azione: nove morti - tre uomini e sei donne -membri della comunità afroamericana che frequenta la chiesa tra cui anche il pastore, il reverendo Clementa Pinckney, senatore del Partito democratico. Un mix di impotenza e frustrazione del comandante in capo della Nazione più potente della Terra, che fa chiaramente trasparire l'influsso e la capacità d'azione della lobby delle armi negli Stati Uniti. Quasi sfrontata nell'attaccarlo («Il presidente Obama - affermarono commentando gli ultimi dati del Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives -non si fermerà di fronte a niente per spogliare i cittadini del loro diritto costituzionale di difendersi»). E nell'evidenziare che proprio gli annunci di leggi più restrittive sulla detenzione delle armi hanno indotto le persone a correre ad acquistarle: «Barack Obama merita il premio di "Venditore di armi del decennio"» ha commentato, non senza sarcasmo, Erich Pratt, portavoce di Gun Owners of America. «Il presidente è stato implacabile nei suoi attacchi contro il Secondo Emendamento alla Costituzione (quello del 1791 che garantisce il diritto di possedere armi, ndr) e non c'è da stupirsi che la gente abbia paura e voglia proteggersi» ha aggiunto Jennifer Baker, portavoce della National Rifle Association (NRA). In effetti, i dati sembrano incontrovertibili: durante la presidenza Obama la produzione di armi da fuoco negli Stati Uniti è passata da meno di 4,5 milioni di unità a oltre 10,8 milioni di unità con un incremento del 140%: è vero che l'export è cresciuto nell'insieme, però riguarda meno di 400mila unità; ma è aumentato soprattutto l'import che nel 2013 ha superato i 5,5 milioni di unità toccando un record trentennale. Anche sul fronte della legislazione, le notizie non sono incoraggianti. Come riporta una meticolosa inchiesta del New York Times del dicembre 2013, cioè a un anno esatto dalla strage di Newtown (alla Sandy Hook Elementary School un ventenne aprì il fuoco uccidendo 27 persone, tra cui 20 bambini sotto i 7 anni), delle 109 nuove leggi approvate nei vari Stati solo un terzo ha effettivamente rafforzato le restrizioni sulle armi, mentre la maggior parte le ha di fatto ammorbidite. Ed è proprio su questo versante che si manifesta la potenza mediatica della lobby delle armi negli Stati Uniti. Una lobby capitanata dalla National Rifle Association (NRA), una delle più influenti degli Stati Uniti: un'entità che Obama conosce bene e di cui ha ripetutamente evidenziato l'influsso su Camera e Senato: «Sfortunatamente, la presa della NRA sul Congresso è estremamente forte - ha ribadito nei giorni scorsi. E non prevedo nessuna iniziativa legislativa all'orizzonte, finché l'opinione pubblica Usa non sentirà un senso d'urgenza che porti a dire "tutto questo non è normale, possiamo cambiare qualcosa e abbiamo intenzione di cambiarla"». Eppure, una recente ricerca dell'Harvard Injury Control Research Center smentisce numerose delle tesi sostenute dalla lobby armiera. A cominciare da quella secondo cui "possedere un'arma in casa rende più sicuri" (lo pensa solo il 5% degli intevistati, il 64% sostiene l'esatto contrario). Ma, soprattutto, l'inchiesta dimostra che per il 72% degli americani leggi più severe sulle armi aiutano a ridurre gli omicidi. Eppure questo punto di vista pare non riuscire a far breccia tra le maglie dei legislatori statunitensi. Inutile domandarsi di chi è il merito. DOVE PRENDONO I SOLDI I LOBBISTI? La National Rifle Association (NRA) è un'organizzazione ben strutturata tanto da essere considerata "la lobby più influente degli Stati Uniti". Potente con l'elettorato e, ancor di più, con il ceto politico: secondo il Centro Open Secrets l'influenza della NRA si fa sentire non solo attraverso i contributi elettorali, ma anche con i milioni di dollari di spese non rese pubbliche (off-the-book ) per diffondere annunci pubblicitari. Le sole sue spese di lobbying sono nell'ordine di svariati milioni di dollari all'anno, usati per esercitare la sua influenza