NEWS
C’è la Finanziaria, parte l’assalto alla diligenza
Scritto il 2004-09-13 da lobbyingitalia su Italia

Dovranno dire grazie a Gordon Brown (vedi biografia a lato), i lobbisti italiani, se quest’anno la loro vita sarà più difficile del previsto. Il ministro dell’Economia, Domenico Siniscalco, ha deciso di mettere un tetto del 2% alla crescita della spesa pubblica, prendendo in prestito dal cancelliere dello Scacchiere quel metodo, ormai da tempo in voga nel Regno Unito, del comprehensive spending review che serve a tenere sotto controllo le uscite statali. E non c’è dubbio che il semplice fatto di porre un limite quantitativo ben preciso riduce i margini di manovra dei gruppi di pressione. Tra i quali, inevitabilmente, finiranno per prevalere i più potenti. Non che diversamente il consueto assalto alla diligenza, a cui si assiste in occasione di ogni Finanziaria, sarebbe stato agevole.

La difficile situazione dei conti pubblici aveva già messo in tensione alcune di queste lobby. A causa dell’alto livello della spesa sanitaria, le industrie farmaceutiche sono da tempo nel mirino del Tesoro. Gli enti locali, Comuni e Regioni, sono le vittime designate del taglio dei trasferimenti dal centro alla periferia. E come sempre, anche questa volta si opporranno.
La Confindustria si sta già preparando ad assorbire con minori traumi possibili la trasformazione degli incentivi industriali da contributi a fondo perduto in prestiti agevolati. Non a caso il suo direttore generale, Maurizio Beretta, ha invocato una riduzione generalizzata dell’Irap. Molte categorie di imprese si preparano quindi a fronteggiare imprevedibili sorprese che la prossima manovra di bilancio potrebbe contenere. Per esempio le imprese di costruzione, che chiedono fondi per il programma delle grandi infrastrutture e certamente non vogliono rinunciare agli sgravi per le ristrutturazioni. Oppure le assicurazioni, le banche e le fondazioni bancarie, tutto un mondo nel quale da tempo si respira aria di un bel giro di vite. Per non parlare delle cooperative, che stavolta potrebbero pagare il prezzo che già gli era stato promesso dal predecessore di Siniscalco, Giulio Tremonti.

Magari qualcuno riuscirà anche ad approfittare della situazione (e dell’inevitabile confusione), per ottenere qualche cosa. Ma saranno briciole. Certamente, in questo contesto, il metodo del comprehensive spending review potrebbe rappresentare un segno di demarcazione con il passato. Ponendo un limite a quella che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha qualche settimana fa definito una «prassi famigerata», quando l’arrivo della Finanziaria in Parlamento «scatena tutte le lobby possibili e immaginabili e tutti gli interessi dei singoli deputati». Ma certamente non può essere considerata la cura radicale per una situazione che non è mai stata affrontata. Come è invece avvenuto nei Paesi anglosassoni, dove le lobby sono molto più potenti, e i relativi interessi ancora più pervasivi, ma almeno c’è qualche obbligo di trasparenza.

Negli Stati Uniti la professione dei lobbisti è regolata per legge. Nei giorni scorsi il candidato democratico alla Casa Bianca John Kerry, accusando il suo rivale repubblicano George W. Bush di non dare dovuta pubblicità ai p opri rapporti con il mondo degli affari, ha rivelato di aver avuto negli ultimi 15 anni 200 incontri con esponenti delle lobby. Nell’ordinamento statunitense esiste una legge che impone di rendere note le spese per attività lobbistiche: un calcolo ormai datato (1996), ma certamente significativo, aveva dato a questo investimento una dimensione di 100 milioni di euro al mese soltanto per gli Usa. In testa, all’epoca, c’era la Philip Morris, seguita da American Medical association e General Motors. Negli St ati Uniti, inoltre, alcune lobby hanno scelto la strada della massima evidenza mediatica. Per sei anni la potentissima National Rifle association, la lobby delle armi leggere, è stata presieduta addirittura dall’attore Charlton Eston. In Italia i tentativi di regolamentare l’attività lobbistica non sono mancati. Nessuno di questi ha però mai avuto successo. In primo luogo per l’efficace lavoro di contrasto delle lobby esterne al Parlamento, ma anche per l’opposizione di molti parlamentari, che sono esponenti di quei gruppi di pressione. Francesco Giavazzi ha ricordato sul Corriere che i professionisti iscritti ad albi rappresentano il 31,4% del Parlamento italiano, contro il 16,4% del Parlamento inglese. Più in dettaglio, il 41% dei parlamentari del centrodestra sono professionisti iscritti ad albi, contro il 15% per parlamentari conservatori dell’epoca di Margaret Thatcher. Nel 1988 fu il Partito liberale italiano a chiedere una legge per regolamentare l’attività delle lobby. Ma non se ne fece nulla.

