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(Francesco Angelone) Poche ore dopo la strage di Las Vegas dell’1 ottobre scorso, nella quale Stephen Paddock ha lasciato a terra 58 vittime e 546 feriti in quella che è la più grave sparatoria di massa nella storia degli Stati Uniti, il dibattito sul Secondo Emendamento della Costituzione era già in atto. Come dopo Littleton (Columbine High School), dopo Blacksburg (Virginia Tech), dopo Aurora, dopo Newtown (Sandy Hook), dopo San Bernardino e dopo Orlando, il Paese a stelle e strisce si è diviso: da una parte gun rights e dall’altra gun control.
Sarebbe troppo lungo, in questa sede, analizzare la natura del Secondo Emendamento o la storia della legislazione in materia di armi, ed è forse più interessante capire come stanno oggi le cose e partire dai dati. È complicato stabilire con esattezza quante armi ci siano nelle case degli americani, ma alcune stime riferiscono una cifra superiore ai 350 milioni (40 milioni in più dei 318 milioni di cittadini americani), altre parlano di cifre significativamente più basse (inferiori ai 300 milioni). Ovviamente, non tutti ne possiedono una e il 20% circa della popolazione detiene il 65% delle armi.
Negli ultimi anni gli introiti dei produttori di armi sono incrementati e sono più alti che mai. Si parla di ‘effetto Obama’, perché pare che i tentativi dell’ex Presidente di forzare la mano sul tema abbiano prodotto una sorta di ‘corsa all’armeria’, spronando i gun lovers ad acquistare armi prima di un eventuale ban alla vendita facile. Questo significa che ci sono più sparatorie? Sembrerebbe di no (anzi, pare esserci un drastico calo), elemento che rafforza le ragioni dei possessori di armi che non ritengono opportuna una correlazione tra numero di armi in circolazione e numero di omicidi.
Ma quanti sono i morti da arma da fuoco? Preso in valore assoluto, senza paragoni col passato, il dato è sconvolgente e pare quello di una epidemia: parliamo di oltre 30 mila morti l’anno (più di 2/3 per suicidio), quasi 90 al giorno, cui vanno aggiunti circa 80 mila feriti (i dati sono certificati da un completissimo rapporto OCSE). Dal 1968 (anno in cui furono uccisi, per citare due figure importanti della storia Usa, Martin Luther King e Robert Kennedy) i morti per arma da fuoco sono 1.5 milioni, circa 100 mila in più degli americani morti in guerra dalla Dichiarazione di Indipendenza del 1776.
Potrebbero bastare poche righe per fermare questa epidemia, ma la politica sceglie di non prendere contromisure. Il Congresso ha più volte fallito nel rendere più stringente i background checks (i controlli preliminari) per l’acquisto di armi e ha respinto gli ordini esecutivi presidenziali. Questo accade nonostante, secondo dati del Pew Research Center, l’84% degli americani (compresa quindi la maggioranza degli elettori repubblicani) veda favorevolmente un intervento restrittivo in materia. Il punto, quindi, è che schierarsi in favore di un gun control, costa elettoralmente.
Tuttavia, non sono mancate negli anni, e non mancano tutt’ora posizioni marcate in tal senso. Nella campagna per le presidenziali del 2016 Hillary Clinton è stata sicuramente la più convinta sostenitrice di una legislazione ‘di buon senso’ che tenesse conto della ‘cultura della sicurezza fai da te’ ma che puntasse principalmente a tutelare la sicurezza degli americani. Questo l’ha posta in contrasto perfino con Sanders, le cui posizioni erano più tiepide (votò 5 volte contro il Brady Bill del 1994), sia, soprattutto, con Donald Trump. A fine 2015 la potente, organizzata e famosissima NRA, la lobby delle armi, per nome del suo Presidente La Pierre promise di voler fare di tutto per impedire alla Clinton di mettere piede nello Studio Ovale. Una promessa che si è trasformata in milioni, precisamente 30.3 secondo Opensecrets.org destinati a tutte le piattaforme di sostegno a Trump e circa 1 milione per la sua campagna. Sempre Opensecrets.org stima che dal 1989 i fondi totali elargiti dai gun rights interests per le campagne elettorali siano 10 volte superiori ai gun control interests. Hillary Clinton nel suo libro di memorie, What Happened, sintetizza così la questione: l’NRA è diventata, in sostanza, una sussidiaria delle potenti industrie che producono e vendono armi. La loro ideologia perversa è che tutto ciò che conta, anche se questo costa migliaia di vite.
