usa – LobbyingItalia http://www.lobbyingitalia.com Blog dedicato al mondo delle lobbies in modo chiaro e trasparente Fri, 13 May 2016 14:04:46 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.4.2 Lobbying, legislatori, consumatori: di cosa si parla a Las Vegas [Public Policy] http://www.lobbyingitalia.com/2015/10/lobbying-legislatori-consumatori-di-cosa-si-parla-a-las-vegas-public-policy/ Wed, 28 Oct 2015 17:00:11 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=3011 Viviamo in un mondo complesso, dove molte aree di business si sono integrate e la legislazione è clamorosamente alla rincorsa.

Nella tavola rotonda sul lobbying per le nuove tecnologie in corso a Las Vegas nell’ambito del Money2020 World Congress non si è parlato d’altro: mettere in condizione i legislatori di essere correttamente informati e prendere decisioni in tempi rapidi.

Due sono i temi importanti: aiutare i consumatori ad avere quello che vogliono, e creare regole includenti e non escludenti.” Così Brian Crist, Chief Payment Counsel di Uber, che aggiunge: “Con i nuovi modelli di business che le digital economies stanno portando alla luce il tema è: come creare una relazione trasparente ed efficace con il legislatore? Negando la necessità di essere informati su un nuovo business o cercando di far incontrare gli interessi comuni di più operatori?“.

Sulla stessa linea di pensiero anche Microsoft che, per bocca di Youssef Sneifer, sostiene: “Quello che prima il consumatore doveva mettere insieme da 4 o 5 aziende ora lo vuole trovare – e lo trova – in una sola“. “Se, da un lato, è vero che questa innovazione ha la sua complessità, perché non lasciamo alle aziende la possibilità di informare ed ‘educare‘ con trasparenza il legislatore? Le barriere in entrata nel mercato sono, del resto, sempre di meno: in questo settore, in particolare, puoi entrare con un prodotto che contiene un sistema di pagamento mille volte più facilmente che 20 anni fa. E in questo, sapete qual è la complessità? Le incertezze del legislatore nel prendere decisioni e la poca conoscenza di base per poter giudicare il tuo business“.

fonte: Maurizio David Sberna, Public Policy

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Obama senza armi nella lotta alle lobby [Valori] http://www.lobbyingitalia.com/2015/09/obama-senza-armi-nella-lotta-alle-lobby-valori/ Fri, 04 Sep 2015 09:38:08 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2935 Il presidente Usa sembra aver perso la battaglia contro i produttori di pistole. Nonostante le sue pressioni, l’import è a livelli record. E la presa della National Rifle Association sul Congresso è più forte che mai

«Se mi chiede qual è il settore in cui sento di essere stato più frustrato e più ostacolato è il fatto che gli Stati Uniti sono la sola nazione avanzata sulla Terra in cui non abbiamo leggi di buon senso per il controllo delle armi, nonostante le ripetute uccisioni di massa. Se consideriamo il numero di americani uccisi per terrorismo dall’11 settembre sono meno di cento, mentre le vittime della violenza delle armi sono nell’ordine delle decine di migliaia. Non essere in grado di risolvere questo problema è stato angosciante: ma non è un tema sul quale ho intenzione di smettere di lavorare nei restanti 18 mesi».

Queste parole di Barack Obama arrivavano, consegnate al microfono di un inviato BBC, all’indomani della strage di Charleston, in cui Dylann Storm Roof, 21 anni, ha fatto fuoco con una pistola calibro 45 regalatagli per il compleanno dal padre, all’interno della Emmanuel African Methodist Episcopal Church durante una lettura della Bibbia. Il bilancio della sua azione: nove morti – tre uomini e sei donne -membri della comunità afroamericana che frequenta la chiesa tra cui anche il pastore, il reverendo Clementa Pinckney, senatore del Partito democratico.