Quattro anni più tardi il presidente della Camera, Giorgio Napolitano, attaccò violentemente il lobbismo in Parlamento, ammonendo che «l’attività parlamentare» si doveva «svolgere in modo più libero e limpido». Erano gli anni di Tangentopoli e l’argomento era particolarmente sentito. Ma solo formalmente. Durante il governo dell’Ulivo vennero presentate alcune proposte di legge, come quella del Verde Luigi Manconi, che chiedeva di creare un registro dei lobbisti e di rendere noto l’elenco dei regali ricevuti dai parlamentari. Il problema approdò anche nella commissione Anticorruzione, ma senza esito.

Più recentemente, l’ex presidente della Camera, Irene Pivetti, ha avanzato una proposta di regolamentazione (vedi articolo a pagina 3, ndr ). Mentre, esattamente tre anni fa, il deputato della Margherita Pino Pisicchio ha presentato un progetto di legge di sei articoli: era il 13 settembre del 2001 e da allora la sua iniziativa non ha fatto un passo. E questo nonostante lo stesso presidente della Camera, Pierferdinando Casini, abbia dichiarato pubblicamente, il 6 maggio scorso, la necessità «di passare a una disciplina esplicita e formale» del rapporto «fra istituzioni e organizzazioni portatrici di interessi». Ma evidentemente c’è ancora molta strada da fare.

