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Lobbisti "confinati" a Palazzo Madama ogni giorno 1.200 permessi d'accesso [Il Messaggero]
Scritto il 2015-11-09 da lobbyingitalia su Europa

Intanto è boom per i corsi di formazione della professione, e alcune università assicurano il Master

Anche quest'anno il Senato ha preso le sue contromisure per difendersi da una delle specie professionali più temute: i lobbisti. Da fine ottobre i "portatori di interessi particolari", già "schedati" dal loro tesserino rosso entrato in vigore nel 2014, sono ospitati nell'aula della Commissione Sanità di Palazzo Madama, rigorosamente a trenta metri da quella della Commissione Bilancio quando è impegnata nell'esame della Legge di Stabilità. Quei 30 metri non impediscono di certo né ai politici e né ai lobbisti l'uso dei telefonini per rapide consultazioni o per sventare colpi di mano dell'ultimo minuto ma la dicono lunga sul rapporto schizofrenico, fatto di timori e al tempo stesso di poche regole, di politica e lobbismo made in Italy. A partire da un banale dato di fatto: l'accesso al parlamento italiano è relativamente facile. Risultano in media circa 1.200 i cartellini giornalieri concessi a vario titolo a ex parlamentari, funzionari, dirigenti ministeriali, giornalisti (in attività o pensionati) e rappresentanti delle categorie che possono entrare in Parlamento per chiedere informazioni, discutere con i parlamentari, informarsi dei processi legislativi.

A VUOTO «Il fatto è che nonostante se ne parli da anni in Italia non esiste una legge che regoli questo settore così come accade in altri Paesi europei o in America», spiega Gianluca Sgueo, esperto del settore e autore del libro Lobbying e lobbismo, edito da Egea, forse il più completo sull'argomento. «Al di là di quello che accade a Montecitorio e Palazzo Madama - aggiunge Sgueo - oggi uomini di governo e funzionari italiani possano incontrarsi ovunque con i lobbisti italiani e stranieri senza che nessuno lo sappia. Sono rarissimi i casi di uomini politici italiani che per propria scelta tengono un diario web sui lobbisti che ricevono. Altrove invece è obbligatorio tenere un registro degli incontri, che poi oltre ad essere una "banale" norma di trasparenza è anche una tutela per tutti. Perché deve essere chiaro che un lobbista non è l'equivalente di difensore di poteri oscuri o peggio».

Un esempio di come si potrebbe procedere? Almeno in parte, Bruxelles. Qui Commissione Ue conta la presenza di 8.396 lobbisti che lavorano quotidianamente nelle istituzioni europee. Sono tutti regolarmente registrati in un apposito Libro Mastro e tutti sanno tutto di loro. Questo "Registro per la trasparenza" (anche se non vincolante): contiene informazioni «su chi svolge attività tese a influenzare il processo decisionale dell'Ue», come specifica il suo sito. Vi sono iscritte anche 5.800 organizzazioni e aziende, di cui 503 italiane. Anche a Bruxelles tuttavia non mancano i tira e molla su questo settore. 11 Parlamento Europeo infatti ha chiesto misure più stringenti come quella dell'obbligatorietà della registrazione degli incontri, ma finora la Commissione ha cincischiato. E' accaduto così che il Parlamento Europeo abbia lanciato un comitato speciale in materia fiscale (il Taxe), che però è stato boicottato dalle multinazionali che non si sono presentate alle audizioni.

IL MASTER Il Taxe ha allora chiesto alla Commissione di vietare l'ingresso in Parlamento dei rappresentanti delle multinazionali e finalmente il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Junker, ha detto che è ora di raggiungere un accordo comune sulla registrazione obbligatoria dei lobbisti (e dei loro incontri) in tutte le istituzioni europee. In Italia, invece, nonostante la presentazione di almeno una dozzina di disegni di leggi, che con modalità differenti propongono tutti la nascita di un albo dei lob-bisti e del registro obbligatorio dei loro incontri (con tanto di sanzioni), tutto è ancora fermo a livello legislativo. Diverso il discorso invece a livello di mercato. Negli ultimi anni la figura del lobbi-sta non ha sofferto la crisi. Anzi. I corsi di formazione destinati a preparare queste particolari figure professionali si contano ormai a decine e sono organizzati anche da società prestigiose. Con alcune università che rilasciano uno specifico master.

