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Le norme sul lobbying emanate da Obama superano quelle dei Presidenti precedenti, dicono gli esperti
Scritto il 2009-04-09 da lobbyingitalia su World

Le nuove norme sul lobbying emanate dal Presidente Obama sembrano andare al di là dei cambiamenti imlpementati dai precedenti presidenti, e potrebbero inaugurare un'era di trasparenza nel governo federale, secondo gli esperti di etica e i sostenitori dell’open- government.

In due ordinanze esecutive e tre direttive presidenziali, Obama ha stabilito rigorosi limiti al lobbying che ostacoleranno chiunque voglia cercare lavoro come lobbista mentre egli è presidente, e vieterà doni da parte dei lobbisti a chiunque nell’amministrazione. Egli ha inoltre ordinato alle agenzie che i documenti siano rilasciati al pubblico a meno che non vi siano motivi validi per non farlo, e ha allentato le restrizioni sul rilascio di documenti relativi agli ex presidenti e vice presidenti.

I sostenitori dell’ open-government hanno descritto queste mosse come un forte allontanamento dalle politiche dell’ex presidente George W. Bush e dell'ex vice Presidente Richard B. Cheney, che hanno cercato di proteggere dal pubblico le informazioni sul funzionamento interno della Casa Bianca e hanno imposto restrizioni ai documenti pubblici.

Fred Wertheimer, presidente di Democracy 21, ha detto che le restrizioni al lobbismo "costituiscono un importante passo avanti nella creazione di un nuovo tono e atteggiamento di Washington, che sfida il lobbista e in particolare la cultura dell’interesse."

Steve Aftergood, direttore del Progetto sul segreto di stato della Federation of American Scientists, ha detto che è "sorprendente" che Obama ha emanato tali direttive nel suo primo giorno. Ma, ha aggiunto, "questo deve essere l'inizio di un processo che traduce questa policy in pratica, e ciò ha dimostrato di essere una sfida." Le limitazioni al lobbismo sembrano anche essere notevolmente più ampie rispetto di quelle imposte da altri presidenti, hanno detto gli esperti.

Due giorni dopo la sua inaugurazione nel 1993, Bill Clinton impedì ad alti incaricati dal lasciare l’incarico e poi, in qualsiasi momento dei cinque anni successivi, fare lobbying sugli ex colleghi nell’ agenzia in cui aveva lavorato. Egli ha revocato l'ordinanza un mese prima di lasciare l'ufficio, poichè gli assistenti lamentavano la difficoltà di trovare lavoro.

L’ordinanza di Obama si applica più in generale a "ogni persona in ogni agenzia esecutiva", impedendo loro di lasciare l’incarico e poi fare azione di lobbying su qualsiasi altro ufficiale del ramo esecutivo o alto funzionario incaricato per il resto del suo mandato. La regola impedisce anche ai nuovi funzionari dal fare policy in merito a qualsiasi questione che riguardi i loro ex datori di lavoro o clienti per un periodo di due anni, o dal lavorare in un'agenzia che ha fatto lobbying negli ultimi due anni. "Non dovremmo mai dimenticare che siamo qui come dipendenti pubblici ", ha detto Obama.

Le osservazioni di Obama hanno suscitato critiche da parte del Comitato Nazionale Repubblicano, il quale ha osservato che Obama ha nominato William J. Lynn III, un ex lobbista Raytheon, come vice-segretario della difesa. Le relazioni sul lobbying depositate da Raytheon al Senato affermano che Lynn ha fatto parte di un gruppo che esercitò azione di lobbying sul Congresso e il Pentagono nel 2007 e nel 2008. I funzionari della Casa Bianca non hanno risposto alle richieste di commento.

In un’altra ordinanza, Obama ha autorizzato una maggiore apertura dei documenti presidenziali, in seguito alla decisione del Congresso di un periodo di attesa di cinque anni dopo che qualsiasi presidente lascia l'incarico. L'ordinanza consente un riesame da parte della procura generale e del Counsel of claims della Casa Bianca nel caso in cui le informazioni debbano essere trattenute secondo la dottrina dell’ "executive privilege ". Inoltre lascia la decisione finale nelle mani del presidente in carica - e non dell'ex presidente, come previsto in un’ordinanza di Bush del 2001.