Sergio Rizzo - Corriere della Sera

Tony Podesta uno degli uomini più ricchi e potenti degli Stati Uniti è a Roma invitato dalla Ferpi, la federazione relazioni pubbliche, per parlare di “ fundraising in politica”. Scarica l'articolo in pdf “I soldi sono come l’acqua, anche se provi a imbrigliarli, trovano sempre la loro strada”, sa il fatto suo “the lobbyst”, il lobbista, come lo ha definito il Newsweek. Americano ma con nonni italiani di Chiavari. La sua presenza in Italia per un importante confronto tra Italia e Stati Uniti. Podesta oltre ad essere un grande lobbista potrà offrire anche il suo punto di vista anche nella veste di fratello di John, ex capo di gabinetto di Bill Clinton e poi direttore del Transiton Team di Barack Obama. Parlando di Obama viene immediato il parallelismo con Renzi. “ Hanno molto in comune, sono più giovani dei loro predecessori, sono entrambi molto ambiziosi e pieni di energia. Renzi come Obama, vuole cambiare il sistema e renderlo più trasparente e stabile”. Così Podesta. Alla domanda: quanto i valgano i soldi in politica e se le regole attuali del finanziamento riescano realmente a contrastare l’influenza delle lobby, Tony sorride e poi commenta: “Negli Usa siamo stati a lungo come il Far West, ma senza lo sceriffo. Ancora negli anni 70 il senatore democratico Herman Talmadge era solito mettere in una larga tasca del cappotto i soldi dei finanziatori”. Molte leggi, come quella del 74’, hanno provato a limitare le donazioni: “Ma quando i soldi incontrano la politica le buone intenzioni non bastano”. Visione cinica ma molto realistica di come stanno le cose. Una recente sentenza della Corte Suprema ( il caso McCutcheon). Che toglie il tetto di spesa complessivo per le donazioni di privati. Aumentando l’appetito dei finanziatori ma anche della politica. “ Alcuni di noi non apprezzano. Era meglio un limite. Anche perché non potremo più rispondere a chi ci chiede altri soldi: mi dispiace ma non si può”. Il pensiero va così al Watergate e il famoso “follow the money”, seguire il flusso dei soldi, fà capire molto. “L’unico modo per avere una reale competizione, è che ogni partito abbia lo stesso numero di ricchi a sostenerlo. Obama e Romney nell’ultima campagna hanno speso la stessa cifra circa un miliardo di dollari”. Poi c’è la “parte” dei lobbisti: “Conoscete i fratelli Koch? In due hanno speso 25 milioni di dollari per sconfiggere 7-8 candiati democratici al Senato. Davvero difficile conoscere i veri finanziatori. “ C’è un tetto solo per i finanziamenti ai candidati., ma non ci sono limiti a quanto si dà ai gruppi indipendenti, che poi finanziano i politici. E sono importi che non sono soggetti a rendicontazione”. Ma allora la politica può mantenere la propria autonomia navigando fra miliardi di dollari? “ Sì. Guardate quello che è successo nel 2008. Obama aveva grandi fondi da Wall Street. Poi ha fatto la riforma bancaria, la borsa si è ribellata e i fondi sono passati al repubblicano Romney. Però le elezioni le ha vinte lo stesso. Morale: non sempre i soldi controllano la politica. In Italia parte ora il sistema della contribuzione volontaria e lo stop progressivo del finanziamento pubblico. Staremo a vedere. Anche negli States c’era un sistema di finanziamento pubblico: “Obama l’ha fatto fuori. Perché pensava di raccogliere molti più soldi dai privati, più dei 70 milioni pubblici previsti. Non l’ha fatto per motivi ideali: voleva vincere. Davvero difficile pensare che gli italiani abbiano intenzione di dare soldi ai partiti, che non godono affatto di popolarità: “Non è che siano così amati neanche da noi. Ma la gente i soldi li dà a Obama, non al partito.” Il problema è che in Italia i lobbisti sono visti di cattivo occhio e spesso vengono etichettati come persone poco serie. “ Noi diamo solo informazioni e punti di vista. E siamo controllati: dobbiamo fare una relazione trimestrale sui nostri conti clienti e sull’oggetto della nostra attività. Da voi manca la trasparenza”. Vogliamo pensare che sicuramente non esiste neanche a Washington la trasparenza assoluta. Siamo viziati dalla serie televisiva House Of Cards? O forse ci fa comodo pensarlo perché con regole chiare funzionerebbe anche in Italia? Nel dubbio si potrebbe cominciare a pensare ad processo di regolamentazione di una professione che esiste a tutti gli effetti e alla quale bisognerebbe guardare con più attenzione ed apertura senza il solito sospetto “all’ italiana” sempre e comunque laddove i flussi di denaro sono più corposi.