Fonte: Diodato Pirone - Il Messaggero - Download .pdf

(Francesco Angelone) Uno studio del 2013 condotto da Sunlight Foundation stimava in circa 10mila il numero dei lobbisti registrati a Washington e in almeno altrettanti quelli non registrati, definendoli shadow lobbyists. Non è, quindi, una novità che il Registro di Washington comprenda solo una parte delle persone che effettivamente lavorano per influenzare i decisori pubblici a stelle e strisce. Stando ai dati raccolti dal Centre for Responsive Politics, ormai specializzato in ricerche di questa natura, quasi 2.100 lobbisti attivi nel 2016 a livello federale non hanno segnalato di aver svolto attività di lobbying nel primo trimestre del 2017. Di questi, circa 1.200 hanno continuato addirittura a lavorare per lo stesso datore. In passato abbiamo già sottolineato, ancora una volta ricorrendo a OpenSecrets.org, come a questa diminuzione di lobbisti registrati non corrisponda una diminuzione delle spese in lobbying. I dati confermano, quindi, come i lobbisti più semplicemente continuino a lavorare off the record con buona pace del controllo pubblico generalmente reso possibile dal sistema di divulgazione delle informazioni. L ’inasprimento delle norme sul lobbying sotto l’amministrazione Obama e i mantra elettorali di Trump hanno avuto, fino ad ora, l’apparente conseguenza di rendere più opaco il lobbying a Washington. Il fenomeno del ritiro nell’ombra, inoltre, riguarda sia i lobbisti in-house che i dipendenti di società di lobbying. Ad esempio, Squire Patton Boggs e Covington & Burling, due tra le più grandi società di lobbying, hanno visto finire fuori dalle liste più del 15% dei loro dipendenti. Similmente hanno agito trade groups e aziende. Se è vero, poi, che per alcuni la scomparsa dal Registro o la mancata segnalazione di aver svolto attività di pressione è diretta conseguenza di un cambio di dipartimento all’interno della stessa azienda, per altri casi si apre la questione delle revolving doors. Più di 100 iscritti al registro sono passati a lavorare per il settore pubblico (quasi tutti per il Governo federale), dove probabilmente i loro ex colleghi troveranno punti di riferimento affidabili. Un esempio è quello di Justin Mikolay, ex lobbista di Palantir, società che fornisce analisi di dati per agenzie di intelligence, e che ora riveste il ruolo di assistente del Segretario alla Difesa James Mattis. Secondo quanto riportato da Buzzfeed il fondatore di Palantir, Peter Thiel, avrebbe elargito donazioni nei confronti di Donald Trump per un valore complessivo superiore al milione di dollari. Quello delle donazioni è altro tema interessante messo in evidenza dalla ricerca del Centre for Responsive Politics. Risulta che quasi la metà dei lobbisti non registrati nel primo trimestre del 2017 non ha compiuto una donazione di oltre 200 dollari nel ciclo elettorale del 2016. La maggior parte, poi, di coloro che ha compiuto donazioni di oltre 200 dollari non lo ha fatto direttamente a dei candidati ma ai Political Action Committees non palesemente schierati costituiti dalle società per cui lavorano. Lo studio ha anche reso possibile stabilire l’affiliazione politica dei lobbisti donatori definendo democratico o repubblicano quello che ha donato più del 70% della cifra totale donata per candidati dell’uno o dell’altro partito. E così, molti più lobbisti ‘repubblicani’ hanno disattivato il loro nome dal Registro per trasferirsi presso il Governo federale mentre più lobbisti ‘democratici’ non compaiono più nel Registro pur lavorando per lo stesso datore o avendo preferito abbandonare il mondo del lobbying. Va generalmente tenuto conto del fatto che i lobbisti tendono a donare a membri di entrambi i partiti maggiori, presumibilmente cercando di assicurarsi porte aperte su entrambi i lati del corridoio. (Foto via Twitter)

