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Arabia Saudita, più di 6 milioni l'anno per fare lobby negli USA (Il Manifesto)
Scritto il 2016-01-09 da Redazione su World

Per rifarsi un’immagine sui media statunitensi e guadagnare consensi nell’establishment politico di Washington, l’Arabia saudita spende ogni giorno 565 mila dollari, 6 milioni e 780 mila all’anno. Spese escluse.

È quanto sostiene — calcolatrice alla mano — il giornalista investigativo Eli Clifton, che nei giorni scorsi ha fatto le pulci alla campagna di pubbliche relazioni negli Usa del regno dei Saud. Fino a un paio di anni fa Riyadh è riuscita a cavarsela facilmente. Il decennale accordo di collaborazione strategica con gli Usa gli ha garantito impunità e una certa benevolenza da parte dei media.

Ma con l’aggravarsi della crisi siriana e l’affermarsi dell’Isis — che attinge a piene mani alla dottrina di stato saudita, il wahabismo settario — l’opinione pubblica occidentale ha cominciato a guardare la monarchia sunnita con sempre maggiore scetticismo e preoccupazione.

Molto si è scritto sulle responsabilità dei Saud nella diffusione del settarismo, sui finanziamenti a fondazioni-moschee-scuole religiose in tutto il mondo come strumento di controllo culturale ed economico, meno, molto meno, sui soldi impiegati per costruire o riverniciare la propria immagine, ormai offuscata. Ancora di più oggi, dopo l’esecuzione dello sceicco sciita Nimr al-Nimr, voce autorevole della comunità sciita in Arabia saudita, dove rappresenta tra il 10 e il 15% della popolazione, subendo discriminazioni nei settori dell’educazione, del lavoro, della giustizia, dell’espressione religiosa.

Subito dopo l’annuncio della decapitazione di Nimr al-Nimr, nei talk show americani sono scesi in campo i neoconservatori, pronti a difendere il boia di Stato saudita, sulla base dell’assunto che «il nemico del mio nemico», l’Iran, «è mio amico». Ma i neocons hanno perso smalto, convincono poco, il pubblico sa che sono faziosi. Da qui, il ricorso agli esperti stranieri, considerati più «neutrali». Tra questi il commentatore saudita Salman al-Ansari che, intervistato dal New York Times, ha accusato lo sceicco sciita di aver «organizzato un «network terrorista» nelle aree sciite della parte orientale» del paese, paragonandolo agli ideologi di al-Qaeda. L’esperto Ansari — scrive il giornalista Eli Clifton — è stato fornito al Nyt da Podesta, un colosso delle pubbliche relazioni, tra i più influenti al mondo, che compare nella lista che il governo saudita ha inviato al Congresso Usa in base al Foreign Agent Registration Act (Fara), una legge del 1938 che richiede che gli attori e le aziende che rappresentano interessi stranieri «politici o semi-politici» negli Usa dichiarino attività e finanziamenti.

Tra le aziende incluse nella lista «Fara» come principali agenti per l’Arabia saudita compaiono Dla Piper, Targeted Victory, Qorvis/MSLGroup, Pillsbury Winthrop, Hogan Lovells, oltre al gruppo Podesta. La parte del leone la gioca però Qorvis/MslGroup, azienda con sede a Washington che — recita la presentazione sul sito — «gestisce la reputazione di governi, corporation e individui».

Secondo gli accertamenti di Eli Clifton, il gruppo sembra ricevere dai Saud 240 mila dollari al mese per servizi come newsletter settimanali, distribuzione di tesi o fatti per «promuovere l’Arabia saudita, il suo impegno nel contro-terrorismo, la pace nel Medio Oriente», oltre che per gestire un sito web sull’operazione militare in Yemen voluta da Riyadh.

Dla Piper — studio legale internazionale presente in oltre 30 paesi, Italia inclusa — riceve invece 50 mila dollari al mese per servizi vari, tra quali la lobby con «membri del Congresso» e rappresentanti istituzionali al fine di «promuovere interessi reciproci» tra Usa e Arabia saudita nel campo della sicurezza nazionale. Sommando le cifre sborsate alle diverse aziende, si scopre che «l’Arabia saudita spende 565 mila dollari al mese per le sue operazione di lobbying a Washington, spese escluse. Ciò equivale a 6,78 milioni di dollari all’anno». Una bella cifra. Inferiore a quella impiegata — e più difficile da certificare — per le pubbliche relazioni nel settore della Difesa. E sicuramente superiore a quella che i Saud impiegano per influenzare giornali, politici e imprenditori in Italia.

