Pare proprio di sì, se guardiamo il Congresso degli Stati uniti. Già: il numero dei lobbisti che lavora per influenzare le leggi e le politiche federali sul clima è aumentato di oltre il 300 percento negli ultimi cinque anni, come hanno verificato i ricercatori del Centre for Public Integrity, un istituto di ricerca sui meccanismi della politica americana. Per la precisione: nell'anno scorso oltre 770 aziende e/o gruppi d'interesse ha arruolato 2.340 lobbisti per lavorare sul clima, si legge nel rapporto «The climate change lobby». Nel 2003, anno in cui il Senato Usa ha discusso e approvato per la prima volta una proposta sul cambiamento del clima, solo 150 aziende e/o organizzazioni si è data la pena di pagare lobbisti per sostenere i propri interessi.
Dunque oggi a Washington sono accreditati poco più di 4 lobbisti per ogni membro del Congresso. La spesa è notevole: quelle 770 aziende e gruppi d'interesse hanno speso almeno 90 milioni di dollari nel 2008 per retribuire lobbisti per il clima. Si tratta spesso di lobbisti «di rango» - come l'ex deputato del Missouri (democratico) Dick Gephardt che è stato pagato 120mila dollari dall'azienda energetica Peabody Energy (carbone), che sta anche nella coalizione del «carbone pulito».
Non è solo aumentato il numero dei lobbisti del clima: anche la varietà dei «committenti» si è ampliata. E questo non deve stupire: anni fa il clima era percepito come una questione ambientale, oggi è chiaro che si tratta di questione ambientale ma anche energetica, economica, perfino di sicurezza nazionale. Così. nel 2003 i gruppi che hanno fatto lobby sul clima erano quasi solo aziende energetiche: il 70% erano compagnie elettriche, di carbone o petrolifere, poi c'era un po' di industria (automobili, cemento, acciaio), ovvero i settori industriali direttamente coinvolti dalle normative sull'uso dei combustibili fossili. Quando nel 2008 il congresso è tornato a legiferare sul clima, praticamente ogni settore dell'economia ha cercato di far pesare i propri interessi. Così, in cima alla lista dei committenti c'è la American Coalition for Clean Coal Energy, organizzazione di lobby formata la primavera scorsa (per difendere gli interessi del «carbone pulito», ossimoro su cui sarà meglio tornare): rappresenta 48 compagnie minerarie, aziende di trasporti di carbone e aziende elettriche che bruciano carbone: nel 2008 ha speso 9,95 milioni di dollari per fare lobby al Congresso, più di ogni altro singolo gruppo o coalizione di interessi. La lista include poi numerose aziende di energie alternative, che fanno lobby per ottenere finanziamenti e aiuti governativi: nel 2003 c'erano 5 lobbisti di energie alternative, nel 2008 ne erano registrati 130. Poi c'è Wall Street, cioè alcune grandi banche come Goldman Sachs e JPMorgan Chase, e svariati uffici finanziari: loro sono interessati al mercato di «quote di carbonio» e diritti d'inquinamento che sarà istituito appena gli Stati uniti avranno aderito a un sistema di limiti delle emissioni di gas «di serra». L'insieme del settore della finanza ha 130 lobbisti - come le energie alternative. Anche gli enti locali hanno i loro interessi da difendere: città, municipalità, aziende municipalizzate hanno un centinaio di lobbisti.
Infine, anche il mondo ambientalista ha rafforzato la sua lobby: da meno di 50 nel 2003 a circa 185 l'anno scorso, quando le lobby ambientaliste più note - dal Sierra club alla National Wildlife Federation - sono state affiancate da una nuova leva di associazioni e gruppi per la salute e l'ambiente.
Marina Forti - Il Manifesto






































