NEWS
La bolla subrime colpa dei lobbisti?
Scritto il 2009-06-01 da Franco Spicciariello su World

Nel corso dell'ultimo decennio i 25 principali emittenti di titoli subprime hanno speso 370 milioni di dollari in attività di lobbying allo scopo di tenere alla larga qualsiasi provvedimento di regolamentazione del settore. Lo ha rivelato il Financial Times citando uno studio condotto dal Center for Public Integrity (CPI), un'organizzazione no profit attiva nel giornalismo d'inchiesta.

La vicenda assume contorni ancora più inquietanti di fronte alla scoperta dei nomi delle grandi eminenze grigie della situazione. Le 25 società in questione, oggi quasi tutte fallite, appartenevano o erano largamente finanziate dalle maggiori banche del Paese: Citigroup, Goldman Sachs, Wells Fargo, JPMorgan e Bank of America. Tutte insieme le prime 25 banche USA coinvolte nei mutui subprime avrebbero speso negli ultimi 10 anni la bellezza di $370 milioni in attività di lobbying per influenzare la regolamentazione del proprio settore.

L'aspetto più inquietante, ovviamente, risiede nel fatto che queste ultime sono oggi le principali beneficiarie del pacchetto di fondi statali (leggasi dei contribuenti) da 700 miliardi di dollari. “Sono stati i loro contributi sfrenati e la loro massiccia attività di lobbying a creare quella mancanza di regolamentazione e di supervisione che ha portato alla crisi” ha affermato il direttore dell'indagine di CPI Bill Buzenberg.

Si calcola che nel triennio 2005-07 le top 25 abbiano emesso da sole circa 1 trilione di dollari di titoli subprime, più o meno il 75% del totale. In cima alla lista dei 25 c'è Countrywide Financial, che ha messo in circolo 97 miliardi di dollari in titoli subprime, e oggi controllata da Bank of America.

Con 11 milioni di dollari di donazioni tra il 1998 e il 2008, Countrywide è stata una delle società più attive nel lobbismo e nei contributi elettorali. Non bisogna dimenticare, nota il Financial Times, che nell'ultimo decennio l'intera industria finanziaria americana ha elargito 2,2 miliardi di dollari ai candidati presidenziali. Tra i principali beneficiari George W. Bush e Barack Obama che ha intascato 14 milioni di contributi proprio dagli operatori di Wall Street.