Anne Weismann, consulente dell’organizzazione no-profit Citizens for Ethics and Responsibility di Washington, ha detto che l’ordinanza segnala "un ritorno allo Stato di diritto" e al rispetto dei termini che il Congresso originariamente indicò nel Presidential Records Act.

Valentina Tonti

Il presidente Usa sembra aver perso la battaglia contro i produttori di pistole. Nonostante le sue pressioni, l'import è a livelli record. E la presa della National Rifle Association sul Congresso è più forte che mai «Se mi chiede qual è il settore in cui sento di essere stato più frustrato e più ostacolato è il fatto che gli Stati Uniti sono la sola nazione avanzata sulla Terra in cui non abbiamo leggi di buon senso per il controllo delle armi, nonostante le ripetute uccisioni di massa. Se consideriamo il numero di americani uccisi per terrorismo dall'11 settembre sono meno di cento, mentre le vittime della violenza delle armi sono nell'ordine delle decine di migliaia. Non essere in grado di risolvere questo problema è stato angosciante: ma non è un tema sul quale ho intenzione di smettere di lavorare nei restanti 18 mesi». Queste parole di Barack Obama arrivavano, consegnate al microfono di un inviato BBC, all'indomani della strage di Charleston, in cui Dylann Storm Roof, 21 anni, ha fatto fuoco con una pistola calibro 45 regalatagli per il compleanno dal padre, all'interno della Emmanuel African Methodist Episcopal Church durante una lettura della Bibbia. Il bilancio della sua azione: nove morti - tre uomini e sei donne -membri della comunità afroamericana che frequenta la chiesa tra cui anche il pastore, il reverendo Clementa Pinckney, senatore del Partito democratico. Un mix di impotenza e frustrazione del comandante in capo della Nazione più potente della Terra, che fa chiaramente trasparire l'influsso e la capacità d'azione della lobby delle armi negli Stati Uniti. Quasi sfrontata nell'attaccarlo («Il presidente Obama - affermarono commentando gli ultimi dati del Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives -non si fermerà di fronte a niente per spogliare i cittadini del loro diritto costituzionale di difendersi»). E nell'evidenziare che proprio gli annunci di leggi più restrittive sulla detenzione delle armi hanno indotto le persone a correre ad acquistarle: «Barack Obama merita il premio di "Venditore di armi del decennio"» ha commentato, non senza sarcasmo, Erich Pratt, portavoce di Gun Owners of America. «Il presidente è stato implacabile nei suoi attacchi contro il Secondo Emendamento alla Costituzione (quello del 1791 che garantisce il diritto di possedere armi, ndr) e non c'è da stupirsi che la gente abbia paura e voglia proteggersi» ha aggiunto Jennifer Baker, portavoce della National Rifle Association (NRA). In effetti, i dati sembrano incontrovertibili: durante la presidenza Obama la produzione di armi da fuoco negli Stati Uniti è passata da meno di 4,5 milioni di unità a oltre 10,8 milioni di unità con un incremento del 140%: è vero che l'export è cresciuto nell'insieme, però riguarda meno di 400mila unità; ma è aumentato soprattutto l'import che nel 2013 ha superato i 5,5 milioni di unità toccando un record trentennale. Anche sul fronte della legislazione, le notizie non sono incoraggianti. Come riporta una meticolosa inchiesta del New York Times del dicembre 2013, cioè a un anno esatto dalla strage di Newtown (alla Sandy Hook Elementary School un ventenne aprì il fuoco uccidendo 27 persone, tra cui 20 bambini sotto i 7 anni), delle 109 nuove leggi approvate nei vari Stati solo un terzo ha effettivamente rafforzato le restrizioni sulle armi, mentre la maggior parte le ha di fatto ammorbidite. Ed è proprio su questo versante che si manifesta la potenza mediatica della lobby delle armi negli Stati Uniti. Una lobby capitanata dalla National Rifle Association (NRA), una delle più influenti degli Stati Uniti: un'entità che Obama conosce bene e di cui ha ripetutamente evidenziato l'influsso su Camera e Senato: «Sfortunatamente, la presa della NRA sul Congresso è estremamente forte - ha ribadito nei giorni scorsi. E non prevedo nessuna iniziativa legislativa all'orizzonte, finché l'opinione pubblica Usa non sentirà un senso d'urgenza che porti a dire "tutto questo non è normale, possiamo cambiare qualcosa e abbiamo intenzione di cambiarla"». Eppure, una recente ricerca dell'Harvard Injury Control Research Center smentisce numerose