NEWS
Il Gratta e vinci in fuga a Londra rafforza i suoi lobbisti (La Notizia)
Scritto il 2014-09-18 da lobbyingitalia su Italia

(Carola Olmi) Difendere i vecchi privilegi, la missione dei lobbisti. Mai tanti gruppi di pressione su governo e parlamento. Con un obiettivo, far sparire scandali come Lottomatica. La società che gestisce i Gratta e vinci porta la sede fiscale a Londra Lo Stato però non revoca la concessione

L'elenco l'ha fatto ieri Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. Gli avversari di Matteo Renzi sono ormai moltissimi. Dai parlamentari che andranno a casa se non votano le sue riforme ai "professionisti della tartina", ai presunti esperti dei convegni", alle "stanze di Bruxelles", alla classe dirigente "rassegnata alla rassegnazione", alla Rai (il premier non ha mai voluto incontrare il direttore generale), alle banche d'affari, ai sindacati, e alla magistratura che non vuole rinunciare neppure alle lunghissime ferie. L'elenco però non è finito, perché sin dalla prima ora il nostro Presidente del Consiglio aveva indicato uno dei più forti nemici del cambiamento nel Paese: le lobby.

DENTRO I CDA PUBBLICI Parole nette e sacrosante, alle quali però non sono seguiti i fatti. Anzi! AI contrario di quanto accadeva prima, quando le lobby — elementi di pressione a favore di specifici interessi — restavano su un livello di contrattazione con la politica e le grandi imprese pubbliche, adesso invece sono state fatte entrare direttamente nei Cda dei grandi gruppi industriali partecipati dallo Stato. Se questo vuol dire combattere le lobby...

REGALIE SOTTO BANCO Assistiamo così a un'esplosione senza precedenti dei gruppi lobbistici. Parlamenti e ministeri sono militarmente occupati da signori ufficialmente senza alcun ruolo, che non fanno altro se non baciare la pantofola a deputati e senatori. Soprattutto nelle commissioni che gestiscono la spesa, è ormai un assedio per blindare vecchi privilegi e ottenerne persino di nuovi. Loro, d'altronde, i lobbisti, sanno il fatto loro. E non a caso le aziende li pagano a peso d'oro. Basta un codicillo in una norma, un emendamento che salta all'ultimo minuto, un'azione di convincimento fatta a pranzo in qualche costoso ristorante ed ecco che spuntano (o si perdono) anche milioni. Ovviamente quattrini che come al solito mette Pantalone, cioè lo Stato attraverso quel mostro della spesa pubblica che gli italiani finanziano rassegnatamente con la fiscalità generale.

IL CASO GTECH Ma le lobby hanno anche altri compiti, come far sparire dal radar veri e propri scandali nazionali. Uno dei più clamorosi, alla luce del sole — e c'è da augurarsi presto anche della magistratura — è la mancata revoca delle concessioni dei Monopoli alla società che gestisce le lotterie istantanee. Tale società — la Lottomatica diventata poi Gtech (gruppo De Agostini) — aveva ottenuto tali concessioni dello Stato sulla base di un requisito non secondario: essere una società italiana. Gtech, però, ha appena avviato le procedure per scapparsene proprio dall'Italia, acquisendo per 6,4 miliardi di dollari un grande gruppo internazionale dello steso settore (la Igt, International Game Technologies) e con questo pretesto spostando la sede fiscale a Londra. Ora, visto che i ricavi delle lotterie sono mostruosi e il gioco è ormai una vera e propria tassa sulla povertà degli italiani, in un Paese normale lo Stato cancellerebbe in un secondo la concessione di Gtech. Ma questo non è un Paese normale e comunque a scanso di pericoli la società dei giochi proprio in questi giorni ha rafforzato - guarda caso! - la squadra dei lobbisti, portandosi dentro l'ex lobbista di Terna, Giuliano Frosini, ex uomo di fiducia di Massimo D'Alema e a capo della Fondazione Italianieuropei. Così, però, non c'è molto da sperare che l'Italia cambi verso.

