Il Disegno di Legge ‘Santagata’ [l'intervista è stata rilasciata prima dello scioglimento delle Camere, ndr] non deve essere visto in chiave di legittimazione di un’attività che è legittima di per sé, in quanto elemento del processo democratico che interfaccia istituzioni e interessi, ma in termini di trasparenza dei processi. La pensa così Franco Spicciariello, autorevole professionista italiano, fondatore e animatore della community tematica lobbyingitalia.info. Fondatore del primo Master in Public Affairs, Lobbying e Relazioni Istituzionali presso l’Università LUMSA di Roma, si occupa di Public Affairs per una nota multinazionale del software.
Crede che la regolamentazione della lobby possa favorire le modalità con le quali i gruppi d’interesse vengono rappresentati? Cosa pensa del ddl ‘Santagata’?
Sì, regolamentare la lobby favorirebbe la trasparenza. Sono infatti molte le informazioni che non vengono messe a disposizione del pubblico. Nella mia esperienza di docente ho potuto appurare una certa reticenza delle aziende a fornire i dati che riguardavano questo settore. Gli studenti nell’espletare le loro tesine avevano bisogno di quantificare il loro lavoro con i nomi dei lobbisti, i ruoli ricoperti, i dossier presentanti ed in molti casi hanno avuto risposte frammentate e sommarie. Il ddl “Santagata “ è certo un primo passo per cambiare la cultura della lobby in Italia, ed è sicuramente migliore di molti altri. Ma è solo, appunto, un primo passo. Spiace che il disegno di legge regolamenti solo i lobbisti e non chi ne è il destinatario principale insieme al Governo, e cioè i parlamentari. Ma è una scelta comprensibile.
Si dice che le derive della lobby negli USA generino delle leggi al di fuori del parlamento. Questa paura può essere considerata un freno ai ripetuti tentativi di fare una legge sulla regolamentazione della lobby? Come giudica l’atteggiamento dei partiti italiani in merito?
Oggi in Italia come in Francia o altrove spesso le leggi vengono fatte al di fuori del Parlamento e i primi lobbisti sono i parlamentari stessi. Credo infatti che la regolamentazione della lobby in Italia non voglia dire la sua legittimazione, di fatto: oggi l’attività di lobbying esiste viene fatta e quindi è già legittimata dalla politica e dal mercato. Non è del resto altro che un elemento del processo democratico, che trova persino un inquadramento nella nostra costituzione all’art. 50, nel diritto di petizione. La regolamentazione renderebbe ancor più limpido e chiaro quello che già c’è dando le medesime opportunità a tutti.
L’attività di lobbying in Italia appare complessa e ci si chiede se e quanto riesca ad influenzare concretamente il processo decisionale dei partiti?
La lobby è nei partiti. I sindacati sono una lobby potentissima, come anche le organizzazioni confederali. E poi ci sono associazioni come Anci (comuni) e Upi (province) e un’infinita di lobbisti che rappresentano e curano interessi di categorie delle più diverse. Credo sia illegittimo pensare che questo non c’è, significherebbe cercare di nasconderlo al pubblico. La regolamentazione farebbe solo emergere e rendere noto a tutti il sistema, almeno in parte.
Rafforzare la lobby in Italia favorirebbe la concertazione?
Credo che la concertazione non debba essere favorita ulteriormente. Le sorti del Paese vengono già troppo spesso in questo modo decise a porte chiuse. Regolamentare la lobby renderebbe pubblici i position papers che i gruppi d’interesse presentano, consentirebbe la trasparenza di audizioni parlamentari e di incontri di cui oggi sa praticamente nulla. E ciò favorirebbe la democrazia perché la gente ha diritto di sapere chi dice cosa. Ma forse per questo non servirebbe nemmeno una legge, basterebbe un po’ di (buona) volontà politica.
Condivide quindi che il ddl preveda l’istituzione del registro dei lobbisti proprio in seno al CNEL? Non teme un rafforzamento di ques’ente che lo trasformi in un anticamera del Parlamento?
Dal momento che non c’è intenzione di abolire un organo, costituzionalmente previsto, è meglio che venga valorizzato nel modo migliore possibile. Peraltro è attualmente guidato da un economista di fama che conosce bene istituzioni e interessi.
Si parla di lobby a livello nazionale ma intanto l’attività è sempre più spostata verso le regioni che ormai legiferano molto più del Parlamento, un campo ancora inesplorato che aprirebbe mercati nuovi. Crede che i lobbisti italiani abbiano capito che questo è un nuovo settore di sviluppo?
Assolutamente sì. Le Regioni legiferano più velocemente, hanno accesso più facilmente ai finanziamenti europei, sono più vicine agli interessi sul territorio, e conseguentemente stanno diventando il fulcro dell’attività di lobby . Questo determina una moltiplicazione enorme dei centri decisionali, e un buon lobbista deve saper leggere i nuovi scenari senza dimenticare che la sua è soprattutto un’attività di lavoro precompetitivo in rapporto al business della sua azienda.
Esiste la formazione sulla lobby in Italia? Cosa suggerirebbe ad un giovane che vuole accostarsi a questa professione?
Bisogna avere tanta curiosità, un’ottima conoscenza della macchina pubblica, conoscere gli strumenti della comunicazione e avere una grande passione per la politica. Ma non basta saper fare un buon comunicato stampa, bisogna capire i contenuti e dunque amare la politica e conoscere i processi legislativi. Ci vorrebbe un percorso di laurea quinquennale a cavallo tra scienze politiche, giurisprudenza e scienze della comunicazione. Per ora ci sono una serie di buoni master e qualche corso, ma non è certo abbastanza.
Che importanza possono avere le associazioni professionali in questo scenario? Cosa suggerirebbe a Ferpi?
Le associazioni professionali, quando non diventano ordini di stampo corporativo, possono avere un importante ruolo come luogo di incontro, come elemento di sostegno alla formazione professionale e anche come centro in cui sviluppare un’autoregolamentazione della professione lobbistica. La domanda che però viene spontaneo porsi, e a cui al momento non mi sento di poter dare una risposta, è: è giusto che lobbisti e professionisti delle relazioni pubbliche stiano sotto lo stesso tetto? Un dibattito al riguardo in Ferpi, in cui vi sono iscritti di lungo corso che vengono da entrambi i campi, sarebbe molto interessante.
Laura Latini - Ferpi
