Giuliano Battiston - Il Manifesto

Quando finisce un amore è un conto, ma quando finisce il matrimonio tra i due lobbisti più potenti di Washington, il potere americano trema. Soprattutto se litigano, usano l’abilità nelle relazioni pubbliche per combattersi, e fanno girare carte che rischiano di imbarazzare chiunque li abbia frequentati. I protagonisti di questa «War of the Roses» sono Tony e Heather Podesta, fino a pochi mesi fa i più grandi manovratori di Washington. Lui è nato a Chicago settant’anni fa, ha studiato al Mit e condotto campagne elettorali da Eugene McCarthy e Ted Kennedy, prima di fondare la compagnia di lobby più nota nella capitale. Suo fratello John è stato capo dello staff nella Casa Bianca di Bill Clinton, ed è appena tornato a fare il consigliere di Obama. Quando si sono incontrati, Heather era una bella ragazza trentenne appena uscita dal suo secondo matrimonio fallito. Durante il primo appuntamento Tony l’aveva portata all’opera, e lungo la strada si erano fermati a casa sua, dove lui le aveva mostrato la straordinaria collezione d’arte: «Non so perché, ma ho solo quadri dove le donne non hanno la testa». Il giorno dopo lei aveva mandato un biglietto di ringraziamento, firmato così: «Una donna con la testa». Si erano innamorati e sposati, davanti a testimoni come la speaker della Camera Nancy Pelosi, con pranzo cucinato dai due celebrity chef Roberto Donna e Kaz Okuchi. Avevano messo insieme le forze, facendo del Podesta Group la lobby più in voga nell’era Obama. «Chi vuole fare qualcosa a Washington - diceva lo slogan - deve venire da noi». Avevano comprato una casa da 6 milioni di dollari sopra Massachusetts Avenue, che si sommava a quelle in Virginia, Australia e Venezia. Nel 2013 lui ha guadagnato 13 milioni di dollari e lei 4, facendo lobby per aziende come Lockheed Martin o Wells Fargo. Il rapporto si è incrinato nel 2012, e un mese prima della rielezione di Obama si sono separati. Ora lei vuole metà dei beni, ha bloccato le opere d’arte e cambiato i lucchetti alla casa di Venezia, mentre lui sostiene che dovrebbe sparire senza pretese. Le ha pure pagato metà di una nuova casa, senza sapere che Heather aveva già una relazione col produttore cinematografico Stephen Kessler. Lei sta cercando di rovinargli anche il business, facendogli concorrenza: «Ci vuole un Podesta - dice - per abbattere Podesta». Tony ha deciso di difendersi usando le relazioni pubbliche, ma questo ha comportato il passaggio delle carte del divorzio ai giornali: «Prima di conoscermi - si legge - guadagnava 55.000 dollari l’anno ed era niente». Per il terrore dei potenti di Washington, che così rischiano di passare dalla pagina degli editoriali del Post, a quelle dei pettegolezzi. Fonte: Paolo Mastrolilli - La Stampa