su agenzie governative, membri del Congresso e su vari ministeri tra cui quelli degli Interni e del Commercio. Un'imponente organizzazione, fondata nel lontano 1871, che oggi può disporre di svariati milioni all'anno (il Washington Post parla, forse esagerando, addirittura di 250 milioni) raccolti attraverso donazioni e sostegni di singoli aderenti, spesso esentabili dalle tasse, ma soprattutto col contributo delle maggiori aziende produttrici di armi e delle ditte specializzate nella rivendita. Come riporta una delle rare indagini in questo oscuro ambito, promossa dal Violence Policy Center (VPC), la NRA ha messo a punto uno specifico "Corporate Partners Program " (Programma per le aziende) per incrementare i contributi da parte delle ditte produttrici e rivenditrici di armi. Tra i donatori primeggia Midway USA, un colosso nella vendita online (non ha negozi fisici) di armi e munizioni di tutti i tipi che non solo ha donato più di cinque milioni di dollari alla NRA di cui è lo sponsor ufficiale del meeting annuale, ma soprattutto ha contribuito a creare il "NRA Roundup Programme " per promuovere la raccolta fondi della lobby armiera. Seguono una serie di aziende produttrici di armi e munizioni: Smith & Wesson, Sturm, Ruger & Co., Blaser USA, Glock, Noser, Barret, Remimgton, Browning. C'era anche la Colt che nelle scorse settimane ha dichiarato bancarotta. Ma soprattutto spicca il gruppo Beretta USA che nel 2008 ha donato un milione di dollari all'"Istituto NRA per l'azione legislativa e le attività per la difesa dei diritti civili". Obiettivo: difendere e ampliare la portata del Secondo Emendamento. E in quei soldi c'è tanta Italia: la Beretta USA fa parte infatti della Beretta Holding, interamente controllata dalla famiglia Gussalli Beretta di Gardone Val Trompia in provincia di Brescia. BERETTA, DAL MARYLAND AL TENNESSEE PER PUNIRE IL GOVERNATORE "OSTILE" Il governatore di uno Stato decide di promuovere leggi più restrittive sulle armi? E io chiudo la fabbrica. È quello che la Beretta ha deciso nel febbraio 2014, chiudendo lo storico stabilimento di Accokeek nel Maryland per aprirne uno nuovo a Gallatin, nel Tennessee. In un comunicato, il presidente Ugo Gussalli Beretta, dimessosi poche settimane fa, giustificava la decisione attaccando frontalmente la decisione dell'allora governatore Martin O'Malley (un liberal del partito democratico) per la sua scelta di limitare la diffusione delle pistole. "Pattern of harassment" (una "prassi di molestie") contro i legali possessori di armi, fu definita la scelta del governatore. Una presa di posizione inusuale per l'azienda italiana che è stata duramente criticata dalle associazioni statunitensi per il controllo delle armi: «Contesta una legge che è molto meno restrittiva di quelle che in Italia proteggono la sua famiglia», ha commentato Jonathan Lowy, del Brady Center to Prevent Gun Violence. Gussalli Beretta ha ovviamente taciuto nella sua lettera i milioni di dollari di finanziamenti pubblici dello Stato del Tennessee ricevuti per aprire la sua azienda. Ma anche così funziona la lobby delle armi. Che nella cinquecentenaria azienda italiana fornitrice di armi alle polizie e all'esercito Usa trova uno dei suoi più attivi azionisti. Di Giorgio Beretta (Analista dell'Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa di Brescia) ed Emanuele Isonio

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Bruxelles città delle istituzioni Ue e delle lobby. Quasi tutte le grandi multinazionali, le industrie, le organizzazioni , i gruppi di interesse e anche e le Ong hanno almeno un ufficio nella capitale europea. Tra i corridoi e i bar dei grandi palazzi decisionali non è difficile notare i rappresentanti di varie organizzazioni intenti nel lavoro di lobbista. A influenzare maggiormente le decisioni delle istituzioni europee sarebbero le industrie che tra dicembre 2014 e giugno 2015, registrano già circa 4.318 incontri con rappresentanti e funzionari della Commissione Ue: è quanto