Il passaggio dal sistema delle guanxi a un’azione organizzata di lobbying è un cambiamento epocale nella storia della Cina. Il secolare sistema delle conoscenze amichevoli, personali, scolastiche, familiari ha contraddistinto la crescita economica di un Paese refrattario all’apertura verso l’esterno, orgoglioso della propria cultura e non desideroso di cercare il meticciato. “Per fare affari con la Cina - si diceva in coro - è necessario avere le giuste guanxi”.
Era vero, ma solo per uno stadio iniziale. Era il riflesso di una società socialmente disciplinata ed economicamente non attrezzata. L’individualismo era dannoso, sia per una visione confuciana che comunista. Più importanti erano le organizzazioni collettive: la famiglia, il clan, la società segreta, la comune popolare. Aprirsi al mondo del business internazionale, come la Cina ha iniziato a fare nel 1978, era possibile solo con le strutture esistenti, quelle dei vincoli guanxi. In un sistema fortemente ideologizzato, non esistevano le minime strutture per poter intraprendere una riforma economica. In assenza di una concorrenza genuina, le guanxi hanno movimentato il mercato, dando spazio a un dinamismo sociale lontano dall’etica di Max Weber ma non per questo meno capace di produrre ricchezza. Se le banche non funzionavano, la circolazione del denaro era garantita da altri canali; se le dogane erano burocratizzate, la movimentazione delle merci era comunque assicurata.
Un tale sistema era appetibile per gli italiani. Senza sforzi risolveva le inadeguatezze della Cina: bastava conoscere qualcuno che avesse “le giuste guanxi” e la Cina sarebbe diventata la destinazione immediata dei prodotti nazionali. La storia, ovviamente, è andata per altre strade e il sistema ha prodotto ricchezza solo all’interno, in un mondo di rapporti culturali consolidati da secoli di consuetudini nelle quali è impossibile entrare. Il modo migliore per trarre vantaggio dalle guanxi, per un imprenditore straniero, è farle fare un passo indietro. Vale a dire ricominciare da capo e porre all’interlocutore cinese le 2 priorità classiche: un buon prodotto e un valido servizio. A essi vanno poi aggiunte le eventuali guanxi, lasciate al libero gioco delle parti. Lo rileva anche un’indagine di Osservatorio Asia sulla presenza economica italiana in Cina. Tracciando un censimento degli investimenti italiani, la ricerca ha rilevato che le “conoscenze personali” hanno effettivamente svolto un ruolo significativo nell’affermazione dell’azienda in Cina. Si è trattato comunque di un passo successivo a quelli tipici dell’impegno aziendale: l’analisi del Paese e del mercato, lo studio della concorrenza, il finanziamento dell’impresa, la scelta dei partner per le joint venture.
Lo spettacolare successo economico della Cina negli ultimi 25 anni ha fatto crescere anche le strutture del Paese, facendole perdere in parte i suoi connotati di unicità. La Cina è ormai la 6° potenza economica, il 3° Paese per interscambio commerciale e la 1° destinazione di investimenti stranieri. Pur mantenendo una straordinaria coesione sociale, in presenza di cambiamenti così massicci, la Cina si è progressivamente avvicinata alle moderne economie industriali e ne ha recepito i meccanismi. Il lobbying è una di queste. Si rivolge essenzialmente al frastagliato mondo delle leggi e dei regolamenti che possono intralciare o favorire il libero corso degli affari. In un Paese dove la morale ha sempre prevalso sulla legge, oggi si cercano nuove regole scritte, in grado di mettere ordine nell’incertezza del diritto e di limitare abusi e favoritismi.
Non sono solo gli stranieri, ma la Cina stessa ad averne bisogno. La parte più dinamica della società si rivolge con lobby e non con guanxi al legislatore per superare i retaggi del passato e immettere definitivamente il Paese nell’arena economica internazionale. È la componente più giovane e moderna dell’imprenditoria cinese, che non ha bisogno del vecchio sistema di protezioni, dei dazi all’importazione, di coperture politiche. Ha assistito con piacere all’ingresso del Paese nel Wto; si preoccupa delle imitazioni illegali: quelle che subisce, non quelle che compie.
La Cina dunque assiste a una doppia lobbying, con le gambe degli interessi degli imprenditori locali e di quelli stranieri, uniti nel perorare le proprie cause presso il Governo Centrale. Quest’ultimo ha un compito titanico: pilotare il Paese da un’economia pianificata a un sistema di mercato. Deve farlo legiferando, con una messe di provvedimenti mai conosciuti nella storia del Paese. Le norme spesso disciplinano dall’inizio argomenti sconosciuti a un Paese contadino. Esse investono ogni aspetto dell’andamento aziendale, dalla registrazione all’accesso al credito, dalla distribuzione degli utili al pagamento delle tasse. Riuscire a influenzare la legislazione sugli aspetti societari o addirittura solamente su uno standard tecnico può significare l’affermazione o la caduta di un’azienda.
Pechino e Shanghai sono costellate di imprenditori stranieri in contatto con le agenzie nazionali. Molto spesso le multinazionali assumono ex dirigenti statali per la loro azione. È un paradosso diffuso: ci si affida a ex burocrati di partito per correggere gli errori o le mancanze della stessa struttura. L’opportunità di legiferare al meglio è avvertita dalle centinaia di migliaia di joint venture costituite da imprenditori stranieri con partner cinesi, molto spesso di derivazione pubblica. La difesa di un’economia moderna, l’affermazione di the rule of the law è un interesse comune. Per la prima volta nella storia moderna l’interesse di una parte consistente della società cinese coincide e si allea con quello degli stranieri. Le guanxi rimangono il substrato secolare, lo zoccolo duro della società ma non più dell’economia. Le lobby non rinnegano il passato ma vi si sovrappongono, a conferma che la crescita della Cina, pur se indirizzata verso una maggiore apertura, segue percorsi originali e mai registrati.
Romeo Orlandi - VP Osservatorio Asia


































