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Lobby, ecco i nostri agenti a Bruxelles
Scritto il 2006-05-19 da lobbyingitalia su Europa

Sono sospesi tra il consulente legale, il politologo e i mago delle pubbliche relazioni. Devono avere la risposta sempre pronta. Lì, sulla punta della lingua, a soddisfare la sete di sapere del commissario europeo, dell'eurodeputato di turno o del funzionario. L'importante è il rapporto di fiducia con chi decide, con chi legifera, con chi regola. Il cliente conta su di loro per far passare quel provvedimento ad hoc, o per sventare la norma trappola. public affairs consultants per chi mastica l'inglese, europeo, faccendieri per i detrattori (ormai norme che quattro gatti). In valgono italiano la parola lobbista suona ambigua ed evoca tipi sfuggenti con occhiali da sole e valigetta nera che agiscono nell'ombra.
A Bruxelles invece, la ville lumière di norme e provvedimenti, il lobbista è uno dei 15 mila brillanti professionisti ben informati che possono dare una mano alle istituzioni sempre a caccia di preziosi dettagli tecnici. Ci sono anche società specializzate in public affairs, come Gavin ! Anderson & Co., Interel, Apco, Eppa, European Strategy & Lobbying... Il tutto i per un giro di affari annuo di circa 80 milioni di euro. L'entità è tale che la stessa Commissione europea ha appena varato un libro verde sulla trasparenza nel lobbying. In questa babele i linguistica, giuridica e politica, i protagonisti si muovono spesso supportati da altisonanti titoli preceduti dal «ex», come ex diplomatico o ex onorevole. I britannici sono i più abili e i meglio organizzati. Come direbbe qualcuno dalle nostre parti, «gli inglesi fanno sistema».
Ma come Enel ha imparato a proprie spese, anche i francesi sanno fare sistema. E qui cominciano i dolori per l'Italia, che i suoi lobbisti sul posto ce li ha, ma ha cominciato tardi e insegue con fatica. Frammenti di pubblic affairs nostrani vanno raccolti qua è là per Bruxelles. Al numero 19 dell'Avenue Marnix, in un palazzo ari notiveau (proprio di fronte al quartier generale di Electrabel- Suez) c'è uno studio storico del lobbismo italiano. È la sede di Epro. Il responsabile, Giulio Ripa di Meana, cominciò negli anni Ottanta, quando il fratello Carlo era commissario europeo all'ambiente. Analizza spietato le tare del lobbying italico. Sono genetiche: «Le imprese italiane non ci sanno fare, non vogliono spendere e pensano ancora che basti riolgersi al ministero per ottenere qualcosa». E soprattutto le imprese italiane non sanno che nel lobbying è importante spendere per prevedere e anticipare l'evento: «C'è una grande multinazionale agroalimentare statunitense che acquista i nostri servizi, solo per avere analisi sugli scenari futuri al Wto. Vogliono sapere come agirà l'Ue nei negoziati agricoli in sede di trattative internazionali ».
Il rapporto è tra lobbista, eurodeputato e funzionario: «È un do ut des, l'Ue non può sapere tutto quello che accade in Europa, il funzionario ha bisogno quindi delle informazioni che gli arrivano dai consultants». E di solito il primo passo, ovvero l'approccio del consultant col politico o col funzionario, avviene proprio su queste basi. Il lobbista deve conquistarsi la fiducia offrendo informazioni utili ai fini della legislazione, quindi i dettagli tecnici della mate- ria. Si tratta di un servizio gratuito: «II lobbismo negativo, il pagamento di tangenti, non è necessario a livello europeo. Gli eurodeputati sono ben contenti di ricevere informazioni gratis per potere fare il loro lavoro di produzione legislativa. Punto e basta». Non si tratta solo di influenzare la legislazione, ma anche di informare il cliente, mettendo le mani su primizie gelosamente celate nel faldoni delle istituzioni: «Per instaurare un rapporto come si deve con un funzionario, si inizia per via epistolare, poi si prosegue per telefono e dopo quattro o cinque tentativi si può cominciare a chiedere. In tutto ci vuole un anno prima di creare la fiducia necessaria», conclude Ripa di Meana.