Quando si passa ad esaminare le spese per attività di lobbying a Washington la musica non cambia e la proporzione tra sostenitori del Secondo Emendamento e sostenitori di una riforma rimane pressoché la stessa. Viste le ragioni delle due parti in causa si assume che le posizioni siano inconciliabili. Lo sono a maggior ragione oggi, a fine 2017, in uno scenario di polarizzazione politica quasi mai così evidente nella storia degli Stati Uniti. Secondo i democratici come la Clinton, l’NRA è dalla parte sbagliata della storia, della giustizia e della human decency. Secondo gran parte degli elettori di Trump ogni tentativo di riforma è un attentato alla libertà e nasconde un piano di requisizione nazionale delle armi. I Repubblicani, fortemente pro gun rights, controllano il Congresso, i Democratici sono culturalmente divisi e inibiti a prendere posizioni palesemente pro gun control per non pregiudicare la propria carriera. Nel frattempo i soldi continuano ad affluire nelle tasche dei candidati e il sangue a scorrere nelle strade.
di Thomas T. Holyoke e Timothy M. LaPira, London School of Economics.
La gente non ama i lobbisti. Gli appartenenti alla categoria vengono rappresentati come trafficanti di influenze corrotti che manipolano i legislatori con donazioni alle loro campagne elettorali. Spesso persino i candidati che vorrebbero sfruttare la rabbia populista contro i lobbisti stessi sembrano non essere in grado di separarsene.
Un esempio? L’annuncio del Presidente Trump sul prosciugare la palude di Washington, anche se uno dei suoi collaboratori più vicini nonché ex consigliere per la sicurezza nazionale, Micheal Flynn, ha svolto attività di lobby per diversi governi stranieri senza nemmeno essere registrato. Oppure Corey Lewandowski, ex manager della campagna di Trump, che ha messo a disposizione il proprio network di relazioni per una società di lobby quasi immediatamente dopo l’elezione. Piuttosto che prosciugare la palude, sembra che essa si stia ampliando.
Sebbene l’attività di lobby sia molto diversa rispetto a come viene generalmente rappresentata, si ritiene ancora inopportuno influenzare la politica in nome e per conto di gruppi di interesse. Il problema delle connessioni illecite dei lobbisti non si presenta solo negli Stati Uniti, ovviamente: la retorica del “prosciugare la palude” impedisce di riconoscere appieno il contributo positivo che l’attività di rappresentanza di interessi apporta al processo democratico. Invece, dobbiamo “nutrire l’acquitrino”, così da distinguere gli aspetti positivi e negativi del lobbying e per far ciò abbiamo riunito un piccolo gruppo di scienziati politici a Porto Rico per un incontro sui problemi della rappresentanza di interessi nei regimi democratici, le cui conclusioni vengono presentate sul numero di Ottobre 2017 di Interest Groups & Advocacy da Thomas Holyoke e Timothy LaPira.
Qualche dato:
Il numero dei lobbisti è in crescita;
I sistemi democratici variano enormemente tra di loro nel regolamentare l’attività di lobby, in particolare con riguardo alle informazioni che devono essere rese pubbliche;
Le leggi sulla rappresentanza di interessi vengono approvate spesso immediatamente dopo degli scandali, ma quasi mai vengono aggiornate;
I legislatori che beneficiano del lavoro dei lobbisti sono riluttanti ad emanare riforme;
Persino le imprese che si avvalgono della consulenza dei lobbisti non sempre conoscono precisamente quali attività vengano svolte;
La definizione stessa di “attività di lobbying” andrebbe espansa;
Con maggiori dati a disposizione del pubblico sarebbe più facile chiarire su quale interlocutore viene effettuata pressione.
Entrambi gli studiosi convengono che l’alta domanda di servizi forniti dai lobbisti incoraggia sempre più rappresentanti a sfruttare le “revolving door”, mettendo a frutto le loro reti di relazioni e competenze in ambito di policy per costituire grandi società. Inoltre riconoscono che molti lobbisti si avvantaggiano della definizione di “lobbista” che viene data dalle leggi federali in materia di trasparenza per evitare di registrarsi o di esplicitare le loro spese, creando così un vasto esercito di “lobbisti-ombra”. Problemi simili esistono nelle democrazie europee: Michele Crepaz ha indagato sulle origini delle leggi sul lobbying, scoprendo che la maggioranza dei Paesi OCSE le ha approvate approssimativamente nello stesso periodo del ventunesimo secolo.
