Dovranno dire grazie a Gordon Brown (vedi biografia a lato), i lobbisti italiani, se quest’anno la loro vita sarà più difficile del previsto. Il ministro dell’Economia, Domenico Siniscalco, ha deciso di mettere un tetto del 2% alla crescita della spesa pubblica, prendendo in prestito dal cancelliere dello Scacchiere quel metodo, ormai da tempo in voga nel Regno Unito, del comprehensive spending review che serve a tenere sotto controllo le uscite statali. E non c’è dubbio che il semplice fatto di porre un limite quantitativo ben preciso riduce i margini di manovra dei gruppi di pressione. Tra i quali, inevitabilmente, finiranno per prevalere i più potenti. Non che diversamente il consueto assalto alla diligenza, a cui si assiste in occasione di ogni Finanziaria, sarebbe stato agevole.
La difficile situazione dei conti pubblici aveva già messo in tensione alcune di queste lobby. A causa dell’alto livello della spesa sanitaria, le industrie farmaceutiche sono da tempo nel mirino del Tesoro. Gli enti locali, Comuni e Regioni, sono le vittime designate del taglio dei trasferimenti dal centro alla periferia. E come sempre, anche questa volta si opporranno.
La Confindustria si sta già preparando ad assorbire con minori traumi possibili la trasformazione degli incentivi industriali da contributi a fondo perduto in prestiti agevolati. Non a caso il suo direttore generale, Maurizio Beretta, ha invocato una riduzione generalizzata dell’Irap. Molte categorie di imprese si preparano quindi a fronteggiare imprevedibili sorprese che la prossima manovra di bilancio potrebbe contenere. Per esempio le imprese di costruzione, che chiedono fondi per il programma delle grandi infrastrutture e certamente non vogliono rinunciare agli sgravi per le ristrutturazioni. Oppure le assicurazioni, le banche e le fondazioni bancarie, tutto un mondo nel quale da tempo si respira aria di un bel giro di vite. Per non parlare delle cooperative, che stavolta potrebbero pagare il prezzo che già gli era stato promesso dal predecessore di Siniscalco, Giulio Tremonti.
Magari qualcuno riuscirà anche ad approfittare della situazione (e dell’inevitabile confusione), per ottenere qualche cosa. Ma saranno briciole. Certamente, in questo contesto, il metodo del comprehensive spending review potrebbe rappresentare un segno di demarcazione con il passato. Ponendo un limite a quella che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha qualche settimana fa definito una «prassi famigerata», quando l’arrivo della Finanziaria in Parlamento «scatena tutte le lobby possibili e immaginabili e tutti gli interessi dei singoli deputati». Ma certamente non può essere considerata la cura radicale per una situazione che non è mai stata affrontata. Come è invece avvenuto nei Paesi anglosassoni, dove le lobby sono molto più potenti, e i relativi interessi ancora più pervasivi, ma almeno c’è qualche obbligo di trasparenza.
Negli Stati Uniti la professione dei lobbisti è regolata per legge. Nei giorni scorsi il candidato democratico alla Casa Bianca John Kerry, accusando il suo rivale repubblicano George W. Bush di non dare dovuta pubblicità ai p opri rapporti con il mondo degli affari, ha rivelato di aver avuto negli ultimi 15 anni 200 incontri con esponenti delle lobby. Nell’ordinamento statunitense esiste una legge che impone di rendere note le spese per attività lobbistiche: un calcolo ormai datato (1996), ma certamente significativo, aveva dato a questo investimento una dimensione di 100 milioni di euro al mese soltanto per gli Usa. In testa, all’epoca, c’era la Philip Morris, seguita da American Medical association e General Motors. Negli St ati Uniti, inoltre, alcune lobby hanno scelto la strada della massima evidenza mediatica. Per sei anni la potentissima National Rifle association, la lobby delle armi leggere, è stata presieduta addirittura dall’attore Charlton Eston. In Italia i tentativi di regolamentare l’attività lobbistica non sono mancati. Nessuno di questi ha però mai avuto successo. In primo luogo per l’efficace lavoro di contrasto delle lobby esterne al Parlamento, ma anche per l’opposizione di molti parlamentari, che sono esponenti di quei gruppi di pressione. Francesco Giavazzi ha ricordato sul Corriere che i professionisti iscritti ad albi rappresentano il 31,4% del Parlamento italiano, contro il 16,4% del Parlamento inglese. Più in dettaglio, il 41% dei parlamentari del centrodestra sono professionisti iscritti ad albi, contro il 15% per parlamentari conservatori dell’epoca di Margaret Thatcher. Nel 1988 fu il Partito liberale italiano a chiedere una legge per regolamentare l’attività delle lobby. Ma non se ne fece nulla.
Quattro anni più tardi il presidente della Camera, Giorgio Napolitano, attaccò violentemente il lobbismo in Parlamento, ammonendo che «l’attività parlamentare» si doveva «svolgere in modo più libero e limpido». Erano gli anni di Tangentopoli e l’argomento era particolarmente sentito. Ma solo formalmente. Durante il governo dell’Ulivo vennero presentate alcune proposte di legge, come quella del Verde Luigi Manconi, che chiedeva di creare un registro dei lobbisti e di rendere noto l’elenco dei regali ricevuti dai parlamentari. Il problema approdò anche nella commissione Anticorruzione, ma senza esito.
Più recentemente, l’ex presidente della Camera, Irene Pivetti, ha avanzato una proposta di regolamentazione (vedi articolo a pagina 3, ndr ). Mentre, esattamente tre anni fa, il deputato della Margherita Pino Pisicchio ha presentato un progetto di legge di sei articoli: era il 13 settembre del 2001 e da allora la sua iniziativa non ha fatto un passo. E questo nonostante lo stesso presidente della Camera, Pierferdinando Casini, abbia dichiarato pubblicamente, il 6 maggio scorso, la necessità «di passare a una disciplina esplicita e formale» del rapporto «fra istituzioni e organizzazioni portatrici di interessi». Ma evidentemente c’è ancora molta strada da fare.
Sergio Rizzo - Corriere della Sera






