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Un esercito di 30 mila persone. Un giro d'affari da un miliardo l'anno. Così i lobbisti condizionano gli europarlamentari. Pensando al voto Stati che devono rifarsi un'immagine o che giostrano interessi privati invece che pubblici; multinazionali che si battono per modifcare una direttiva o annacquare un regolamento; alti funzionari che cambiano casacca, escono dalla Commissione e giurano fedeltà all'impresa; uffci di avvocati che dribblano le più elementari regole sulla trasparenza; think tank che sfornano rapporti "indipendenti" anche se vivono grazie a munifci sponsor; sindacati, associazioni di consumatori ed ong che entrano nell'arena decisionale europea agguerriti ma con meno munizioni dei loro rivali... Non è il Far West, è Bruxelles, dopo Washington la seconda città più lobbizzata del mondo. «Le lobby sono come la stampa gratuita, se vi danno informazioni gratis vuol dire che il prodotto sei tu. Sei tu, deputato, funzionario, diplomatico, commissario, quello da convincere», spiega, sorridendo, il lobbista di un grande gabinetto brussellese che, come tutti i colleghi, si prepara a modo suo alle elezioni di maggio quando arriveranno nuovi eurodeputati da avvicinare, blandire, convincere e che avranno oltretutto il compito di nominare il presidente della Commissione. L'arte di infuire sul processo decisionale, nella capitale comunitaria, è un affare da oltre un miliardo di euro l'anno, specchio fedele di un potere, quello europeo, in costante crescita e che incide sull'80 per cento delle politiche nazionali e su un mercato di 500 milioni di consumatori. L'impatto di quello che si decide nel triangolo formato da Commissione, Parlamento e Consiglio Ue supera però di molto le frontiere dei 28 Stati membri. Nel 2012 Hillary Clinton, allora Segretario di Stato, si impegnava in prima persona in una attiva lobby a favore del shale gas in Europa e lo faceva con successo visto che la Commissione Ue, lo scorso 22 gennaio, lasciava gli Stati liberi di gettarsi in questo mercato con grandi vantaggi per le compagnie nordamericane. Una decina di anni prima era Colin Powell a provare a fare di tutto (stavolta con scarso successo) per bloccare il regolamento comunitario Reach sulla chimica. Imprese e multinazionali da tutto il mondo e governi rampanti, su tutti Russia e Cina, sono di casa a Bruxelles. «Possiamo contare tra i 15 e i 30 mila lobbisti. Un'attività molto lucrativa che è aumentata costantemente dagli anni Novanta», spiega Martin Pigeon di Corporate Europe, una ong - di fatto una lobby contro le lobby - che si prefgge di iniettare trasparenza nella meccanica comunitaria. «I due terzi dei lobbisti», conteggia Pigeon, «lavorano per interessi commerciali privati, il 20 per cento difende interessi pubblici, come Stati, Regioni o Comuni, e il 10 la società civile organizzata.Basta conoscere queste cifre per notare che c'è un problema di sproporzione dei mezzi». La bilancia si può invertire se il dibattito su una direttiva o una politica diventa pubblico: «Ogni volta che una tematica resta tecnica ed interna, la società civile perde, ma se esce sui media, allora anche i cittadini possono incidere, scrivono agli eurodeputati, diventano massa critica. Il rapporto di forza si inverte». A volte succede. Il 22 gennaio il Commissario Ue al commercio estero Karel de Gucht decide di sospendere i negoziati su alcuni capitoli del TTIP, l'Accordo di Partenariato commerciale tra Ue ed Usa, di fatto la più importante intesa economica del pianeta che punta a integrare due mondi con standard legali e commerciali differenti promettendo benefici per oltre 500 miliardi di euro. De Gucht ha detto stop per lanciare una consultazione pubblica di tre mesi perché i negoziati, condotti nell'assoluta discrezionalità, rischiavano di sollevare