riporta un’analisi della organizzazione anticorruzione Transparency International. Le organizzazioni attualmente iscritte nel registro Ue per la Trasparenza sono 7.821: il 75% di queste, circa 4.879, cerca di favorire gli interessi delle aziende. Mentre il 18 % è rappresentato dalle Ong e il 4% dai think tank e solo il 2% dalle autorità locali. Nella top list delle imprese che spendono di più per fare lobby figurano la Microsoft, Exxon Mobil e la Shell con una spesa che varia tra i 4,5 e i 5 milioni di euro, dedicato a questo scopo. Seguite subito dopo dalla Deutsche Bank AG, la Dow Europe GmbH e Google: quest'ultima ha già avuto 29 incontri con le istituzioni europee in questi mesi. Ma anche Ong come Greenpeace e il Wwf si sono incontrate diverse volte con l'esecutivo comunitario e tra le lobby presenti a Bruxelles BusinessEurope, la General Electric Company (GE) , Eurocommerce e Airbus group. «Le organizzazioni con un più alto budget per fare lobby hanno un grande accesso , in particolare nel settore finanziario, digitale ed energetico» osserva Daniel Freund di Transparency International. Le imprese che hanno dichiarato almeno 900mila euro di spese per lobby sono quelle che hanno ottenuto più di dieci colloqui ad alto livello con la Commissione Europea, in base al report. Tra i paesi che hanno ottenuto più incontri in questo periodo, al primo posto spicca il Belgio, poi la Germania, l'Inghilterra, la Francia e l'Italia. Le organizzazioni italiane registrate sarebbero 597. Per ora, tra le italiane, la Confindustria avrebbe ottenuto più appuntamenti con rappresentanti istituzionali Ue, poi l'Enel e l'Eni. In generale le organizzazioni italiane sembrano spendere meno per le attività di lobby rispetto ad altri paesi e si focalizzano in particolare sul settore energetico. Il clima e l'energia, il lavoro e la crescita, l'economia digitale, i mercati finanziari e i trasporti sono i settori che attraggono di più i lobbisti di Bruxelles. Mentre i commissari Katainen, Hill e Oettinger hanno finora avuto pochi confronti con la società civile, tra il 4% e l'8 per cento. In particolare gli ambiti dei mercati finanziari e dell'economia digitale sono presi più di mira dalle imprese. Le nuove misure di trasparenza Ue sono però secondo l'analisi di Transparency International ancora poco seguite: l'80% delle organizzazioni presenti nel registro per la Trasparenza non ha riportato pubblicamente un solo incontro con commissari Ue o funzionari. Inoltre su 30mila funzionari che lavorano alla Commissione Europea neppure 300 sono soggetti alle nuove misure di trasparenza. Le nuove regole di trasparenza della Commissione riguardano solo l’1% dei funzionari e il 20% delle organizzazioni lobbistiche. Su questo punto Carl Dolan, direttore di Transparency International ha le idee chiare «Le istituzioni europee dovrebbero pubblicare “un'impronta legislativa” un documento pubblico con tutti gli incontri con le lobby e altri contributi che abbiano in qualche modo influenzato le politiche e le legislazioni». Tra i problemi principali riscontrati dall'organizzazione anticorruzione vi è anche la carenza nella qualità dei dati raccolti dal registro per le lobby che rimane per ora su base volontaria: molte organizzazioni rimangono ancora fuori da questo database, tra queste quattordici su venti dei più grandi studi legali mondiali tutti con un ufficio a Bruxelles, come Clifford Chance, White&Case o Sidley Austin. Mente undici di queste sono registrate ad esempio a Washington DC dove vige l'obbligo di iscriversi. «La maggior parte delle informazioni che i lobbisti volontariamente compilano nei file del registro risultano incomplete, poco accurate o totalmente insignificanti» ha affermato Freund. Secondo l'organizzazione oltre il 60% delle organizzazioni che hanno fatto pressione sulla Commissione Ue per l'accordo commerciale tra Ue ed USA non ha dichiarato queste attività in maniera adeguata. Per Transparency International si rendono indispensabili alcuni passi in avanti che riguardino l’obbligatorietà del registro delle lobby e l'introduzione di “un'impronta legislativa” , ossia una testimonianza dell'influenza dei lobbisti su una parte di legislazione.   Fonte: Irene Giuntella - Il Sole 24 Ore