Un mix di impotenza e frustrazione del comandante in capo della Nazione più potente della Terra, che fa chiaramente trasparire l’influsso e la capacità d’azione della lobby delle armi negli Stati Uniti. Quasi sfrontata nell’attaccarlo («Il presidente Obama – affermarono commentando gli ultimi dati del Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives –non si fermerà di fronte a niente per spogliare i cittadini del loro diritto costituzionale di difendersi»). E nell’evidenziare che proprio gli annunci di leggi più restrittive sulla detenzione delle armi hanno indotto le persone a correre ad acquistarle: «Barack Obama merita il premio di “Venditore di armi del decennio”» ha commentato, non senza sarcasmo, Erich Pratt, portavoce di Gun Owners of America. «Il presidente è stato implacabile nei suoi attacchi contro il Secondo Emendamento alla Costituzione (quello del 1791 che garantisce il diritto di possedere armi, ndr) e non c’è da stupirsi che la gente abbia paura e voglia proteggersi» ha aggiunto Jennifer Baker, portavoce della National Rifle Association (NRA).

lobby armiIn effetti, i dati sembrano incontrovertibili: durante la presidenza Obama la produzione di armi da fuoco negli Stati Uniti è passata da meno di 4,5 milioni di unità a oltre 10,8 milioni di unità con un incremento del 140%: è vero che l’export è cresciuto nell’insieme, però riguarda meno di 400mila unità; ma è aumentato soprattutto l’import che nel 2013 ha superato i 5,5 milioni di unità toccando un record trentennale.

Anche sul fronte della legislazione, le notizie non sono incoraggianti. Come riporta una meticolosa inchiesta del New York Times del dicembre 2013, cioè a un anno esatto dalla strage di Newtown (alla Sandy Hook Elementary School un ventenne aprì il fuoco uccidendo 27 persone, tra cui 20 bambini sotto i 7 anni), delle 109 nuove leggi approvate nei vari Stati solo un terzo ha effettivamente rafforzato le restrizioni sulle armi, mentre la maggior parte le ha di fatto ammorbidite. Ed è proprio su questo versante che si manifesta la potenza mediatica della lobby delle armi negli Stati Uniti. Una lobby capitanata dalla National Rifle Association (NRA), una delle più influenti degli Stati Uniti: un’entità che Obama conosce bene e di cui ha ripetutamente evidenziato l’influsso su Camera e Senato: «Sfortunatamente, la presa della NRA sul Congresso è estremamente forte – ha ribadito nei giorni scorsi. E non prevedo nessuna iniziativa legislativa all’orizzonte, finché l’opinione pubblica Usa non sentirà un senso d’urgenza che porti a dire “tutto questo non è normale, possiamo cambiare qualcosa e abbiamo intenzione di cambiarla”».

Eppure, una recente ricerca dell’Harvard Injury Control Research Center smentisce numerose delle tesi sostenute dalla lobby armiera. A cominciare da quella secondo cui “possedere un’arma in casa rende più sicuri” (lo pensa solo il 5% degli intevistati, il 64% sostiene l’esatto contrario). Ma, soprattutto, l’inchiesta dimostra che per il 72% degli americani leggi più severe sulle armi aiutano a ridurre gli omicidi. Eppure questo punto di vista pare non riuscire a far breccia tra le maglie dei legislatori statunitensi. Inutile domandarsi di chi è il merito.

DOVE PRENDONO I SOLDI I LOBBISTI?

La National Rifle Association (NRA) è un’organizzazione ben strutturata tanto da essere considerata “la lobby più influente degli Stati Uniti”. Potente con l’elettorato e, ancor di più, con il ceto politico: secondo il Centro Open Secrets l’influenza della NRA si fa sentire non solo attraverso i contributi elettorali, ma anche con i milioni di dollari di spese non rese pubbliche (off-the-book ) per diffondere annunci pubblicitari. Le sole sue spese di lobbying sono nell’ordine di svariati milioni di dollari all’anno, usati per esercitare la sua influenza su agenzie governative, membri del Congresso e su vari ministeri tra cui quelli degli Interni e del Commercio.

lobby armi 2Un’imponente organizzazione, fondata nel lontano 1871, che oggi può disporre di svariati milioni all’anno (il Washington Post parla, forse esagerando, addirittura di 250 milioni) raccolti attraverso donazioni e sostegni di singoli aderenti, spesso esentabili dalle tasse, ma soprattutto col contributo delle maggiori aziende produttrici di armi e delle ditte specializzate nella rivendita. Come riporta una delle rare indagini in questo oscuro ambito, promossa dal Violence Policy Center (VPC), la NRA ha messo a punto uno specifico “Corporate Partners Program ” (Programma per le aziende) per incrementare i contributi da parte delle ditte produttrici e rivenditrici di armi.