delle tesi sostenute dalla lobby armiera. A cominciare da quella secondo cui "possedere un'arma in casa rende più sicuri" (lo pensa solo il 5% degli intevistati, il 64% sostiene l'esatto contrario). Ma, soprattutto, l'inchiesta dimostra che per il 72% degli americani leggi più severe sulle armi aiutano a ridurre gli omicidi. Eppure questo punto di vista pare non riuscire a far breccia tra le maglie dei legislatori statunitensi. Inutile domandarsi di chi è il merito. DOVE PRENDONO I SOLDI I LOBBISTI? La National Rifle Association (NRA) è un'organizzazione ben strutturata tanto da essere considerata "la lobby più influente degli Stati Uniti". Potente con l'elettorato e, ancor di più, con il ceto politico: secondo il Centro Open Secrets l'influenza della NRA si fa sentire non solo attraverso i contributi elettorali, ma anche con i milioni di dollari di spese non rese pubbliche (off-the-book ) per diffondere annunci pubblicitari. Le sole sue spese di lobbying sono nell'ordine di svariati milioni di dollari all'anno, usati per esercitare la sua influenza su agenzie governative, membri del Congresso e su vari ministeri tra cui quelli degli Interni e del Commercio. Un'imponente organizzazione, fondata nel lontano 1871, che oggi può disporre di svariati milioni all'anno (il Washington Post parla, forse esagerando, addirittura di 250 milioni) raccolti attraverso donazioni e sostegni di singoli aderenti, spesso esentabili dalle tasse, ma soprattutto col contributo delle maggiori aziende produttrici di armi e delle ditte specializzate nella rivendita. Come riporta una delle rare indagini in questo oscuro ambito, promossa dal Violence Policy Center (VPC), la NRA ha messo a punto uno specifico "Corporate Partners Program " (Programma per le aziende) per incrementare i contributi da parte delle ditte produttrici e rivenditrici di armi. Tra i donatori primeggia Midway USA, un colosso nella vendita online (non ha negozi fisici) di armi e munizioni di tutti i tipi che non solo ha donato più di cinque milioni di dollari alla NRA di cui è lo sponsor ufficiale del meeting annuale, ma soprattutto ha contribuito a creare il "NRA Roundup Programme " per promuovere la raccolta fondi della lobby armiera. Seguono una serie di aziende produttrici di armi e munizioni: Smith & Wesson, Sturm, Ruger & Co., Blaser USA, Glock, Noser, Barret, Remimgton, Browning. C'era anche la Colt che nelle scorse settimane ha dichiarato bancarotta. Ma soprattutto spicca il gruppo Beretta USA che nel 2008 ha donato un milione di dollari all'"Istituto NRA per l'azione legislativa e le attività per la difesa dei diritti civili". Obiettivo: difendere e ampliare la portata del Secondo Emendamento. E in quei soldi c'è tanta Italia: la Beretta USA fa parte infatti della Beretta Holding, interamente controllata dalla famiglia Gussalli Beretta di Gardone Val Trompia in provincia di Brescia. BERETTA, DAL MARYLAND AL TENNESSEE PER PUNIRE IL GOVERNATORE "OSTILE" Il governatore di uno Stato decide di promuovere leggi più restrittive sulle armi? E io chiudo la fabbrica. È quello che la Beretta ha deciso nel febbraio 2014, chiudendo lo storico stabilimento di Accokeek nel Maryland per aprirne uno nuovo a Gallatin, nel Tennessee. In un comunicato, il presidente Ugo Gussalli Beretta, dimessosi poche settimane fa, giustificava la decisione attaccando frontalmente la decisione dell'allora governatore Martin O'Malley (un liberal del partito democratico) per la sua scelta di limitare la diffusione delle pistole. "Pattern of harassment" (una "prassi di molestie") contro i legali possessori di armi, fu definita la scelta del governatore. Una presa di posizione inusuale per l'azienda italiana che è stata duramente criticata dalle associazioni statunitensi per il controllo delle armi: «Contesta una legge che è molto meno restrittiva di quelle che in Italia proteggono la sua famiglia», ha commentato Jonathan Lowy, del Brady Center to Prevent Gun Violence. Gussalli Beretta ha ovviamente taciuto nella sua lettera i milioni di dollari di finanziamenti pubblici dello Stato del Tennessee ricevuti per aprire la sua azienda. Ma anche così funziona la lobby delle armi. Che nella cinquecentenaria azienda italiana fornitrice di armi alle polizie e all'esercito Usa trova uno dei suoi più attivi azionisti. Di Giorgio Beretta (Analista dell'Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa di Brescia) ed Emanuele Isonio