GRANDI STUDI LEGALI, SOCIETÀ DI COMUNICAZIONE LIBERI PROFESSIONISTI. MA SOLO IL 23 PER CENTO DELL'ATTIVITÀ SI SVOLGE ALLA LUCE DEL SOLE Sono passati quasi tre anni da quando l'ex consigliere parlamentare, Luigi Tivelli, molto ascoltato nelle stanze del Palazzo, si vide ritirare il badge che gli consentiva di entrare liberamente a Montecitorio e a Palazzo Madama e circolare tra le commissioni. Si era vantato al telefono con uno sconosciuto interlocutore di essere riuscito a far cambiare un emendamento salvando le pensioni d'oro da uno dei numerosi e vani tentativi di contribuzione. «Ho dovuto scatenare mari e monti, è stata una battaglia durissima, quel che è successo lo potrei scrivere in un manuale come caso eccellente di azione lobbistica". Purtroppo per lui, la telefonata fu registrata dai deputati di M5S che chiesero e ottennero la sua espulsione. Al di là dell'episodio, che trasformò l'ex consigliere in un capro espiatorio messo fino troppo brutalmente alla gogna, è proprio quel tipo di pressing lobbistico che preoccupa di più oggi. Un pressing sotterraneo, esercitato per conto di soggetti che a loro volta restano nell'ombra. Il sospetto è che questa voglia di tenere nascosto ogni contatto con chi deve prendere le decisioni (parlamentari, ministri, dirigenti) sia più diffuso di quanto si pensi. Altrimenti non si spiega perché dal dopoguerra ad oggi sono state inutilmente presentate cinquanta proposte di legge per regolamentare il fenomeno-lobby. Poche discusse, nessuna approvata. E il problema si ripropone ogni volta che in Parlamento arriva un progetto che cerca di scardinare interessi consolidati. Come quelli che la nuova lenzuolata di liberalizzazioni proposta dal ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda sta sfidando da un anno e mezzo. Anche in questo caso i lobbisti sono entrati in gioco e qualcosa per ora hanno strappato: la legge avrebbe dovuto disciplinare la concorrenza di Uber e di Ncc ai tassisti, tutto è slittato di 12 mesi, ci penserà un decreto del governo. I notai, dal canto loro, continueranno ad essere necessari anche per la costituzione di srl semplificate. Il tentativo di esclusione è naufragato. Difficile individuare chi esercita questo tipo di pressing parlamentari. Nulla è regolamentato nell'universo lobbistico. Eppure qualcosa adesso si muove. Dal 6 settembre scorso, i lobbisti che vogliono varcare la soglia del ministero dello Sviluppo economico per parlare con il ministro, devono iscriversi a un registro e firmare un codice di condotta. Ma in Italia non è solo il Mise a muoversi. Anche la Camera ha creato il suo registro (ancora non attivo, n.d.r.) che impone ai rappresentanti di interessi di rendere conto dei loro contatti. E il viceministro delle Infrastrutture, Riccardo Nencini, pubblica dal 2015 sul sito del ministero tutti gli incontri avuti con imprese e associazioni. Certo, se ognuno si fa il proprio registro, sarà il caos. Ecco perché serve una legge nazionale con un unico grande elenco. Tutti la vogliono a parole, ma a impedirla è una sorta di resistenza passiva da parte non solo dei lobbisti nascosti ma anche e soprattutto degli stessi parlamentari. Quanto sia forte questa resistenza, ci aiuta a capirlo una nuova ricerca dell'Università romana Unitelma Sapienza, curata da Pier Luigi Petrillo. Il risultato è che solo il 23% dell'attività di lobbying si svolge alla luce del sole. Il 77% è esercitato da soggetti "di cui è impossibile - dice la ricerca - ricostruire l'indentità dei lobbisti che l'anno generata se non per macrocategorie". Anzi questi signori - società di comunicazione nel 60% dei casi), grandi studi legali (30) e liberi professionisti (10) - "non gradiscono affatto parlare di rappresentanza di interessi". Fabio Bistoncini, fondatore della FB & Associati, una delle più grandi società di consulenza italiane, inorridisce davanti a una stima così negativa: "E' una colossale fesseria, la mia struttura incontra sempre gli interlocutori