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Come ha riportato Reuters, dopo la stangata della Commissione Europea nei confronti di Apple (condannata a pagare 13 miliardi di euro – IVA esclusa – al governo irlandese per contributi fiscali non pagati) le grandi multinazionali americane dell’informatica stanno schierando i loro lobbisti nella capitale comunitaria. Obiettivo: respingere ogni futuro “assalto” da parte delle Istituzioni brussellesi, che secondo diverse indiscrezioni potrebbero “colpire” altre corporation con multe simili a quelle che hanno colpito la casa di Cupertino. In particolare, Google e Facebook sono tra le società che spendono più risorse in lobbying, secondo i dati del Transparency Register. Il valore delle risorse da loro investite per fare lobbying su dirigenti e vertici politici delle amministrazioni comunitarie è aumentato del 15/20% nel 2015 rispetto al 2014, anno nel quale la spesa in lobbying era già triplicata rispetto al 2013. L’analisi di Reuters rivela come Google nel 2015 ha speso in lobbying circa 4,25/4,5 milioni di euro, impiegando ben 14 lobbisti soprattutto per tentare di influire sulle politiche antitrust della commissaria Margrethe Vestager. Uno di loro ha dichiarato che “i politici europei si pongono molte domande su Google e sul mondo di internet in generale. Stiamo lavorando per rispondere ad ogni domanda, aiutando i decisori a comprendere le politiche aziendali e, dall’altro lato, ogni possibile azienda interessata a cogliere le opportunità che internet offre”. Forse non casualmente, un’analisi di Transparency International ha riportato tutti i dati relativi a Google proprio lo stesso giorno della notizia della multa ad Apple. Dal canto suo Apple non ha effettuato dichiarazioni sulla proprio strategia di lobbying in sede comunitaria. Da luglio, Cupertino ha assunto un nuovo government affairs manager per rappresentare le posizioni di Apple nei confronti dei decisori politici. La spesa in lobbying, in base alle dichiarazioni ufficiali, è molto più bassa rispetto a quella di Google: 800.000 – 900.000 euro, con soli 5 impiegati di cui solo la metà risulta impiegata a tempo pieno in attività di lobbying. Questo può essere uno degli elementi che permette di comprendere il fragore della notizia della multa e l’assenza apparente di adeguate contromisure in termini di comunicazione e piani strategici alternativi. Altre società che potrebbero essere colpite da sanzioni europee nei prossimi mesi sono quelle che si occupano di messaggistica: Facebook, che dopo l’acquisizione di Whatsapp è interessata alla riforma delle telecomunicazioni con particolare riferimento alla protezione dei dati, spende tra i 700.000 e gli 800.000 euro ma sta assumendo nuovi lobbisti in sede comunitaria. Sono infatti solo due i lobbisti dichiarati nel 2014, arrivati a 4 nel 2015 e in numero sempre crescente, proporzionale alla crescita del business della società. Il public policy manager di Google ha dichiarato che “da quando Facebook è diventato parte della vita giornaliera di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, gli stessi governanti hanno naturale interesse a confrontarci con noi e noi con loro”. Microsoft, che negli ultimi anni ha subìto diverse sconfitte legali dalla DG Competition, che ne ha scalfito la ventennale leadership di mercato, ha preferito non commentare sull’argomento. Amazon, che secondo molti è la prossima nel mirino delle istituzioni per un caso simile a quello Apple, ma riferito alla sede di Lussemburgo, allo stesso modo di Microsoft non ha commentato i dati che la vedono investire tra 1,5 e 1,75 milioni di euro in lobbying, impiegando 6 lobbisti. Uber, impegnata nel tentativo di liberalizzare il mercato dei taxi e dei trasporti in generale aprendolo al servizio via app, è cresciuta molto negli ultimi due anni arrivando a spendere tra i 400.000 e i 500.000 euro con la presenza di 3 lobbisti. Tra le non americane, invece, è Samsung (principale competitor di Apple sul mercato degli smartphone) la company più presente con una spesa di 2,5-2,75 milioni e una squadra di 9 lobbisti nella capitale belga. Daniel Freund di Transparency International ha commentato che per le imprese è necessario e produttivo investire nelle relazioni istituzionali, dal momento in cui le decisioni della Commissione necessitano di maggiori e migliori informazioni e contenuti tecnici. Questo ha portato a una crescita esponenziale della presenza di lobbisti nei palazzi brussellesi. Aggiungiamo noi, ha anche portato a una maggiore interdipendenza tra imprese e istituzioni, sempre più aperte alle informazioni fornite dagli esperti tecnici e legislativi provenienti dalle imprese.

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(Gaetano Gatì) Sono i lobbisti i principali target della politica del Partito Democratico americano. Una tendenza che parte dalla campagna elettorale di Obama per le prime elezioni presidenziali del 2008. Come ha riportato Politico, i democratici si sono fatti avanti con delle proposte concrete durante questa campagna elettorale, e tra i progetti è presente la riforma che vede al centro due importanti aspetti della politica americana: l’attività di lobbying e i finanziamenti delle campagne elettorali. La decisione è stata presa nelle scorse settimane, proprio mentre si svolgeva l'incontro tra l'allora candidato Bernie Sanders e lo stesso Obama, dal capo designato dei democratici al senato Chuck Schumer (democratico dello Stato di New York). “Una coincidenza”, secondo le parole del futuro capogruppo Dem al Senato, che però secondo molti opinionisti era dettata dal tentativo di conquistare una parte dell'elettorato molto cara al senatore del Vermont, ossia gli studenti e i giovani in generale. “Non abbiamo parlato con il senatore Sanders ma siamo sicuri che approverebbe questo tipo di misure”. Particolarmente a cuore sta ai democratici la riforma sui finanziamenti, che porterebbe a un limite ai flussi di denaro nelle campagne. Questo limite fortemente voluto dai Dem è però in contrapposizione con il forte utilizzo che loro stessi hanno fatto dei PAC, con quello dedicato alla maggioranza del Senato. Ma la riforma non è fine a sé stessa: l'aspetto fondamentale è il tentativo di accaparrarsi il favore di Sanders che da tempo sta prendendo posizioni molto più estreme rispetto ai propri compagni di partito. Anche la candidata alla presidenza Clinton vede con favore il disegno di legge affermando che potrebbe mettere un freno ai forti interessi privati a Washington a favore di un rafforzamento della democrazia. Tra le iniziative proposte dai Dem anche un divieto permanente di “revolving doors” per chi ha ricoperto la carica di decisore pubblico .

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