Gli scandali legati all’attività di lobby spesso costringono i governi a regolamentare la rappresentanza di interessi, anche sulla base di quanto raccomandato dall’Unione Europea e da altre organizzazioni internazionali, ma molti stati ancora non si sono mossi in questa direzione. Jana Vargovčíková ha analizzato approfonditamente le proposte vagliate da Polonia e Repubblica Ceca, concludendo che la scarsa regolamentazione, unita spesso alla mancanza di reale interesse ad agire da parte dei rappresentanti eletti, porta a serie difficoltà nel condurre un processo di riforma.
Quindi come si combatte la minaccia del lobbying senza freni? Mettendo sempre più informazioni a disposizione di sempre più persone. Lee Drutman e Christine Mahoney concordano che i lobbisti devono essere obbligati a render noto per conto di chi, come e perché stanno svolgendo la loro attività in dichiarazioni pubbliche. Queste dichiarazioni potrebbero essere utilizzate anche dai legislatori per assicurarsi che vengano ascoltati e protetti quanti più interessi concorrenti possibile: in un’ottica di database aperti online, queste comunicazioni informative potrebbero essere consultate da chiunque, dal grande pubblico come dai giornalisti e persino dagli altri lobbisti. Inoltre Tom Holyoke sottolinea come spesso anche chi si serve della consulenza dei lobbisti non conosce precisamente le attività che vengono svolte: il lobbying può essere tutelato dalla legge solo se i rappresentati conoscono e approvano ciò che i loro rappresentanti svolgono.
Questi rimedi generali basati sui fatti non risolveranno tutti i problemi della rappresentanza di interessi particolari nei governi democratici: la verità è che il lobbying è parte naturale di ogni democrazia. Riteniamo però che la miglior forma di regolamentazione sia aumentare il numero di informazioni pubblicate. I lobbisti stessi potrebbero trarne vantaggio, coinvolgendo le persone che rappresentano in un processo trasparente di lobby giorno per giorno.
Questa è la ricetta per una democrazia in salute.
Traduzione a cura di Paolo Pugliese
Assopostale e Fise Are, le principali associazioni di categoria del settore postale, mettono sul tavolo le proprie proposte su innovazione e concorrenza
Il 9 ottobre, in occasione di quella che l'UPU - Unione Postale Universale ha scelto come la "giornata mondiale della posta", la lobby italiana degli operatori postali privati si riunirà alla Camera dei Deputati, grazie al supporto di Civici e Innovatori, per l'evento “Il mercato postale tra concorrenza ed innovazione”, che si svolgerà a Palazzo San Macuto dalle ore 16:00.
Il gruppo Civici ed Innovatori ha sposato la causa delle associazioni di categoria Assopostale e Fise Are che hanno organizzato il primo forum istituzionale dedicato prevalentemente agli operatori postali privati. Il forum diventerà un appuntamento annuale, in futuro occasione di confronto anche con Poste Italiane, intanto questa prima edizione sarà caratterizzata dagli interventi di Nexive, di Sail Post, di Uniposte s.p.a., di Globe Postal Service e di Gestore Servizi Privati. Alla presenza di forze politiche di maggioranza e di opposizione, del Vice Segretario Generale Agcom Antonio Perrucci e del Segretario Generale di Adiconsum, i principali operatori postali privati illustreranno quali sono le sfide e le opportunità derivanti da un mercato postale sempre più liberalizzato, più concorrenziale, più tecnologico ed attento alle esigenze dei consumatori. A moderare i lavori il Prof. Cesare San Mauro - docente di Diritto dei Mercati regolamentati.
Da pochi mesi gli operatori postali del settore si sono associati per essere un "pungolo" nei confronti delle istituzioni, verso la compiuta liberalizzazione del mercato postale nazionale. Il forum tratterà inoltre di accesso all’infrastruttura postale ed apertura del servizio postale universale come rimedio alla chiusura degli uffici postali ed alla consegna effettuata a giorni alterni. Non mancherà un focus sulle nuove tecnologie che nei prossimi anni adegueranno il tradizionale servizio postale all’espansione dell’e- commerce e delle smart delivery.
(Francesco Angelone) Il Parlamento UE vota sì a più trasparenza per le lobby. A quasi due anni dalla nascita è finalmente approdato giovedì in plenaria a Strasburgo il famigerato ‘rapporto Giegold’, il pacchetto di misure sulla trasparenza, l’accountability e l’integrità delle istituzioni comunitarie elaborato dall’eurodeputato tedesco dei Verdi Sven Giegold.