nelle sedi istituzionali. Questo non vuol dire che non si debba avere finalmente un registro unico al quale dovrebbero iscriversi tutti coloro che rappresentano qualche interesse, nessuno escluso, quindi anche Confindustria e sindacati. Sa perché non se ne fa nulla? Perché chi deve decidere non vuole la trasparenza del processo decisionale". Ma se è così, evidentemente quella zona d'ombra esiste ed è piuttosto ampia. Come è ampio è il numero delle norme sulla trasparenza che vengono puntualmente disapplicate: 230 su 238. Insomma, un quadro di completa anarchia, che conferma le conclusioni dell'ultimo rapporto di Transparency International (una Ong che si propone di combattere la corruzione): in Italia prevale un sistema di "lobbying ad personam", dove i contatti più frequenti non si hanno in Parlamento ma tra i tavoli dei ristoranti romani o nella sala lounge del Fidelity Club Alitalia di Linate. "Lo so - spiega Riccardo Nencini - il fenomeno lobbista in Italia non solo è in aumento ma si è anche parcellizzato nelle richieste che ci arrivano. E le ragioni sono due: i partiti non fanno più da filtro e le associazioni di categoria sono entrate in crisi. Ora si presentano interlocutori che spesso rappresentano solo se stessi". Ma cosa dicono le associazioni di categoria? "Non sapremmo rispondere sull'attendibilità del sondaggio Unitelma - è la risposta di Confindustria - certo, possono esserci zone d'ombra, ma questo non ci riguarda, noi siamo sempre stati trasparenti al 100%. Ben venga una legge nazionale ma sia chiaro: le nuove regole vanno tarate sulla specificità dei soggetti che rappresentano interessi: un conto sono le associazioni come la nostra, un conto sono le società che fanno lobbying come lavoro". "Una lobby che sia solo espressione di interessi corporativi - spiega l'Ania (l'associazione delle imprese assicuratrici) - alla lunga non porterà a nessun risultato. Deve invece saper coniugare gli interessi di categoria con quelli generali. Ecco perché è fondamentale la regolamentazione, anche per restituire alla corretta attività di lobby quella dignità che le è stata ingiustamente sottratta". "La regolamentazione - dicono all'Abi, l'associazione bancaria - deve allinearsi alle esperienze consolidate di altri Paesi europei. Noi abbiamo aderito a tutte le richieste di trasparenza delle autorità europee e italiane". Allinearsi con l'Europa, tuttavia, non sarà facile. La ricerca universitaria ci mette in compagnia con Perù, Argentina, Messico, Cile e Polonia nella graduatoria delle nazioni che disapplicano di più le norme sulla trasparenza. Trasparenza che manca soprattutto quando sono in discussione leggi-omnibus come Finanziarie e Milleproroghe. In quei frenetici frangenti, quasi sempre notturni, spuntano improvvisamente decine di commi all'interno di un emendamento. Come nel caso, citato da Transparency International, del blitz che alla vigilia del capodanno 2008 favorì i tassisti limitando il servizio concorrente di noleggio con conducente. La cui lobby insorse e riuscì a sua volta a fare annullare la nuova norma appena due mesi dopo. O come nel caso del decreto "Salva Roma" in cui venne introdotto nel 2013 un emendamento che riduceva i fondi agli enti locali che avessero limitato il gioco d'azzardo, norma poi ritirata tra l'indignazione generale, con buona pace della relativa lobby. "Il problema - ci dice Massimo Mucchetti, presidente della Commissione Industria del Senato - non è tanto quello dei lobbisti quanto dei ministri e dei parlamentari che non hanno l'autonomia culturale, politica ed economica necessaria per ragionare con la propria testa. E' esattamente quello che succede anche nel rapporto tra i giornalisti e le loro fonti: chi strumentalizza chi?". "Quando ci sono passaggi delicati - aggiunge Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente della Camera - non voglio la presenza di soggetti dietro la porta della commissione. Quando il contatto c'è, avviene in