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(Giovanni Gatto) La Spagna finisce “dietro la lavagna” per non aver condotto sforzi coerenti e decisi per la regolamentazione del fenomeno lobbistico. È oscuro il quadro del sistema di regolamentazione delle lobby dipinto dalla ONG Transparency International – Spagna, in occasione della presentazione del rapporto “Una valutazione delle lobby in Spagna – analisi e proposte”, presso la sede di Madrid della Fondazione Ortega-Marañón. In particolare la regolamentazione del lobbying si è rivelata “praticamente inesistente” per tre aspetti cruciali: la trasparenza, l’integrità e la parità nell’accesso. Il rapporto ha assegnato un punteggio su una scala di 100 ai tre elementi fondamentali del fenomeno: i risultati sono stati molto deludenti e hanno configurato una situazione che potrebbe essere risolta, secondo i 15 suggerimenti portati avanti della ONG, solo attraverso la pronta ripresa delle discussioni sul una regolamentazione unitaria e organica sulle lobby, uno strumento strategico per la crescita del Paese, che possa dare un vantaggio competitivo nel continuo tentativo di uscire dalla crisi, se attuato in maniera etica e trasparente. Il problema più preoccupante per il sistema lobbistico spagnolo è risultato essere l’assenza di trasparenza, sia da parte dei gruppi di pressione privati che da parte dei decisori e degli operatori pubblici: solo 10 i punti percentuali garantiti dalle attuali norme in materia. In particolare, ai decisori pubblici o politici è richiesto di mettere in luce i propri rapporti con i rappresentanti degli interessi e di riferire le loro agende; ai lobbisti è invece richiesto di registrare la propria presenza all’interno delle istituzioni (nazionali e regionali) e il prodotto delle loro attività di studio e documentazione. Al Governo è richiesta un’analisi dei rischi associati al fenomeno della corruzione e dell’opacità delle lobby, fenomeno che porta a un notevole dispendio di risorse sia in investimenti errati, che in mancati guadagni. Non va meglio per quanto riguarda l’integrità: il fenomeno frequente delle “revolving doors”, ossia del passaggio dal ruolo in amministrazioni pubbliche a quello nel management di un’azienda, porta il punteggio totale della valutazione di TI al 35%. In questo caso è suggerita l’applicazione di codici di condotta all’interno delle istituzioni, in particolare le assemblee elettive nazionali e locali. Queste norme, in realtà, sono previste dall’ordinamento spagnolo ma, come accade spesso in altri Paesi di cultura latina (caso lampante: l’Italia, ma anche Messico e Cile), non sono rispettate nei modi e nei tempi adeguati. Un punteggio ancora inferiore viene dato alla parità d’accesso: la Spagna raggiunge solo il 17% in quanto a possibilità di partecipazione al processo decisionale da parte degli attori economici e politici. A capo del team che ha condotto lo studio sulle lobby in Spagna, che comprendeva il direttore dello studio, Manuel Villoria, il coordinatore Ana Revuelta, i ricercatori Esteban Arribas e Elena Herrero-Beaumont e il vice presidente della fondazione Ortega-Marañón, Jesús Sánchez-Lambas, il presidente di Transparency International Spagna, Jesús Lizcano, in conclusione dei lavori ha affermato: “la figura della lobby, intesa come gruppo di pressione a favore di determinati interessi è positiva per il funzionamento della democrazia, se sviluppata con la trasparenza e l'integrità e un quadro per garantire l'inclusione di tutti i segmenti della società. La mancanza di regolamentazione delle lobby aumenta il rischio di cadere in pratiche inappropriate, come traffico d'influenza o corruzione”. Il punteggio totalizzato dalla Spagna in merito alla trasparenza del lobbying è pari