In un'elegante maison de maitre tipica dei Paesi Bassi c'è invece il Cipi, Centro italiano prospettiva internazionale. Il suo ideatore, Paolo Raffone, è un ex funzionario Onu che si è fatto le ossa a Sarajevo tra il '92 e il '95, proprio in piena guerra. La sua idea è di fondere il ruolo di think-tank a quello di società di bbbying. A questo scopo, il Cipi ha redatto un rapporto che studia le lobby italiane a Bruxelles. Sentenza: «Frammentazione, particolarismo, eccessiva improvvisazione, un riflesso della realtà italiana». Il commento di Raffone: «Non è un problema di quantità, ci sono almeno 120 uffici di rappresentanza italiana a Bruxelles. La debolezza è altrove. Ad esempio nell'eccesso di individualismo. Ogni gruppo industriale difende il suo particulare, gli italiani non si alleano come fanno gli altri, né tra di loro, né con partner stranieri, come sarebbe il caso oggi a Bruxelles». E gli antichi vizi italici vengono a galla: «C'è poca tecnica e strategia e molta improvvisazione e tutto si basa sulle amicizie». Ma ci sono anche casi in cui gli italiani si trovano a saltare gli steccati dei gruppi politici e a cooperare tra loro al di là dei partiti. È il caso del regolamento sulle etichette che informeranno su quanti zuccheri o grassi dovranno contenere i prodotti alimentari. Gli eurodeputati Adriana Poli Bortone e Cristiana Muscardini, di Alleanza Nazionale, insieme con Alfonso Andria e Vittorio Prodi, della Margherita, e Guido Sacconi dei Ds (tutti memdella Commissione parlamentare ambiente e sicurezza alimentare) si sono ritrovati a contestare un articolo del provvedimento, sostenuti dal lobbying di Federalimentare, contro gli eurodeputati olandesi e britannici. Sarebbe una vera e propria Waterloo per l'industria alimentare italiana essenzialmente composta (secondo i calcoli di Federalimentare) da piccole imprese con meno di nove dipendenti. «È un regolamento voluto dalla grande industria, soprattutto le multinazionali anglosassoni e nordeuropee. È scappato di mano alla commissione europea, che rischia di essere condizionata nella sua discrezionalità dal peso delle grandi corporations» commenta un lobbista di Federalimentare a Bruxelles. È un dato di fatto che la nazionalità ha un suo peso, dice Alfonso Andria, grande guastatore del provvedimento. «Su certe questioni veniamo avvicinati dai gruppi di interesse e, se l'argomento è fondato, cerchiamo di collaborare trasversalmente con i nostri colleghi italiani appartenenti ad altri partiti. In questo senso, qui a Bruxelles, la distanza dalle liti nazionali aiuta».
Chi invece osserva II lobbying con impegno made in Usa, ma cultura italiana, à Nani Beccalli Falco, vicepresidente del colosso energetico General Electric. Lo osserva attraverso una gigantesca vetrata della nuova sede di Bruxelles. Un ufficio, quello di General Electric, che è nato dopo un'ustione di qualche anno fa, quando il commissario alla concorrenza, Mario Monti, stroncò un progetto di fusione con Honeywell. «Fu allora che ci si rese conto dell'importanza di essere presenti a Bruxelles. Penso che dopo quella disavventura, e con la creazione del quartier generale a Bruxelles, ora possiamo sostenere di avere una forte presenza vicino alle istituzioni europee. Se questo è lobbying, sì, è proprio quello che facciamo».
Scarica il rapporto del CIPI

Sergio Cantone - Il Venerdi di Repubblica

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