chiaro. Vede, non dobbiamo demonizzare i lobbisti, anche perché in molti casi i loro contributi sono utili soprattutto sul piano tecnico. L'importante è poi decidere con la nostra testa e rendere esplicita la motivazione della scelta". Ecco un obiettivo che il solo registro dei lobbisti non è in grado di garantire: dare trasparenza al processo decisionale. "La Camera - dice Riccardo Nencini - obbliga il lobbista a presentare un resoconto degli incontri avuti, io faccio il contrario, sono io a segnalare l'esito del contatto con i lobbisti". E poi c'è il problema delle "revolving doors", le porte girevoli che vedono funzionari pubblici alla fine loro incarico arruolati subito in società private, che possono così accedere a informazioni riservate. E' un problema riconosciuto dalle stesse società di lobbying: "Ci vorrebbe una pausa di almeno due anni tra un incarico e l'altro" - commenta Fabio Bistoncini - questi sono i veri problemi, non le leggende sui bivacchi di noi lobbisti nei corridoi di Montecitorio. Non è così che operiamo, ci organizziamo molto meglio". Già, come si organizzano i lobbisti? Prima individuano i soggetti coinvolti in un processo decisionale, poi studiano la pratica, dopo di che scatta l'aggancio e insieme al loro interlocutore decidono la forma in cui presentare le proposte. Difficile capire quanti sono. L'unico dato è quello del registro Ue: su 6 mila iscritti, quelli italiani sono circa 600. L'ultima domanda, forse quella più importante, riguarda l'esito delle attività di lobbying. Una cosa la ricerca di Unitelma ce la dice: la possibilità di influenzare un provvedimento aumenta se il pressing lobbistico viene esercitato fin dalla fase preliminare. Viene addirittura tracciata la "curva di influenza legislativa" sulla base di una sessantina di casi 2014-2016 nei settori dei trasporti, dei farmaci e delle banche. Forse i settori più ambiti dal lobbismo, sia italiano che europeo. Ma certamente non i soli se pensiamo che tra gli iscritti nel registro di Bruxelles campeggia anche il nome della federazione internazionale dell'industria pornografica. Una normativa per regolamentare l'attività delle lobby non bisogna inventarla, esiste già in molti paesi del mondo. Gli Stati Uniti, veterani, ce l'hanno addirittura del 1946, Canada e Messico si sono aggiunti più di recente. In Europa il precursore è stata la Germania nel 1951, mentre l'Unione Europea ha affrontato la questione nel 1996. Ma non tutti i paesi l'hanno seguita, mancano all'appello, oltre l'Italia, anche Francia, Spagna, Paesi Bassi, Grecia e altri paesi balcanici, ma anche Svezia e Finlandia. In Asia l'unico paese che ha regolamentato il settore è Taiwan, in Africa nessuno, in America Latina Perù, Cile e Argentina. «Gli incontri che vengono puntualmente registrati non riguardano solo me ma coinvolgono tutto il ministero dello Sviluppo economico, a cominciare dal viceministro e dai sottosegretari». Carlo Calenda è il responsabile di uno dei dicasteri più bersagliati dalle richieste di contatti da parte dei lobbisti. Sono passati esattamente dieci anni da quando il suo predecessore Pierluigi Bersani lanciò la prima lenzuolata di liberalizzazioni. Soprattutto farmaci, banche, assicurazioni: le categorie reagirono con un asfissiante pressing in Parlamento, fatto di emendamenti e commi che cercarono di stracciare almeno una parte di quelle lenzuola. Alcuni passarono, altri no. Adesso la storia si ripete: come allora c'è un "disegno di legge concorrenza" che fatica ad attraversare i corridoi delle Camere. Nove mesi per passare alla commissione Industria del Senato, poi da agosto tutto si è bloccato di nuovo e c'è il rischio che l'aula non riesca a vararlo prima del referendum costituzionale. Si riparla di scatole nere per l'Rcauto, di concorrenza ai tassisti da parte di Uber e Ncc, di energia elettrica, di logistica. E altro ancora. Ministro Calenda, ci risiamo, un'altra controffensiva lobbistica anti-lenzuolate? «No, questa volta i