Franco Spicciariello - LI.Info

(Marco Sarti) Si avvicina la fine del finanziamento pubblico, ognuno si ingegna come può. Il caso americano I dirigenti di Forza Italia hanno puntato tutto sul web. Per superare senza troppi traumi la riforma del finanziamento pubblico ai partiti, lo staff dell’ex Cavaliere ha studiato e messo in rete un apposito sito internet. L’home page è fin troppo esplicita. In basso, la grande fotografia di Silvio Berlusconi che stringe le mani ai suoi elettori. Poco più in alto, la richiesta di denaro. «Con la nuova legge mi hanno impedito di continuare a sostenere Forza Italia. Oggi ho bisogno dell’aiuto di chi, come te, condivide la mia “follia”». Antonio Palmieri, responsabile della comunicazione web del partito, non fa mistero di essersi ispirato a un sito di fundraising del presidente americano Barack Obama. Dal web ai cellulari. Per intercettare la generosità dei militanti meno pratici di computer, i berlusconiani si affidano alle donazioni via sms. Una procedura prevista dall’articolo 13 della riforma - al momento non ancora applicato - che potrebbe aiutare a far quadrare i bilanci di Piazza San Lorenzo in Lucina. Nel frattempo il Partito democratico scommette sul 2X1000. È l’altra grande forma di finanziamento indiretto prevista dalla nuova legge. Il futuro dei dem passa da qui. «Anche perché oggi - racconta Antonella Trivisonno, giovane renziana e collaboratrice del tesoriere Francesco Bonifazi - il partito continua a dipendere per il 90 per cento dai finanziamenti pubblici». Dichiarazioni dei redditi e microdonazioni. La raccolta fondi alle feste democratiche un tempo era un’opportunità. «Presto - ammette - diventerà una necessità». Leggi: Elogio del finanziamento pubblico ai partiti, Luca Telese Intanto il conto alla rovescia prosegue inesorabile. La riforma voluta da Enrico Letta ridurrà i fondi pubblici ai partiti anno dopo anno. Dai 91 milioni del 2012 si passerà ai 22 milioni del prossimo anno. Fino a scomparire del tutto nel 2017. Al loro posto un sistema di donazioni fiscalmente incentivate - con un tetto di 100mila euro annui - e l’introduzione del 2x1000 che lascerà un rilevante potere di scelta ai cittadini. Stamattina i rappresentanti dei principali partiti ne hanno discusso a Roma in occasione dell’assemblea dei soci Ferpi, la Federazione Relazioni Pubbliche Italiana. Un’occasione per fare il punto sulle nuove forme di finanziamento alla politica - «Come associazione di categoria vogliamo offrire al sistema politico ed istituzionale spunti, informazioni e dati su cui fondare le nuove policy» spiega la presidente Patrizia Rutigliano - anche alla luce delle esperienze di altri Paesi. Quella statunitense in particolare. In America, del resto, una recente sentenza della Corte Suprema ha praticamente tolto qualsiasi limite alle donazioni dei privati alla politica. Se prima la legge federale imponeva un tetto di 123mila dollari, ora il sistema permette ai donatori più generosi di finanziare candidati e comitati elettorali fino a quasi 3,5 milioni di dollari. Cifre da far impallidire il tetto di 100mila euro introdotto dal governo Letta. Ecco perché la chiave di questo modello non può che essere la trasparenza. A confermarlo è uno dei lobbisti più influenti di Washington. Anthony Podesta, chiara origine italiana e, si dice, molto vicino alla Casa Bianca. Senza troppi giri di parole, il settimanale Newsweek lo ha semplicemente ribattezzato «the lobbyist». Fratello di John, stretto consigliere di Bill Clinton e di Obama, a scorrere i suoi principali clienti si finisce per ripassare buona parte della recente storia politica americana, da Ted Kennedy a George McGovern, fino a Michael Dukakis e lo stesso Clinton. Leggi: Finanziamento ai partiti, è già sfida tra Letta e Renzi, Marco Sarti L’insegnamento di Podesta? Nel rapporto tra denaro e politica tanti paletti rischiano di essere controproducenti. «Perché i soldi sono come l’acqua - racconta citando due giudici della Corte Suprema - anche se provi a fermarli trovano sempre una via d’uscita». Certo, è impossibile evitare la presenza di troppi interessi attorno ai partiti. «In un paese moderno e democratico - ammette il lobbista americano - il governo prende decisioni importanti. E inevitabilmente c’è chi proverà a investire denaro per eleggere i politici che prenderanno quelle decisioni. I suoi soldi, proprio come l’acqua, troveranno sempre una via d’uscita». Ecco perché riformare il sistema introducendo procedure più stringenti non sempre funziona. «Le buone intenzioni non si trasformano necessariamente in buoni risultati. Specialmente quando il denaro incontra i politici». L’obiettivo primario diventa allora la trasparenza. «Le persone devono poter sapere da dove vengono i soldi, chi li prende e come vengono spesi». Intanto negli Stati Uniti il costo delle campagne elettori cresce vertiginosamente. Un dato su tutti: alle ultime presidenziali tra Obama e Mitt Romney, i due avversari hanno raccolto la bellezza di un miliardo di dollari. Ciascuno. Il rischio che un ristretto gruppo di miliardari possa effettivamente controllare la politica è evidente. Anche per questo si impone la necessità di una sempre maggiore trasparenza. E se da noi la deriva oligarchica è ancora lontana - difficile controllare la politica con un tetto di 100mila euro - la chiarezza tra donazioni e partiti deve comunque rimanere un obiettivo primario. Il futuro della nostra politica passa dal fundraising? «Trasparenza e rendicontazione devono essere i punti irrinunciabili nella gestione del difficile rapporto tra denaro e politica» spiega il sottosegretario alla Semplificazione Angelo Rughetti. Non è più tempo di aspettare. Come auspica Andrea Romano, di Scelta Civica, entro questa legislatura possono essere approvate una legge sui partiti e una legge sulla rappresentanza di interessi. Fonte: Linkiesta