un'ondata di indignazione popolare pari a quella che ha fatto naufragare l'Acta, l'Accordo internazionale anticotraffazione e pirateria. «Le ong si lamentano sempre contro le lobby, ma anche loro sono potenti a Bruxelles», sbotta un funzionario della Commissione Ue vicino ai negoziati. In molti altri casi le cose vanno diversamente. Il 13 dicembre scorso la Commissione Ue doveva presentare i criteri di identifcazione dei perturbatori ormonali, accusati di danni alla salute (tumori e fertilità) e all'ambiente, ma sotto la pressione dell'Acc, l'American Chemistry Council, del Cefc, la federazione Ue della chimica, e di Croplife, che difende l'interesse dei produttori di pesticidi e che conta tra le altre Basf, Bayer, Monsanto, Syngenta, la decisione è stata rimandata sine die. Stesso discorso per il regolamento CO2 auto, annacquato nei suoi obiettivi e soggetto ad una feroce lobby da parte dell'industria delle 4 ruote, con tanto di lettere segrete inviate dai costruttori tedeschi all'allora Commissario Ue all'industria, il teutonico Gunther Verheugen. Non solo: il 95 per cento degli emendamenti arrivati al Parlamento Ue sulla proposta di regolamentazione sui gas fuorurati, quelli di frigoriferi e condizionatori, estremamente dannosi per l'effetto serra, erano stati dettati dai lobbisti. Giovane, preparato e prudente Come si fa lobby a Bruxelles ? «Il lobbista deve essere come Machiavelli», spiega il politologo Rinus van Schendelen, professore a Rotterdam, consulente per imprese e governi ed autore di "L'arte di fare lobby nella Ue: più Machiavelli a Bruxelles". «Deve avere l'ambizione necessaria per vincere, studiare e prepararsi al meglio e quindi, in battaglia, essere prudente». Una lobby che è diversa dalle altre. «Nella Ue ogni combattimento è molto più duro, competitivo, in gioco ci sono più interessi, se in Italia hai 15-20 gruppi di potere che lavorano su un dossier, a Bruxelles ce ne sono 180-200. Il livello, la dimensione e la qualità della battaglia è molto più elevata». E al fronte, da sempre, ci vanno i giovani. Karen Massin ha 38 anni ed è direttore operativo di Burson Marsteller, oltre 7 milioni di fatturato e 60 dipendenti, il principale gabinetto di lobby di Bruxelles. «A parte pochi senior adviser, abbiamo tutti tra 25 e 40 anni», spiega in una delle sale conferenza della sede della società, tre piani a Square de Meeus, a poche centinaia di metri dal Parlamento Ue. Caraffe d'acqua e bicchieri riempiono i tavoli. «Parliamo per ore, le riunioni sono lunghe, il lavoro è minuzioso, il lobbista deve fare da tramite tra le imprese, i gruppi di interesse e le istituzioni Ue. La legislazione comunitaria è spesso così: un singolo paragrafo ha un impatto enorme sull'industria». Interessi che giustifcano grandi investimenti: un lobbista può arrivare a costare fno a mille euro l'ora. In quest'arte cara e minuziosa c'è chi eccelle. «La lobby moderna ha le sue origini negli Usa e gli statunitensi con gli inglesi sono i migliori», snocciola la sua classifca van Schendulen, «seguiti dalle società olandesi, quindi i Paesi scandinavi e, negli ultimi dieci anni, i tedeschi». E poi i nuovi venuti, più rapidi a imparare di quanto non lo siano Paesi fondatori, come l'Italia. «Stanno arrivando a Bruxelles tanti giovani dall'est Europa: Lituania, Estonia, Lettonia, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia. Sono eccellenti professionisti, hanno fatto le università occidentali e sono molto ambiziosi». In fondo alla classifca i Paesi del sud. «Ci sono tante trattorie a Schuman (la rotonda su cui si affacciano Commissione e Consiglio Ue, ndr), ma non basta andare a pranzare per fare lobby». A ciascuno il suo tornaconto «Negli ultimi anni la concorrenza a Bruxelles è diventata feroce, con una vera e propria guerra dei prezzi», assicura un lobbista. «Lo vediamo