tempi lunghi del ddl concorrenza non sono motivati dal pressing delle lobby interessate, ma dai tempi lunghi delle procedure parlamentari. Il fatto è che ogni misura che comporta una spesa aggiuntiva deve passare in commissione Bilancio». Non mi dirà che non ci sono interessi fortissimi in gioco. «Non voglio dire questo, non c'è dubbio che il disegno di legge tocchi molti interessi, ma, ripeto, non è questo il motivo dello slittamento. Spero vivamente che la legge possa essere approvata prima del referendum. Con la riforma costituzionale, il ddl concorrenza sarebbe legge dal settembre scorso». Dal 6 settembre il suo ministero pone una chiara condizione alle richieste di incontri, è così? «L'iscrizione al Registro della Trasparenza, di per sé volontaria, diventa obbligatoria nel momento in cui società e associazioni varie chiedono di incontrare i vertici politici del ministero (io, il viceministro e i sottosegretari) e quindi di partecipare attivamente al processo decisionale che parte da qui. Al riguardo abbiamo lasciato un mese di tempo prima di far scattare tale obbligo per permettere alle imprese di informarsi e testare il sistema. Il 6 settembre siamo partiti». Non pensa che sarebbe necessario un registro unico nazionale sia per le amministrazioni pubbliche sia per gli organi parlamentari? Non c'è il rischio che ciascuno si faccia il proprio elenco creando ancora più caos? «Sicuramente un registro unico sarebbe più efficiente e semplificherebbe la vita sia a chi si iscrive sia a chi lo consulta. Per noi è stata una priorità da subito, perché il Mise per sua natura è la casa delle imprese. Ma vogliamo che lo sia effettivamente per le imprese, senza distinzioni o privilegi nell'accesso al processo decisionale, e soprattutto alla luce del sole. Il nostro è un progetto pilota che, d'accordo con il ministro Madia, potrà essere esteso a tutto il governo». Chi resiste contro l'approvazione di una legge nazionale? «Onestamente non credo che ci siano delle resistenze specifiche in tal senso, la verità è che si tratta di un cambiamento culturale che richiede un processo per step successivi, per permettere sia alle amministrazioni pubbliche sia ai privati di a un sistema sempre più aperto e trasparente». Non servirebbe anche un resoconto degli incontri avuti con i lobbisti? «Non credo ai processi decisionali in streaming, Gli argomenti che si trattano possono essere riservati e sensibili per l'azienda, per i lavoratori e per l'amministrazione. L'importante è sapere chi accede al ministero e che vi sia evidenza pubblica di chi si incontra con i vertici politici e amministrativi: il registro sarà infatti in prospettiva esteso anche ai direttori generali». Anche i sindacati dovranno iscriversi al registro? «A parte i tavoli di crisi, che esulano ovviamente da queste regole, chiunque venga da noi per rappresentare gli interessi di una certa categoria ha l'obbligo di iscrizione e di firma del codice di condotta». Marco Ruffolo - Repubblica (Affari & Finanza)

Imprese - Lobbyingitalia

Parla Morbelli, responsabile relazioni esterne di Open Gate Italia. «Ma quali interessi oscuri. Noi portiamo le istanze dei nostri clienti al decisore, non vendiamo relazioni. Le regole a Montecitorio? Si poteva fare di più. Serve una legge, i primi a volere chiarezza siamo noi lobbisti»«Siamo lobbisti, non faccendieri. Finalmente alla Camera ci sarà più trasparenza, ma stiamo ancora aspettando una legge nazionale con regole certe». Andrea Morbelli è il responsabile del settore relazioni istituzionali di Open Gate Italia, una delle principali realtà del settore. Tra i suoi clienti, presenti e passati, figurano multinazionali come HP, Enel Open Fiber, le Acciaierie di Terni, l’associazione nazionale industrie cinematografiche, ma anche la società calcistica della Roma. A sentire lui, la regolamentazione approvata a Montecitorio sull’attività dei lobbisti è una buona notizia.Morbelli, partiamo dal suo lavoro. È corretto dire che i