Imprese - Lobbyingitalia

Lo riporta uno lo studio dal titolo "Market-based Lobbying: Evidence from Advertising Spending in Italy", pubblicato dal National Bureau of Economic Research degli Stati Uniti e ripreso da Repubblica. Quando era presidente del Consiglio gli investimenti pubblicitari salivano, quando era all'opposizione calavano. Il guadagno di Silvio Berlusconi per gli spot trasmessi sulle reti Mediaset sarebbe, durante i diversi periodi di premierato tra il 1994 e il 2009, di un miliardo di euro. Sarebbe questo il vero conflitto di interesse secondo il rapporto stilato da quattro economisti , Stefano DellaVigna, dell’Università di California a Berkeley, Ruben Durante di Science Po a Parigi e Yale, Brian G. Knight della Brown University e Eliana La Ferrara della Bocconi di Milano, che hanno chiarito col conforto dei numeri come questo sia andato oltre la possibilità di usare il governo per favorire le proprie imprese. I quattro però, parlano di lobbying indiretto, cioè "l'aumento della spesa in pubblicità sulle reti del premier da parte di gruppi di telecomunicazioni, del settore farmaceutico, della finanza o nell'industria dell'auto, per ingraziarsi Berlusconi e spingere il governo a prendere decisioni convenienti per loro", scrive Repubblica. Che c'entra il lobbying indiretto? Una definizione però quella di lobbying indiretto (grassroots lobbying), che lascia perplessi. Il grassroots lobbying (o appunto indirect lobbying) è infatti l'attività di lobbying portata avanti con l'intenzione di influenzare il processo di decision-making. Esso differisce dal lobbying diretto perché portato avanti coinvolgendo il pubblico - in senso ampio -, intere comunità o gruppi sociali, nell'attività di influenza/pressione sui legislatori. Nello studio invece si parla di acquisto di pubblicità sulle reti Mediaset da parte di gruppi nei settori regolamentati, sottolineando il fatto che negli anni in cui Berlusconi è al governo le cifre siano in continuo aumento, con in corrispondente calo sulle reti Rai. Secondo i quattro economisti le banche, compagnie assicurative o società di telefonia avrebbero così tentato di accattivarsi il favore dell'ormai senatore decaduto, comprando più spot (o spot più costosi) sulle sue reti. Un'affermazione che chiaramente esclude ogni classica attività di lobbying, e tanto meno qualsiasi coinvolgimento della comunità. "L'investimento pubblicitario aggira gli obblighi di trasparenza del finanziamento ai partiti, ma può rivelarsi molto efficace" dice Ruben Durante da Yale, uno dei quattro economisti che ha lavorato allo studio. La relazione tra la quota di inserzioni riservata a Mediaset, rispetto alla Rai, e i mandati di governo del centrodestra balza subito all'occhio. In particolare si è impennata dal 62% al 66% con la discesa in campo del Cav nel 1994; salita al 69% con la legislatura partita nel 2001; poi scesa durante l'esecutivo di Romano Prodi fino al 2008 e risalita fino al 70% quando Berlusconi è tornato al governo nella scorsa legislatura. Illecito finanziamento? L'acquisto di pubblicità sulle reti Mediaset da parte di gruppi nei settori regolamentati, quelli cioè che dipendono maggiormente dalle scelte del governo nazionale (a esempio le assicurazioni, la farmaceutica, i media e l’editoria e l’auto) sarebbe quindi cresciuto in maniera inequivocabile proprio negli anni nei quali Berlusconi è stato al governo. Sorprende però che quattro studiosi di tale livello non abbiano avuto il coraggio di utilizzare le giuste categorie per quelle che sono comunque delle accuse, e che non hanno molto a che fare col lobbying, tanto più con quello indiretto. Il tema dello studio infatti, rileva più rispetto all'eventuale aggiramento delle norme sul finanziamento dei partiti, e sarebbe interessante se oltre un freddo studio sui numeri ci fosse un'approfondita inchiesta giornalistica a capire se dietro certi aumenti di spesa ci sia stato altro. Visti i risultati di questo studio, forse sarebbe il caso che il Decreto legge sul finanziamento dei partiti in corso di conversione possa possa essere occasione di riforma oltre che del rapporto tra soldi e politica anche per regolamentare l'attività di lobbying, diretta o indiretta, visto e considerato che sono passati mesi da quando il governo Letta ha fallito nel tentativo di dare un quadro regolamentare al lobbying. Il tutto sperando che magari almeno i professori universitari nel frattempo inizino ad utilizzare la terminologia giusta. Scarica lo studio SSRN in pdf

Imprese - Lobbyingitalia

LOBBYINGITALIA
NEWS