Interfacciarsi con la politica e con le istituzioni per tutelare l'interesse di una categoria fa parte del funzionamento di una democrazia. L'importante è farlo con regole chiare e trasparenti.
Il 19 settembre 2000 un noto istituto di ricerca in materie giuridico-economiche, di cui mi pregio di essere ancora il presidente, organizzò un convegno così titolato: «La regolamentazione normativa dell'attività di lobbying». L'intuizione di oltre dieci anni fa, circa l'opportunità di legiferare su un'attività a tutti gli effetti da inquadrarsi come professione, torna oggi prepotentemente all'attenzione alla luce delle recenti inchieste giudiziarie e di quanto già in essere in altri Paesi.
È propria di un sistema democratico l'esistenza di interessi che, pur non essendo rivolti alla totalità dei consociati, vengono comunque, per la loro oggettiva rilevanza, seguiti e rappresentati 'da persone fisiche o giuridiche (i lobbisti). Sarebbe bene, quindi, identificare e concettualizzare con chiarezza la figura del lobbista, le procedure e gli strumenti legittimi della stessa, i destinatari della sua azione, le regole deontologiche alle quali attenersi, nonché eventuali sanzioni.
Vi sono alcune proposte di legge in Parlamento. Esistono, altresì, gli atti del Parlamento europeo sulla «regolamentazione del lobbismo e degli intergruppi nei parlamenti nazionali degli Stati membri», di cui si è in attesa di una conduzione in legge. Ma ciò che ancor più preme sottolineare è che già da tempo negli Stati Uniti d'America è in vigore una legge, approvata dal 104° Congresso in data 4 gennaio 1995, sulla «Pubblicità di attività lobbistiche».
Allora, perché essere prevenuti e creare allarmismi nella considerazione di un ipotetico ed eventuale danno sociale per un'attività di relazioni? Dov'è il danno sociale, in termini concreti, obiettivi e normativi? Associazioni di categoria del mondo imprenditoriale e bancario, sindacati, ecc. non sono soggetti giuridici portatori di interessi specifici dei propri as-sociati, per la tutela e realizzazione dei quali si interfacciano attraverso segnalazioni, proposte, ecc. con i massimi livelli della politica e delle istituzioni in genere? E, se questo è lecito e giuridicamente garantito, non è altrettanto lecito se tali attività vengono svolte da una società di privati, appositamente organizzata, ovvero da una singola persona fisica?
Se un input vogliamo trarre da questi nebulosi fatti di cronaca giudiziaria, ri-spolveriamo le proposte di legge e istituiamo, per esempio, un apposito registro/albo delle persone fisiche/giuridiche che intendono operare in tal senso, diamo definizione e perimetro giuridico all'attività delle stesse, indichiamo il ministero della Giustizia o la presidenza del Consiglio quali autorità depu-tate al controllo e prevediamo sanzioni di carattere amministrativo a fronte di specifiche violazioni.
Un'attività di relazioni, di pressione, segnalazione, anche con «raccomandazioni», non può essere considerata di per sé un reato. Peraltro, proprio nel caso di raccomandazioni, esiste un orientamento consolidato della Cassazione che, già con una prima sentenza del 2001 e con l'ultima del 5 ottobre 2009, n. 38617, ha stigmatizzato che la raccomandazione non è reato, se mai lo è la concussione. Ma questa è tutta un'altra storia. La raccomandazione può danneggiare meritocrazia ed efficienza, ma ciò che può non essere opportuno non è affatto detto che sia illecito. In altri termini, il peccato non è reato.
Roberto Sorrentino
professore di scienza delle finanze presso l'Università E-Campus di Novedrate.
Fonte: Panorama Economy




