Imprese - Lobbyingitalia

(Virginia Piccolillo) In settimana la bozza con le nuove regole per gli appalti. Renzi: Orsoni a casa, esempio per gli altri Scarica l'articolo in pdf Norme per ridurre le stazioni appaltanti, revisione del sistema di qualificazione di impresa, più trasparenza sui subappalti. Ma, a sorpresa, anche la legalizzazione delle lobby. Eccola la bozza del nuovo codice degli appalti, annunciato dal ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi come una delle contromisure che il governo intende adottare per evitare altri scandali Mose, la tangentopoli dell’impianto contro l’acqua alta a Venezia. Liquidato dal premier Matteo Renzi il sindaco Giorgio Orsoni («È uno di noi? Ha sbagliato? Bene, a casa. E che serva da esempio anche agli altri» ha detto ieri il leader pd), ora si punta a varare in fretta misure che facciano archiviare questa vicenda. Ma con quali esiti? Dipenderà da cosa verrà inserito nei provvedimenti. La revisione del codice degli appalti è uno dei punti chiave. La bozza è già pronta. In questa settimana verrà presentata ai gruppi parlamentari, alle parti sociali, all’Ance e a Confindustria, per le ultime limature. Per poter poi approdare al Consiglio dei ministri entro luglio. E Riccardo Nencini, viceministro delle Infrastrutture e segretario nazionale del Psi, che ha avuto la delega a riguardo ancor prima che esplodessero i casi Mose ed Expo, e ci lavora da Aprile, ci anticipa i punti salienti. A partire da una norma destinata a far discutere: la regolarizzazione delle lobby. Spiega Nencini: «Faremo in modo che i gruppi di pressione vengano alla luce del sole». Come? «Chiunque ricopra un ruolo istituzionale, se riceve un lobbista, dovrà annotare su un registro apposito tutto su quell’incontro: chi era, chi rappresentava e cosa chiedeva la persona ricevuta. Attualmente non c’è nessuna legge che regola questa attività, se si esclude quella della Toscana del 2001. Si tratta di mettere sulla stessa linea di partenza le aziende. Almeno dal punto di vista dell’informazione, ed evitare che chi è più vicino al governo possa trarne vantaggio». Ai dubbi se sia il caso di rendere la vita più facile alle lobby, il viceministro risponde così: «Lo fanno già ed è ipocrita non tenerlo presente. Gli Usa hanno deciso di renderli trasparenti». Nel testo della bozza, oltre allo stop alle deroghe, e la revisione del sistema di qualificazione delle imprese, anche il débat public: il coinvolgimento dei cittadini sulle Grandi opere con campagne informative sul territorio. Esclusa la possibilità di dire «no»: «Il decisore alla fine resta lo stesso. Ma se ci fosse stata sui lavori Tav, non avremmo evitato i black-block, però la popolazione sarebbe stata informata in tempo utile sui pro e i contro per valutare da sola l’impatto», chiarisce il viceministro. Ci sarà anche una riduzione delle 36 mila stazioni appaltanti per il milione di appalti banditi ogni anno. Ma non è tutto. Si punterà alla prevenzione dello sperpero con due diligence . A partire dal Mose. «Leggiamo di costi per sovrafatturazioni. Ma il ministero deve ancora erogare fondi. Bisogna capire se sono congrui, alla luce di quanto emerge, o se possono essere tagliati — conclude Nencini —. Io lo farei».