Il testo è stato approvato col voto favorevole di 368 deputati. Come nasce la relazione? Sebbene le istituzioni UE siano generalmente più trasparenti e accountable di quelle nazionali, è diffusa la percezione di distanza tra le politiche adottate in sede europea e i cittadini destinatari di quelle decisioni. Non solo spesso le informazioni su quanto avviene a Bruxelles sono carenti, ma vi è la sensazione tutt’altro che infondata di poter incidere poco sulle politiche. Molto spesso l’Unione Europea è identificata come ‘Europa delle lobby’ (ovvio!). Vi è la convinzione che per rendere le politiche europee giuste per tutti si debba mettere il guinzaglio alle lobby, costringerle a non spingersi troppo in là, sottoporle allo sguardo attento dei cittadini in un’ampia operazione trasparenza. Intenzione della relazione Giegold è proprio contribuire a marcare una più netta separazione tra potere economico e potere politico.
Cosa prevede?
All’interno vi è il richiamo a tutti i parlamentari di incontrare solo i rappresentanti di interessi iscritti nel Registro per la Trasparenza e chiede che siano inclusi anche gli incontri tra rappresentanti di interessi e Segretari generali, Direttori Generali e Segretari Generali dei gruppi politici. Inoltre, invita i deputati e il loro personale a verificare se i rappresentanti di interessi che intendono incontrare siano registrati e, in caso negativo, a chiedere loro di farlo al più presto prima dell'incontro. Dall’altra parte, ritiene necessario obbligare gli iscritti al Registro per la Trasparenza a produrre documenti per dimostrare che le informazioni trasmesse siano accurate. In più, esorta il Consiglio a introdurre una disposizione analoga che includa le rappresentanze permanenti. Invita (senza prevedere obblighi e sanzioni eventuali), poi, Ufficio di presidenza del Parlamento e Commissione a pubblicare in maniera esaustiva e tempestiva le informazioni circa gli incontri con gli iscritti al Registro.
Il rapporto dell’onorevole Giegold è stato redatto anche con il contributo di alcune realtà della società civile. Tra esse figurano Transparency International, LobbyControl, European Public Affairs Consultancies Association (EPACA), Alliance for Lobby Transparency and Ethics Regulation (ALTER-EU) e l’italiana Riparte il Futuro (nella persona di Giulio Carini).
L’approdo in plenaria, dopo il parere positivo della commissione competente per merito (la Affari Costituzionali) e delle commissioni chiamate a fornire un parere (CONT, ENVI, INTA, LIBE e JURI), non è stato privo di colpi di scena. Insieme al testo base, si è infatti votato un emendamento del PPE volto ad introdurre eccezioni alla lista di soggetti tenuti a sottostare ai vincoli previsti per i lobbisti. La misura, secondo i deputati firmatari, avrebbe salvaguardato quei soggetti sprovvisti di finanziamenti ed interessati a difendere questioni non commerciali. Una formulazione ambigua, che avrebbe allargato le maglie del rapporto indebolendolo, e che ha generato uno scontro parlamentare e social tra Giegold stesso e il PPE e reazioni diffuse decisamente negative.
Chi gioisce per le nuove regole
Il sì al rapporto Giegold è una buona notizia per Transparency International EU e per altri che hanno contribuito alla sua stesura. Giegold ha definito indegno il tentativo dei popolari di mantenere opaca la democrazia in Europa (chissà cosa penserà del nostro Paese?) e ha parlato di un grande successo del Parlamento e dei cittadini. Non ha mancato di sottolineare, però – e quindi non si capisce il motivo per cui definisca il sì al rapporto un grande successo – la debolezza delle decisioni prese in materia di revolving doors, nella quale i deputati hanno preferito adottare standard meno stringenti rispetto a quelli in vigore per i membri della Commissione Europea.
Toni trionfalistici e critiche ai Popolari sono il canovaccio anche dei commenti dei Socialisti. La loro portavoce in commissione Affari Costituzionali, l’ex governatrice del Piemonte Mercedes Bresso, ha rimarcato il decisivo supporto del proprio gruppo ad una relazione che pone fine al lobbying opaco. Il suo collega tedesco Jo Leinen ha spostato l’asticella più in alto ipotizzando un prossimo rafforzamento del Registro per la Trasparenza (invero già programmato dal Commissario Timmermans).
Potere economico e politica, un legame non sempre trasparente e spesso oggetto di discussione. Lobbying Italia ha intervistato l'on. Gianni Cuperlo, deputato del Partito Democratico, sul caso Consip e sulla necessità di maggiore trasparenza di lobby e istituzioni.