lobbisti rappresentano interessi particolari e costruiscono reti di relazioni con il decisore pubblico?Facciamo chiarezza. Il lobbista non crea relazioni, porta contenuti al decisore pubblico. Si discute di un provvedimento? Noi rappresentiamo le istanze dei nostri clienti, siano aziende o associazioni. E così portiamo anche il loro know how. Perché il decisore non può essere onnisciente: per regolare un settore deve prima avere gli strumenti che gli permettono di farlo. Ma non vendiamo relazioni, non siamo faccendieri. Oggi diverse multinazionali e associazioni di categoria possono già entrare alla Camera con un badge che viene rilasciato a discrezione del questore. Non c’è alcun criterio. Se la nuova regolamentazione azzera tutto e autorizza l’accesso solo a chi si registra sarà un dato positivo Da ieri alla Camera c'è una nuova regolamentazione della “attività di rappresentanza di interessi”.Ci sarà un pubblico registro dei lobbisti che entrano a Montecitorio. Come cambia il vostro lavoro?È un primo passo. Adesso spettano alla Presidenza ulteriori disposizioni per stabilire le modalità di accesso nel Palazzo. La nostra posizione è semplice: siamo a favore se esisterà un registro valido per tutti. Oggi diverse multinazionali e associazioni di categoria possono già entrare alla Camera con un badge che viene rilasciato a discrezione del questore. Non c’è alcun criterio. Se la nuova regolamentazione azzera tutto e autorizza l’accesso solo a chi si registra sarà un dato positivo. Altrimenti si rischia di reiterare il dislivello attuale. Dove qualcuno può entrare quando vuole e altri devono chiedere il permesso. La regolamentazione prevede anche che i lobbisti pubblichino un resoconto delle proprie attività nel Palazzo. Bene, noi siamo per la totale trasparenza. Meglio ancora se viene sanzionato chi non dichiara tutto, magari privandolo della possibilità di entrare alla Camera. Inizialmente si era anche ipotizzato di rendere pubbliche le spese sostenute da ciascuno nell’ambito della propria attività. Questa disposizione è stata tolta, io l’avrei lasciata. Gli ex parlamentari che diventano portatori di interessi, invece, dovranno attendere un anno prima di potersi iscrivere al registro. Anche se potranno continuare a entrare a Montecitorio in qualità di ex. Nel mondo succede così, non è uno scandalo. Chi è stato decisore pubblico può diventare un lobbista. Ma la norma così com'è scritta può essere sicuramente aggirata, questo è vero. Spesso si parla del lobbista come di un rappresentante di interessi oscuri, pronto a elargire mazzette… Ma questi sono traffichini, non lobbisti. Il nostro è un lavoro serio, proprio per questo vogliamo farlo in tutta trasparenzaInsomma, lei è soddisfatto delle nuove disposizioni?Ripeto, è un primo passo. Se ci fosse una legge nazionale con regole certe sarebbe ancora meglio. Si parla tanto di trasparenza, ma è evidente che qualche abuso esiste.Le cronache parlamentari raccontano spesso di strani personaggi che si aggirano tra le commissioni ed emendamenti infilati all’ultimo da anonime manine...Gli abusi esistono, certo. Anche per questo chiediamo norme chiare. Se la nostra attività avvenisse alla luce del sole non ci sarebbe nulla di male. Ognuno deve essere libero di portare il proprio contributo al decisore. E lui, a sua volta, deve essere libero di legiferare in autonomia. Oggi siamo noi i primi a pagarne le conseguenze. Spesso si parla del lobbista come di un rappresentante di interessi oscuri, pronto a elargire mazzette… Ma questi sono traffichini, non lobbisti. Il nostro è un lavoro serio, proprio per questo vogliamo farlo in tutta trasparenza.Fonte: Marco Sarti, Linkiesta

Imprese - Lobbyingitalia