Imprese - Lobbyingitalia

Si parte la mattina presto con la lettura dei quotidiani e la rassegna stampa. Poi si continua con il lavoro che le porta più tempo: il monitoraggio degli atti legislativi pubblicati sui siti del Parlamento e governativi. Comincia così la giornata lavorativa di Fabiana Nacci, 25 anni, barese che lavora a Roma per la società Utopia Lab, giovane società di lobbying romana. Fabiana lavora dietro le quinte, fa attività di studio, e non si definisce lobbista («sono una persona che sta acquisendo esperienza e aspira a diventarlo», afferma). «Lobbista», comunque, è una definizione che non le dispiace. La società per cui lavora si chiama infatti «Utopia Lab – Relazioni istituzionali, comunicazione & lobbying»: ha una decina di dipendenti (il più anziano ha 32 anni; il presidente è Giampiero Zurlo, che ha esperienze di assistente parlamentare per il centrodestra) e il termine «lobbying» indicato subito, con l’obiettivo di sdoganare la parola che in Italia non gode di ottima fama. Fabiana, dopo aver frequentato il liceo classico Socrate a Bari, si è trasferita a Roma per studiare all’università Luiss: laurea triennale in scienze politiche, poi la magistrale in relazioni internazionali. «Una settimana dopo aver preso la laurea triennale ho risposto a un annuncio per uno stage segnalato dalla Luiss. Ho cominciato così e in seguito sono entrata a far parte del gruppo», spiega. «All’inizio avevo una vaga idea su quale fosse il mondo delle relazioni pubbliche. Avevo soltanto conosciuto dei lobbisti a Bruxelles, durante una simulazione per l’università al Parlamento europeo. Ho poi imparato il mestiere sul campo». E allora, cosa fa il lobbista? «Il nostro compito è modificare, introdurre o eliminare disposizioni che interessano i nostri clienti. Nel mio caso seguo l’iter legislativo. Leggo proposte e disegni di legge e capisco se possono interessare i nostri clienti, nel caso li avvisiamo e cerchiamo insieme di capire se ci sono possibilità di inserire, modificare o cancellare emendamenti, ovviamente solo se si tratta di proposte ragionevoli. Realizzo quindi una mappatura dei decision makers, ovvero le persone possono essere coinvolte nel processo decisionale, come i parlamentari o i sottosegretari. Dopo aver scritto il testo, il nostro capo contatta i decision makers». Un caso concreto? «Qualche tempo fa studiammo per conto di Smartbox (la società dei pacchetti turistici in regalo venduti anche nelle librerie, ndr) il Codice del turismo: abbiamo analizzato tutta la legislazione italiana e anche internazionale per capire quali modifiche andavano fatte per regolamentare il settore». Insomma, il lobbista deve saper convincere i politici. E per fare questo ci vuole una certa dose di bravura: «bisogna saper spiegare in modo chiaro e abbastanza celere qual è il problema». Il modello sono gli americani. Sul sito della società, in apertura, c’è una frase di John F. Kennedy: «I lobbisti impiegano dieci minuti e tre pagine per farmi capire un problema. I miei assistenti hanno bisogno di tre giorni e di una tonnellata di cartacce». Certo, non tutti sono avvicinabili. Inutile parlare con il Movimento Cinque Stelle per esempio, che a fine dicembre denunciarono una classe politica schiava della «folla dei lobbisti che assedia il Parlamento». «Ma noi operiamo nella massima trasparenza e il nostro lavoro è basato sulla nostra preparazione. Di certo non diamo mazzette o facciamo regali che possano influenzare il decisore pubblico», spiega Fabiana. Dicembre, tra l’altro, è il periodo peggiore per chi fa questo mestiere, perché viene discussa la Legge di stabilità, che contiene di solito migliaia di emendamenti diversi tra loro e messi alla rinfusa. «Abbiamo dovuto analizzare tremila emendamenti presentati al Senato e i tremila alla Camera, un incubo». Tra i clienti della società ci sono organizzazioni ambientali (FareAmbiente), grosse società (Mistralair di Poste italiane) e anche Google Italia, società che nel 2013 ha speso solamente negli Stati Uniti oltre 10 milioni di dollari per attività di lobbying. Per fare il lobbista c’è anche un corso di studi. Il mese prossimo partirà proprio alla Luiss la terza edizione del master di secondo livello in Relazioni istituzionali, lobby e comunicazione d’impresa (le iscrizioni scadono il 17 gennaio). Il condirettore e cofondatore è il manager barese Francesco Delzio. «In Italia il termine lobbista – spiega Delzio – è vittima di una sorte cinica e bara. Viene considerata una professione oscura e condotta fuori dalla legge. Invece nel mondo anglosassone i lobbisti sono considerati professionisti a tutti gli effetti, che si muovono all’interno delle istituzioni nella massima trasparenza. In Italia, invece, la professione va ricostruita rispetto al modello Bisignani (coinvolto nell’inchiesta P4, ndr). Le materie fondamentali che insegniamo nel master – continua Delzio – sono tre: diritto, economia e comunicazione. Un lobbista può lavorare in un’agenzia, in una grande azienda, in un sindacato o in una organizzazione non governativa. Al momento c’è una grossa fetta di mercato aperta e ci sono diverse opportunità di lavoro in questo settore». Il settore è in crescita, dunque, anche se restano i problemi. «La vera causa della concezione di lobbista come sterco del diavolo – continua Delzio – sta nella mancanza di regolamentazione. Non c’è un albo». Dal 1976 sono stati presentati oltre 40 disegni di legge per regolamentare la professione. L’Unione europea, invece, prevede un albo ufficiale (anche se non vincolante): è il Registro per la trasparenza, che contiene informazioni «su chi svolge attività tese a influenzare il processo decisionale dell’Ue», si legge sul sito. Sono iscritte oltre 5800 organizzazioni, di cui 503 italiane. E non sono soltanto società di lobbying. C’è di tutto: dalla Rai al Wwf, da Confindustria alla Federazione italiana hockey all’Ordine equestre Arcadia di Lecce. Infatti, conclude Delzio: «Chiunque è portatore di gruppi di interessi è un lobbista, anche i movimenti spontanei di cittadini che chiedono di parlare con le istituzioni». Fonte: Corriere.it

Imprese - Lobbyingitalia

LOBBYINGITALIA
NEWS