Cosa pensa del presunto affaire Consip e dell'altro volto di questa vicenda, l'apertura da parte della Procura di Roma di un fascicolo per rivelazione del segreto di ufficio a carico del dott. Woodcock?
Su vicende giudiziarie per formazione tendo ad astenermi da giudizi e valutazioni. Ripeto concetti assolutamente scontati, che la magistratura deve godere della massima autonomia e deve poter svolgere le sue indagini senza condizionamenti da parte della politica. Nel caso specifico appare molto preoccupante la sola ipotesi che singole figure o apparati dello Stato abbiano potuto fabbricare prove false a carico del capo del governo, dei suoi collaboratori e familiari. Su questa ipotesi è necessario fare totale chiarezza nell'interesse della magistratura, della polizia giudiziaria e delle istituzioni democratiche. Sull'altro versante è necessario che l'inchiesta prosegua e giunga a conclusione in merito alla fuga di notizie che nel pieno delle indagini avrebbe condizionato il loro corretto svolgimento. Per mesi l'amministratore delegato della Consip, tra gli accusatori di un ministro della Repubblica, è rimasto regolamento al suo posto come lo stesso ministro e altre figure apicali. Qualcuno deve comunque avere fornito agli inquirenti una versione falsa degli eventi e dunque un chiarimento di ordine giudiziario, ma anche di ordine politico, rimane necessario. Mi auguro che arrivi in tempi rapidi anche a tutela di reputazione e onorabilità delle persone coinvolte.
Probabilmente l'inchiesta Consip, indipendentemente da come terminerà l'iter giudiziario, mette in luce la necessità di una regolamentazione del lobbying nel nostro paese: secondo lei verso quale direzione si dovrebbe andare?
È banale dirlo ma la direzione da scegliere è quella della massima trasparenza. Esistono normative e discipline che altri Paesi applicano da tempo e che garantiscono un'azione di controllo e prevenzione di quelle forme dirette e indirette di corruzione che alimentano il giudizio negativo sulla classe dirigente e in particolare sul ceto politico. Le norme approvate in questa legislatura per contrastare il traffico illecito di influenze e l'aumento delle pene per i reati di corruzione possono andare nella direzione giusta ma evidentemente tutto questo ancora non basta. Si stima il costo della corruzione nell'ordine di 50-60 miliardi di euro all'anno e ciò rappresenta una delle ragioni della crisi complessiva del nostro sistema economico, politico e democratico. Fingere che non sia così o sottovalutare la portata del fenomeno e le sue implicazioni è una delle più gravi responsabilità in capo alle élites del Paese.
In un paese in cui la figura del lobbista viene ancora vista come un faccendiere l'Italia è culturalmente pronta ad accettare e quindi normare il settore del lobbying?
Ho accennato alla corruzione diffusa perché ho l'impressione che i due aspetti si legano. Il Paese avrà un atteggiamento più responsabile e maturo verso l'azione del lobbying se l'opinione pubblica si convincerà della volontà di colpire con durezza ogni forma e strumento della corruzione. Se vogliamo essere sinceri dobbiamo riconoscere che così oggi non è e questo determina una serie di conseguenze anche nel giudizio su quanti potrebbero e vorrebbero agire nell'ambito della più rigorosa legalità.
Possono le lobby aiutare i partiti politici a superare la terribile crisi di rappresentanza dei partiti che tutt'ora perdura fin da Mani Pulite, o sono due canali di rappresentanza che nel nostro paese viaggeranno sempre su binari separati?
Ho l'impressione che la crisi di rappresentanza dei partiti abbia radici e motivazioni profonde che affondano in un deficit della loro cultura e identità. Partiti che hanno smarrito progressivamente una vocazione e che si sono ridotti a macchine oliate di organizzazione del consenso sul territorio. È un fenomeno che viene da lontano, non riguarda solamente l'ultima stagione e non credo lo si possa affrontare e tanto meno risolvere attraverso interventi o regolazioni che non aggrediscano il cuore del problema. Quindi benissimo una legge che dia piena applicazione all'articolo 49 della Costituzione, ma insisto nel dire che senza una vera e propria rigenerazione della missione storica di quelle culture e tradizioni noi resteremo ostaggio della cronaca e dell'improvvisazione. Temo anche sul terreno indicato dalla domanda.
Intervista a cura di Giorgio Galioto, Eleonora Patella, Mario Verrotti, Andrea Zappacosta e Camilla Zavaroni, Master in Relazioni Istituzionali, Lobby e Comunicazione d'Impresa - Luiss Business School.
Fonte foto: Polisblog.it