sui grandi contratti. Coca Cola ogni tre anni cambia ufficio e quest'anno hanno fatto domanda 12 gabinetti, non s'era mai vista tanta concorrenza». Alla fne ha vinto Interel. «La crisi ha portato al raggruppamento dei piccoli uffici», il parere di Massin, «e ultimamente sono venuti qui diversi gabinetti Usa, a cui le imprese americane preferiscono rivolgersi». Da Washington si sono accorti che Bruxelles esiste, almeno economicamente. Se gli statunitensi vanno dai loro, i cinesi preferiscono il lobbista locale. «I gruppi di pressione cinesi usano esperti europei come moderni soldati di ventura», spiega ancora Van Schendelen. Altro Paese particolarmente attivo a Bruxelles è la Russia e anche loro si affdano a esperti locali. «Mosca ha iniziato nel 2006, in occasione della Presidenza del G8, a rendersi conto che non sapevano come funzionavano i media occidentali, da allora hanno preso coscienza dell'importanza dell'immagine e si sono rivolti a noi», racconta Benoit Roussel, lobbista per Gplus, uno dei due gabinetti che segue gli interessi di Mosca a Bruxelles. A creare Gplus è stato Peter Guilford, ex portavoce della Commissione europea, che ha portato con sé altri ex colleghi ed ex giornalisti, le due categorie più ambite, perché dal portafoglio denso di contatti. Gplus ha gestito l'immagine di Mosca durante la guerra con la Georgia del 2008 mentre i concorrenti di Aspect Consulting facevano lo stesso per Tbilisi. L'altro gabinetto che segue gli interessi di Putin a Bruxelles è Hill & Knowlton, uno dei big del settore, ma nella rete del Cremlino in Occidente figura anche l'uffcio americano Ketchum e il britannico Portland, fondato da Tim Allen, ex portavoce di Tony Blair. Regole chiare, ma non per tutti Nel 2008, sotto la pressione di diverse ong, è nato il primo registro dei lobbisti attivi a Bruxelles. «Si sono iscritti 15-20 mila lobbisti individuali e 6.000 società e», spiega Federica Patalano, ricercatrice nel settore delle lobby e nel gruppo che gestisce il registro, «devono rispettare degli standard etici e di trasparenza, pena la sospensione e la perdita di accesso al Parlamento, ma i controlli non sono dei più stringenti, mancano le risorse per il monitoraggio, anche per questo i numeri non sono precisi». Oltretutto, sono esonerate due infuenti categorie: i religiosi e gli avvocati. Tra le 6 mila società fgurano solo 45 studi di avvocati, pochi per una città come Bruxelles. Non è un caso. «Se un'impresa vuole fare le cose di nascosto va da un gabinetto di avvocati», si lamenta Robert Mack anche lui di Burson Marsteller. Fuori registro giocano i grandi uffci nordamericani, alcuni a Bruxelles da anni, come Covington, ed altri - Baker Botts, Hogan Lovells - sbarcati di recente per approfttare del mercato aperto dai negoziati per il TTIP. Nessuno di loro è iscritto e nessuno ha voluto dare spiegazioni sul perché preferiscano così. Nessun commento anche su un'altra pratica in voga, quella del "revolving door" porta girevole: il passaggio dalle alte sfere della Commissione alla lobby. «Da Covington», accusa un lobbista di una società concorrente, «ci sono ex ambasciatori, ex direttori generali o capi unità della Commissione». I casi sono numerosi ed il fenomeno arriva a toccare i Commissari europei: dei 12 che hanno abbandonato la prima commissione Barroso, metà è passata a fare il lobbista. Caso emblematico quello del tedesco Gunther Verheugen che, dimessi gli abiti di Commissario all'industria ha aperto il suo gabinetto di lobby. Unica limitazione: non poter contattare per 24 mesi i suoi ex sottoposti. Altro caso: Serge Abou, un francese per trent'anni in posti chiave della macchina comunitaria, da direttore generale alle relazioni esterne fno ad ambasciatore della Commissione in Cina, una volta andato in pensione nel 2011 ha frmato per il gigante cinese della