Tra i donatori primeggia Midway USA, un colosso nella vendita online (non ha negozi fisici) di armi e munizioni di tutti i tipi che non solo ha donato più di cinque milioni di dollari alla NRA di cui è lo sponsor ufficiale del meeting annuale, ma soprattutto ha contribuito a creare il “NRA Roundup Programme ” per promuovere la raccolta fondi della lobby armiera. Seguono una serie di aziende produttrici di armi e munizioni: Smith & Wesson, Sturm, Ruger & Co., Blaser USA, Glock, Noser, Barret, Remimgton, Browning. C’era anche la Colt che nelle scorse settimane ha dichiarato bancarotta. Ma soprattutto spicca il gruppo Beretta USA che nel 2008 ha donato un milione di dollari all'”Istituto NRA per l’azione legislativa e le attività per la difesa dei diritti civili”. Obiettivo: difendere e ampliare la portata del Secondo Emendamento. E in quei soldi c’è tanta Italia: la Beretta USA fa parte infatti della Beretta Holding, interamente controllata dalla famiglia Gussalli Beretta di Gardone Val Trompia in provincia di Brescia.

BERETTA, DAL MARYLAND AL TENNESSEE PER PUNIRE IL GOVERNATORE “OSTILE”

Il governatore di uno Stato decide di promuovere leggi più restrittive sulle armi? E io chiudo la fabbrica. È quello che la Beretta ha deciso nel febbraio 2014, chiudendo lo storico stabilimento di Accokeek nel Maryland per aprirne uno nuovo a Gallatin, nel Tennessee. In un comunicato, il presidente Ugo Gussalli Beretta, dimessosi poche settimane fa, giustificava la decisione attaccando frontalmente la decisione dell’allora governatore Martin O’Malley (un liberal del partito democratico) per la sua scelta di limitare la diffusione delle pistole. “Pattern of harassment” (una “prassi di molestie”) contro i legali possessori di armi, fu definita la scelta del governatore. Una presa di posizione inusuale per l’azienda italiana che è stata duramente criticata dalle associazioni statunitensi per il controllo delle armi: «Contesta una legge che è molto meno restrittiva di quelle che in Italia proteggono la sua famiglia», ha commentato Jonathan Lowy, del Brady Center to Prevent Gun Violence. Gussalli Beretta ha ovviamente taciuto nella sua lettera i milioni di dollari di finanziamenti pubblici dello Stato del Tennessee ricevuti per aprire la sua azienda. Ma anche così funziona la lobby delle armi. Che nella cinquecentenaria azienda italiana fornitrice di armi alle polizie e all’esercito Usa trova uno dei suoi più attivi azionisti.

Di Giorgio Beretta (Analista dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa di Brescia) ed Emanuele Isonio

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Intesa nucleare in Iran, che guerra tra lobby Usa (Lettera43) http://www.lobbyingitalia.com/2015/09/intesa-nucleare-in-iran-che-guerra-tra-lobby-usa-lettera43/ Wed, 02 Sep 2015 13:30:06 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2931 L’esito del voto al congresso Usa per l’approvazione degli accordi con l’Iran è destinato a cambiare l’assetto geopolitico del Medio Oriente, ma non solo.

Attorno all’intesa sul nucleare ruotano interessi politici, culturali, religiosi e soprattutto economici: basta pensare all’impatto che avrà il ritorno delle risorse energetiche della Repubblica islamica nel mercato dell’oil & gas, da cui l’Iran è escluso ormai da più di 10 anni.

Barack Obama ha dichiarato che quest’accordo va supportato in tutti modi, essendo la migliore soluzione per evitare conseguenze ben peggiori che contribuirebbero ad aumentare il caos mediorientale.

Ma per evitare una guerra se n’è scatenata un’altra: quella delle lobby.

PORTATORI D’INTERESSE ALLA CARICA. Anche la politica estera dei Paesi è sempre più soggetta all’azione dei portatori d’interessi, che spesso vanno a influire in decisioni politiche e diplomatiche.