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L’esito del voto al congresso Usa per l’approvazione degli accordi con l’Iran è destinato a cambiare l’assetto geopolitico del Medio Oriente, ma non solo. Attorno all’intesa sul nucleare ruotano interessi politici, culturali, religiosi e soprattutto economici: basta pensare all’impatto che avrà il ritorno delle risorse energetiche della Repubblica islamica nel mercato dell’oil & gas, da cui l’Iran è escluso ormai da più di 10 anni. Barack Obama ha dichiarato che quest’accordo va supportato in tutti modi, essendo la migliore soluzione per evitare conseguenze ben peggiori che contribuirebbero ad aumentare il caos mediorientale. Ma per evitare una guerra se n’è scatenata un’altra: quella delle lobby. PORTATORI D'INTERESSE ALLA CARICA. Anche la politica estera dei Paesi è sempre più soggetta all’azione dei portatori d’interessi, che spesso vanno a influire in decisioni politiche e diplomatiche. Dal momento in cui il direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Yukiya Amano, ha annunciato la firma del documento da parte del vice presidente iraniano Ali Akbar Salehi, l’attenzione si è spostata al Congresso degli Stati Uniti d’America che si deve pronunciare sulla revoca delle sanzioni. Il presidente Rohani ha infatti dichiarato che non accetterà alcun trattato se non verranno prima ritirate le sanzioni a cui l’Iran deve sottostare da più di 10 anni. MOMENTO MOLTO DELICATO. I lawmakers del congresso stanno vivendo un momento estremamente delicato, paragonabile solo, dicono gli esperti, al voto del 2002 per approvare l’invasione dell’Iraq sotto l’amministrazione George Bush. L’unico modo con cui l’accordo voluto in prima persona da Obama può essere bloccato è che non si raggiungano i due terzi favorevoli al Congresso, in base alla costituzione americana. Israele strenuo sostenitore del 'no' Le lobby più influenti sono gli storici comitati legati a Israele, a oggi il più strenuo sostenitore del 'no' all’accordo sotto la guida del suo presidente Benjamin Netanyahu. Dove la diplomazia ha fallito, entrano in campo i lobbisti ed esperti di comunicazione: solo l’Aipac (American Israel Public Affairs Committee) ha stanziato 20 milioni di dollari in annunci pubblicitari in televisione e una delle più ingenti campagne sui social media a cui si sia mai assistito in America. MOVIMENTI DAL BASSO. Non solo: la strategia del grass roots advocacy è ormai consolidata negli Stati Uniti, volta a mobilitare i movimenti dal basso della società per indurre i decisori politici a riconsiderare le proprie posizioni. La spinta dei movimenti sociali costringe le istituzioni a doversi interfacciare con ambienti non istituzionali, ma che hanno un importante peso politico. L'associazione Citizens Against a Nuclear Iran è nata all’interno di questa battaglia mediatica, mentre la Republican Jewish Coalition può contare su 40 mila membri. 