telefonia Huawei, che ha una un'indagine aperta a Bruxelles per comportamenti anti-competitivi. Huawei, come tutte le grandi frme, non lesina risorse, spendendo ogni anno oltre 3 milioni di euro in lobby a Bruxelles, con contratti ben distribuiti tra Apco, Aspect, Fleishman Hillard, Isc e The Skill Set. Ancora più recente il caso di Philip Lowe, fno al 31 dicembre 2013 direttore generale per l'Energia, che due mesi prima della pensione ha frmato per l'Autorità britannica alla concorrenza (aggiungendo allo stipendio di 19 mila euro anche i 4.500 di gettone per l'agenzia). Michel Petit, responsabile del serivizio legale della Commissione nonché membro del Comitato etico incaricato di valutare proprio i casi di "revolving door", una volta andato in pensione è passato a Clifford Chance, che conta come cliente Philip Morris. Il tutto mentre si discuteva la nuova direttiva Tabacco.«Le istituzioni non affrontano il problema in maniera seria, la Commissione, semplicemente, nega», accusa Corporate Europe. Nei 133 casi di possibili confitti di interessi esaminati nel 2013, la Commissione non ha mai ritenuto di impedire al suo ex funzionario di intraprendere una nuova carriera e solo in trenta occasioni ha imposto limitazioni. L'anno prima Barroso aveva detto no una volta su 108. «È la dimostrazione che il sistema funziona», sbotta Antonio Gravili, portavoce del Commissario alla Pubblica amministrazione Maros Sefcovic. «Chi abbandona la Commissione accetta posti per cui sa che non avrà problemi. E lavorare è un diritto, anche per chi va in pensione, non possiamo proibirlo». Proibire magari no, ma controllarli di più, forse sì. Un chilometro quadrato in cui si concentra un'attività da un miliardo di euro all'anno: da Avenue des Arts a Rond Point Schuman e a salire un po' fino ai margini del Parco del Cinquantenario, sono questi i limiti in cui si concentra la lobby a Bruxelles. Centinaia di uffici e migliaia di professionisti, censiti dalla guida LobbyPlanet di Corporate Europe, che puntano Commissione, Consiglio e Parlamento Ue e che hanno anche un centro simbolico: l'albero e la stele del lobbista inaugurata più di dieci anni fa dalla popolare Nicole Fontaine, allora Presidente dell'eurocamera, giusto di fronte all'ingresso del Parlamento. E sempre lì si affaccia la Rappresentanza della Baviera, la più potente regione della Ue, che per 30 milioni di euro ha comprato un edificio storico praticamente incastonato nel Parlamento. Sulla rotonda Schuman, a due passi da Commissione e Consiglio, si affaccia invece la Camera di Commercio Usa, braccio armato a stelle e strisce (e di provata fede repubblicana) nel cuore della Ue, ora più che mai attivo nel cercare di inserire nell'Accordo Commerciale transatlantico il meccanismo di protezione degli investitori, che permetterebbe alle compagnie di chiedere i danni agli Stati. Giusto dietro, in rue Breydel, ha sede Gplus, interessi russi, mentre nel Residence Palace, ex sede della Gestapo nella vicina Rue de la Loi, si trova il Lisbon Council, influente think tank, fondato tra gli altri da da Google, Tesco, Shell, Siemens, che propugna politiche neoliberali, spacciandole per dossier indipendenti. Prassi simile seguita anche dal rinomato Bruegel, pannell di ricercatori ed esperti di primo piano (vi ha figurato anche Mario Monti) e forte del supporto economico di BNP Paribas, Deutsche Bank, Pfizer e Syngenta. Altra piazza calda, molto vicino al Parlamento, Square de Meeus, qui si trovano i due campioni della lobby, i gabinetti Burson Marsteller e FleishmanHillard, entrambi con fatturati da oltre 7 milioni di euro l'anno. Giusto dietro Edelman The Centre, gabinetto di avvocati che organizza eventi, tra gli altri, per Europa Bio, nome ambiguo per la lobby pro OGM. Leggi l'articolo originale in .pdf Fonte: L'Espresso - Alberto D'Argenzio