solo al 21%. Altri, impietosi, numeri raccontano, da un lato, la percezione che i cittadini spagnoli hanno delle lobby; dall’altro, il reale grado di incidenza della corruzione sull’economia del Paese iberico. Secondo l'Eurobarometro 2013, il 77% degli spagnoli ritiene che la corruzione è parte della cultura d'impresa del paese, mentre il 67% ritiene che l'unico modo per avere successo siano le connessioni politiche intessute tra decisori e gruppi di pressione. L'84% degli spagnoli crede che la corruzione e le connessioni siano il modo più semplice per ottenere servizi pubblici. Questa percezione è condivisa anche dalle imprese spagnole: il 91% vede collegamenti eccessivi tra denaro e politica, e il 93% crede che la corruzione e i favoritismi danneggino le contrattazioni. Anche in Europa la percezione del fenomeno è negativa. Oltre il 50% dei cittadini crede che il loro governo sia in gran parte o del tutto guidato da alcuni potenti interessi, mentre l’81% dei cittadini europei ritiene che eccessivi contatti commerciali tra affari e politica generino corruzione nel proprio Paese. Si potrebbe però dire che “non tutte le lobby vengono per nuocere”: una ricerca condotta da Burson-Marsteller e Cariotipo M5H tra vari membri di organi politici spagnoli ha riportato che, per il 56% di questi ultimi, incontrare i rappresentanti di interesse sia “auspicabile e perfino obbligatorio” per il loro lavoro, e l’86% ritiene la lobby “un contributo allo sviluppo della politica”. Tra i suggerimenti di Transparency International Spagna, raggruppati in 15 punti, vi sono la creazione di un registro dei lobbisti, che deve obbligatoriamente registrare tutte le persone che esercitano attività di lobby a livello nazionale e regionale, nonché la creazione di un organismo vigilante e indipendente dal potere sanzionatorio. In realtà in Spagna il procedimento di regolamentazione delle lobby ha fatto passi decisi negli ultimi mesi. A inizio anno, il premier Rajoy ha dato l’impulso per una regolamentazione unitaria, sintetica e onnicomprensiva del fenomeno lobbistico, con l’obiettivo di migliorare gli standard di trasparenza e partecipazione dei gruppi di interesse in politica. Nei mesi successivi, però, il governo ha rallentato la corsa per l’istituzione di un registro obbligatorio per i lobbisti e l’attuazione di regole di trasparenza per i decisori, inserendo le proposte legislative nel quadro del Piano governativo di Rigenerazione Democratica, che avrebbe portato a modifiche del Regolamento della Camera bassa, frutto di un compromesso tra Partito Popolare e Convergencia i Unió. Lo scorso maggio, dopo un’impasse di qualche mese dovuta alle elezioni europee, il tema è tornato in auge grazie all’iniziativa dell’APRI, l’associazione dei professionisti delle relazioni istituzionali spagnola a cui aderiscono 55 partner i quali, forti degli studi portati avanti dall’OCSE e dall’Unione Europea, hanno messo in campo il loro “potenziale di fuoco” nei confronti delle istituzioni. “Quanto maggiore è la trasparenza e la regolamentazione sulla lobby, tanto più è avanzata la democrazia in un Paese”, le parole della lobbista di Cariotipo MH5 Carmen Mateo. “Abbiamo proposto che la registrazione sia obbligatoria, con un emendamento alla legge sulla trasparenza e contrario ad ogni gruppo parlamentare”, ha ricordato Jordi Jané, deputato del partito Convergencia i Unió. “Dei 6500 lobbisti iscritti al Registro per la trasparenza europeo, oltre 300 sono spagnoli”, ha affermato Carolina Carbonell, Direttrice Generale dell’Istituto Internazionale di Diplomazia Corporativa e del Corporate Diplomacy & Public Affairs Executive Program dell’americana Schiller International University. E proprio la regolamentazione comunitaria rimane il modello prediletto per il legislatore spagnolo, nel tentativo di evitare scandali legati alla corruzione e ricostruire con precisione il processo che sta alla base della formazione delle leggi.

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