'INGAGGIATI' I SENATORI. L’obiettivo è quello di spingere l’opinione pubblica e i decision maker contro l’accordo con l’Iran, attraverso digital advertising e  ingaggiando sui social media i senatori di maggiore rilevanza, mentre Israele, dal canto suo, sta invitando decine di membri del congresso - sia democratici che repubblicani - a visitare Israele pubblicamente. Obama accusa le associazioni di diffondere falsità Durante un discorso all’American University, Obama non si è limitato a sostenere il ritiro delle sanzioni, ma ha pubblicamente accusato la stessa lobby che aveva voluto la guerra in Iraq di boicottare l’accordo con l’Iran, lasciando come unica alternativa un’altra guerra. In questo contesto il riferimento all’Aipac è stato implicito, a differenza dell’incontro organizzato con i membri della lobby anti-accordo: il presidente Usa li ha accusati di «aver speso milioni di dollari in pubblicità contro l'accordo sul nucleare iraniano» e di diffondere anche «false informazioni». Obama ha detto ai rappresentanti della lobby che non starà a guardare i loro attacchi ai quali ha promesso di «replicare in modo duro», come scrive lo stesso giornale americano. CAMPAGNA A FAVORE DA 5 MILIONI. La risposta non s’è fatta attendere: la Casa bianca ha ingaggiato Ong e Movimenti pacifisti tramite le stesse organizzazioni di grassroots che lo hanno portato alla vittoria durante le elezioni del 2008. Anche in questo caso non mancano i fondi: J-Street, una fondazione di ebrei liberali, ha stanziato 5 milioni di dollari in una campagna mediatica a favore dell’accordo, così come sono stati creati un account Twitter e un sito dedicato. Anche la fondazione Ploughshares ha dichiarato di aver speso 11 milioni di dollari negli ultimi sei anni per raggiungere un accordo con l’Iran: vedendo i risultati, si può dire che sono stati soldi ben spesi. L’IMPORTANZA DELL’OPINIONE PUBBLICA. Come ha ricordato il Senatore Ben Cardin in un’intervista ad Al Jazeera, «questa è una società aperta. L’opinione pubblica è una parte importante del processo». È probabilmente questo il fattore che ha spinto il presidente Obama a un’azione più determinata, dato che i recenti sondaggi, contrariamente all’inizio di agosto, danno la maggioranza dei cittadini contrari alla linea pro accordo. La marcia del 26 luglio contro l’intesa nucleare ha mobilitato migliaia di persone, spiazzando la Casa bianca e mostrando l’efficienza delle campagne grass roots organizzate dalle lobby contrarie al ritorno dell’Iran sullo scenario mondiale. Si vedrà quale strategia risulterà vincente, e quale linea prevarrà al Congresso americano. Una decisione che modificherà sicuramente gli equilibri mediorientali, e che probabilmente rimarrà nella storia come uno dei più grandi fallimenti o successi dell’amministrazione Obama. Fonte: Lettera43 - Gianluca Comin Twitter @gcomin