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(Mario Platero) Eventi pubblici e feste private seguono il passaggio di consegne. Ecco come cambia la mappa del potere a Washington con Obama Scarica l'articolo in pdf Change? Cambiamento? Sulla carta è totale: per la prima volta oggi un afroamericano giurerà fedeltà alla Costituzione ai piedi del Campidoglio e andrà alla Casa Bianca. Escono i repubblicani ed entrano i democratici. Per la prima volta in otto anni a Washington cambia la mappa del potere esecutivo. E dunque cambia il "networking", cambiano gli equilibri del potere, i punti di riferimento. Da tre giorni Washington è travolta da feste, mondanità private, eventi ufficiali il cui unico obiettivo è quello del passaggio informale delle consegne fra le eminenze grigie, gli intermediari del potere, i lobbisti, che l'ultimo censimento informale ha contato in 22mila. Sono loro al centro di una cinghia di trasmissione che produrrà migliaia di nomine, ambasciatori, consiglieri legali della Sec, vicesegretari, assistenti del ministro: «I ministri e le persone chiave attorno a Obama li conosciamo. Ma gli altri soffrono. Sono queste le giornate decisive in cui un incontro, un contatto giusto, può tradursi in una nomina», dice Douglas Maguire, del Meridian International Center, un ente non profit molto vicino ai democratici. Ci sono dunque gli eventi pubblici e ufficiali, come le tre diverse cene di ieri sera per Colin Powell, per il senatore Joe Biden, per il senatore John McCain, alle quali ha fatto un'apparizione Barack Obama. E ci sono gli eventi privati: come la festa di domenica a casa di Maureen Dowd, l'editorialista del New York Times che ha contribuito non poco alla svolta di Obama in apertura delle primarie. Il suo party è strettamente "networking". Talmente ricercato e affollato che l'attore Tom Hanks resta fuori. La caratterizzazione del party della Dowd riguarda i media e Hollywood: il glamour che si riflette sul "business". George Lucas, produttore e regista, Susan Rice prossimo ambasciatore alle Nazioni Unite, Arianna Huffington, editore dell'Huffington Post, Andrea Mitchell della Nbc (con il marito Alan Greenspan), Margaret Warner, anchor della Pbs, George Stephanopoulos (ex Clinton oggi Abc) David Gregory, la nuova star del programma "Meet the Press" (anche lui resta fuori). C'è anche David Geffen, produttore massimo a Hollywood. È lui che per primo, in un momento delicatissimo delle primarie, ha spaccato Hollywood organizzando una rivolta contro Hillary Clinton. Il suo è stato il primo segnale, lanciato dalle colonne della Dowd, che le cose potevano davvero cambiare. Che davanti a Obama la macchina del potere dei Clinton non era granitica: «Momenti gloriosi: primarie e campagna di fuoco. Mi basta gustare questa vittoria» dice Geffen. Ma chi lo conosce osserva che «l'onore di qualche riconoscimento» non gli dispiacerebbe affatto, «ma scommetto che alla fine non avrà nulla», ripete l'anonimo informato. Da Jane Hartley, invece, nella sala privata del ristorante Nora, ci sono i banchieri. La Hartley, presidente dell'Observatory Group, un gruppo di consulenti politici a New York, riceve con il marito, Ralph Schlosstein, grande finanziere. Rifiuta l'etichetta della lobbista. Nell'epoca Obama il cambiamento è la parola chiave. E il presidente eletto ha detto chiaramente che i lobbisti sono "out", che non avrà bisogno di loro e del loro aiuto per raccogliere fondi. Ma la Hartley ha raccolto quasi 2 milioni di dollari per la campagna democratica. A qualcosa è servito: da lei, domenica sera, per la delizia dei banchieri c'è Christopher Dodd, il potente presidente della commissione bancaria del Senato. Intorno a lui, per la categoria "finanzieri privati" ci sono i banchieri Joe Perella, Vincent May e Roger Altman, ma anche finanzieri afroamericani della nuova generazione: Raymond McGuire, il nuovo capo di Investment Banking a Citigroup e Ronald Blaylock di GenNx360, amico di Obama da vent'anni. Su tutte, vince la battuta che Perella recita a Dodd: «Sa che differenza c'è tra Madoff e i grandi capi delle istituzioni a Wall Street? Madoff sapeva benissimo quel che stava facendo. Gli altri no». Dalla Hartley c'è anche Dick Holbrooke: ci conferma che andrà come inviato speciale per il conflitto in Afghanistan. Farò del mio meglio. Il networking funziona anche per lui, apprende da uno dei presenti un dettaglio importante sugli equilibri di potere in Pakistan. C'è un'altra primizia in questa inaugurazione: i "Dotcom" fanno networking anche loro. Larry Summers, capo consigliere economico di Obama, è andato soltanto al party di Christopher Hitchens per Slate.com per cui lavora. Non aveva l'aria allegra, in compenso non c'erano banchieri. Ieri notte il più conteso è stato il party dell'Huffington Post, al Newseum, con concerto di Sting. E i lobbisti che non si nascondono dietro il dito della semantica? Ieri notte c'è stato il party di Vernon Jordan, avvocato, afroamericano e capitano di lungo corso dei corridoi del potere. Ma c'è già chi scommette che al primo posto dei lobbisti nell'era Obama salirà Tony Podesta, il fratello di John, il capo della transizione di Obama, la persona cui è toccata la responsabilità di suggerire nomi e gestire il processo di nomine. Tony, con la moglie Heather, potrà chiamare chiunque nella nuova amministrazione. La lista dei suoi clienti è già diversificata. I più importanti: la Bp, Lockheed Martin, Novartis, Amgen, Sunoco e persino Wal-Mart, che rifiuta la sindacalizzazione. Forse anche Tony sta pensando, in nome di Obama, a presentarsi non come lobbista, ma come... "facilitator", perché tutto cambi restando come prima.

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