Quest'anno li hanno relegati in una stanza apposita. Ma non è servito a molto, perché li lasciano borse e giacconi e poi vanno in giro come prima, stazionando davanti alla porta della commissione Bilancio. Parliamo dei lobbisti. Ovvero i rappresentanti di enti e associazioni chiamati a fare pressione su parlamentari e partiti affinché, nella legge di Stabilità, passino norme che interessano alle diverse categorie professionali. Davanti alla commissione negli anni passati era una solta di suq arabo, specie durante le sedute notturne, quando succedeva di tutto, con emendamenti che saltavano fuori come funghi alle due del mattino, per poi magari sparire alle prime luci dell'alba. E i lobbisti fuori a controllare, monitorare, suggerire, sussurrare. «Senatore dove siete arrivati con la votazione?››. «Onorevole, quell’emendamento allora è passato?››. Per il troppo caos lo scorso anno Laura Boldrini ha deciso di vietare l“accesso ai lobbisti al piano dove lavora la commissione Bilancio. «Ma le vie del signore sono infinite, E anche i corridoi di Montecitorio. ..››, sorrido un rappresentante di Terna. Così ora, anche a Palazzo Madama, Pietro Grasso ha posto delle restrizioni: ma la stanza a loro adibita è a soli trenta passi dalla commissione Bilancio. In realtà, complice il cortile, i capannelli si sprecano. Con una variegata fauna composta da giornalisti, portaborse, rappresentanti degli uffici legislativi dei ministeri, commessi e, appunto, lobbisti, Che qui svolgono solo la parte finale del loro lavoro: verificano il raggiungimento del risultato. La vera attività di lobbying inizia molto prima. «Innanzitutto c'è un lavoro di monitoraggio su tutto quello che esce dal palazzo: dichiarazioni, tweet, proposte e disegni di legge, emendamenti. Così, quando un cliente ci contatta, noi sappiamo già a chi chiedere», racconta Andrea Rosiello. rappresentante di una società di «monitoraggio legislativo e relazioni istituzionali», che qui sta rappresentando notai e Confprofessioni, «Una volta individuati gli interlocutori», continua, «si chiede un incontro, durante il quale si sottopone la questione. E li si vede se il parlamentare e sensibile al tema oppure è meglio cambiare cavallo». La regola è quella di avere contatti con tutte le forze politiche. A volte sono meglio i peones e i piccoli gruppi, altre no. Davanti alla porta della commissione Bilancio c‘è un po' di tutto. Confindustria, Terna, Enel, Eni, Lottomatica, rappresentanti di categorie, professioni. Tra le lobby più potenti ci sono gli ambientalisti. Capitale, grandi gruppi, ma anche società civile. L’Anci, per esempio, sta spingendo per l’inserimento di una norma che, se approvata, solleverà cori di proteste: l’abolizione della possibilità di pagare le multe scontate del 30 per cento se saldate entro un tot numero di giorni. Niente sconto, più soldi nelle casse dei Comuni. «Basta guardare la filiera degli emendamenti per capire chi sono i maggiori gruppi di pressione», spiega Silvana Comaroli, senatrice della Lega. E qui siamo sull’altro fronte, quello dei politici. Spesso sono loro a rendersi disponibili a essere avvicinati. «Se un senatore fa tre comunicati stampa sui problemi dei negozianti. allora vuol dire che quel settore gli interessa e se ne vuole fare carico», racconta un altro lobbista. Il ritorno, poi, è politico/elettorale: davanti a quella categoria potrà vantarsi di aver fatto il loro interesse sperando di incamerare voti. Regali? Mazzette? Pacchi giganti a Natale? Qui entriamo nel penale. «Tutto è possibile, per carità. Ci sono quelli più disponibili e quelli meno, ma oggi stanno tutti molto più attenti. Le marchette si riconoscono subito». Le vere pressioni, d’altronde, avvengono altrove, nei ministeri, 0 direttamente a Palazzo Chigi, «Il termine lobbista ha sempre un’accezione negativa e la vicenda Chaouqui non ha aiutato, ma chi fa davvero questo mestiere deve essere serio, competente e preparato», racconta uno dei decani, rappresentante di Confindustria. Lui ieri non c’era. l suoi colleghi più giovani, invece, si preparano a fare tardi: la terza sessione della giornata in commissione Bilancio inizia alle 20:30. Gianluca Roselli, Il Fatto Quotidiano

Imprese - Lobbyingitalia

LOBBYINGITALIA
NEWS