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Hillary Clinton ha dichiarato il proprio appoggio a una nuova regolamentazione proposta dalla sinistra democratica sul tema della regolamentazione del lobbying, segnando un punto a favore dei progressisti liberal che sono sempre più un cavallo di battaglia della ex first lady per la candidatura alle Presidenziali del 2016. Il Bill presentato dal senatore del Wisconsin Tammy Baldwin e sponsorizzato anche dalla senatrice Elizabeth Warren intende attenuare il meccanismo delle revolving doors tra Wall Street e Washington. La Clinton conviene nell’affermare che la fiducia degli americani nell’establishment istituzionale “si sta erodendo. Il popolo americano deve essere messo in condizione di fidarsi di ogni persona che lavora a Washington, dal Presidente fino ai membri delle agenzie governative, mettendo davanti a ogni altra cosa l’interesse generale”. Obiettivo del Bill è restringere le occasioni di influenza da parte del settore privato nei confronti di quello pubblico, in particolare restringendo decisamente il meccanismo delle revolving doors. L’appello della Clinton è stato immediatamente appoggiato da diversi gruppi progressisti, quali Democracy for America, Progressive Change Campaign Committee, American Family Voices e CREDO Action. Anche gli altri candidati democratici hanno appoggiato il Bill. Il senatore del Vermont Bernie Sanders ha da sempre supportato la limitazione dell’attività dei lobbisti a Washington, così come l’ex governatore del Maryland Martin O’Malley. La proposta di regolamentazione proibisce agli ex membri delle istituzioni i cosiddetti “paracadute d’oro”, i bonus che arrivano dal settore privato per l’assunzione di dipendenti pubblici. Inoltre viene prolungato il periodo in cui le revolving doors sono vietate fino a due anni. Una norma simile è prevista per il percorso inverso: i regolatori finanziari per due anni non potranno favorire ex impiegati passati al settore privato. I gruppi progressisti, in particolare Democracy For America, stanno conducendo una forte campagna di moral suasion nei confronti della Clinton per l’appoggio dichiarato alla proposta. Ma non è solo la candidata democratica a “sparare sui lobbisti” durante la propria campagna elettorale. Nello scorso mese di luglio, Jeb Bush (candidato repubblicano) in un discorso alla Florida State University ha denunciato le lobby di Washington, secondo lui un potere eccessivamente preponderante nella democrazia americana tale da aver tolto indipendenza alla stessa Presidenza e al Congresso. “Serve un Presidente che cambi la cultura della capitale nazionale”, ha dichiarato. La scorsa settimana anche Donald Trump, altro candidato del GOP, si è schierato contro i lobbisti e gli interessi di parte rilasciando alcune dichiarazioni alla CBS: “ho rifiutato una donazione di 5 milioni da un lobbista, sono soldi che non prenderei mai. Cambierò il sistema, non voglio essere legato ad alcun interesse, il nostro Paese rischia in questo modo di non avere più una middle class”. La “caccia al lobbista” è uno sport che lo stesso Presidente Barack Obama ha praticato negli ultimi anni. Nel 2011, Obama dichiarava al NY Times che non avrebbe preso soldi dai grandi gruppi di pressione americani e si è impegnato a porre un freno all'influenza corruttrice dei gruppi di interesse. Salvo poi, però, affidarsi ad alcuni di loro come Sally Susman, manager della casa farmaceutica Pfizer, per attività di fundraising e comunicazione per la campagna elettorale di mid-term. In questi giorni, poi, Obama stesso si trova ad appoggiare ed essere appoggiato da diversi gruppi di pressione che chiedono l’implementazione degli accordi sull’Iran, diventando egli stesso “primo lobbista” (espressione coniata dal prof. Petrillo in occasione dell’attività di promozione della riforma sanitaria del 2010) nei confronti dei membri del Congresso in favore dell’accordo sul nucleare (come accaduto nei confronti del deputato dello stato di New York Jerrold Nadler, che ha poi appoggiato l’accordo). In realtà il mercato del lobbying negli Stati Uniti è ancora molto vasto e influente. Secondo un rapporto della ONG Open Secrets, pubblicato lo scorso giugno, la spesa in lobbying nei confronti del Congresso è di circa 1,6 miliardi di dollari per il primo semestre 2015: una cifra in linea rispetto agli anni precedenti, per un numero di impiegati nel settore che si aggira attorno ai 10.000 (per rimanere, però, ai lobbisti professionisti e solo al livello federale, tralasciando il livello locale). Come riportato da un articolo di Repubblica, il lobbying rimane un'attività è talmente connaturata al sistema politico-costituzionale degli Stati Uniti da essere scherzosamente definita (con una tipica espressione slang) as American as apple pie.

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