Dal momento in cui il direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Yukiya Amano, ha annunciato la firma del documento da parte del vice presidente iraniano Ali Akbar Salehi, l’attenzione si è spostata al Congresso degli Stati Uniti d’America che si deve pronunciare sulla revoca delle sanzioni.

Il presidente Rohani ha infatti dichiarato che non accetterà alcun trattato se non verranno prima ritirate le sanzioni a cui l’Iran deve sottostare da più di 10 anni.

MOMENTO MOLTO DELICATO. I lawmakers del congresso stanno vivendo un momento estremamente delicato, paragonabile solo, dicono gli esperti, al voto del 2002 per approvare l’invasione dell’Iraq sotto l’amministrazione George Bush.
L’unico modo con cui l’accordo voluto in prima persona da Obama può essere bloccato è che non si raggiungano i due terzi favorevoli al Congresso, in base alla costituzione americana.

Israele strenuo sostenitore del ‘no’

Le lobby più influenti sono gli storici comitati legati a Israele, a oggi il più strenuo sostenitore del ‘no’ all’accordo sotto la guida del suo presidente Benjamin Netanyahu.

Dove la diplomazia ha fallito, entrano in campo i lobbisti ed esperti di comunicazione: solo l’Aipac (American Israel Public Affairs Committee) ha stanziato 20 milioni di dollari in annunci pubblicitari in televisione e una delle più ingenti campagne sui social media a cui si sia mai assistito in America.

MOVIMENTI DAL BASSO. Non solo: la strategia del grass roots advocacy è ormai consolidata negli Stati Uniti, volta a mobilitare i movimenti dal basso della società per indurre i decisori politici a riconsiderare le proprie posizioni.
La spinta dei movimenti sociali costringe le istituzioni a doversi interfacciare con ambienti non istituzionali, ma che hanno un importante peso politico.

L’associazione Citizens Against a Nuclear Iran è nata all’interno di questa battaglia mediatica, mentre la Republican Jewish Coalition può contare su 40 mila membri.

‘INGAGGIATI’ I SENATORI. L’obiettivo è quello di spingere l’opinione pubblica e i decision maker contro l’accordo con l’Iran, attraverso digital advertising e  ingaggiando sui social media i senatori di maggiore rilevanza, mentre Israele, dal canto suo, sta invitando decine di membri del congresso – sia democratici che repubblicani – a visitare Israele pubblicamente.

Obama accusa le associazioni di diffondere falsità

Durante un discorso all’American University, Obama non si è limitato a sostenere il ritiro delle sanzioni, ma ha pubblicamente accusato la stessa lobby che aveva voluto la guerra in Iraq di boicottare l’accordo con l’Iran, lasciando come unica alternativa un’altra guerra.

In questo contesto il riferimento all’Aipac è stato implicito, a differenza dell’incontro organizzato con i membri della lobby anti-accordo: il presidente Usa li ha accusati di «aver speso milioni di dollari in pubblicità contro l’accordo sul nucleare iraniano» e di diffondere anche «false informazioni».

Obama ha detto ai rappresentanti della lobby che non starà a guardare i loro attacchi ai quali ha promesso di «replicare in modo duro», come scrive lo stesso giornale americano.

CAMPAGNA A FAVORE DA 5 MILIONI. La risposta non s’è fatta attendere: la Casa bianca ha ingaggiato Ong e Movimenti pacifisti tramite le stesse organizzazioni di grassroots che lo hanno portato alla vittoria durante le elezioni del 2008.

Anche in questo caso non mancano i fondi: J-Street, una fondazione di ebrei liberali, ha stanziato 5 milioni di dollari in una campagna mediatica a favore dell’accordo, così come sono stati creati un account Twitter e un sito dedicato.

Anche la fondazione Ploughshares ha dichiarato di aver speso 11 milioni di dollari negli ultimi sei anni per raggiungere un accordo con l’Iran: vedendo i risultati, si può dire che sono stati soldi ben spesi.

L’IMPORTANZA DELL’OPINIONE PUBBLICA. Come ha ricordato il Senatore Ben Cardin in un’intervista ad Al Jazeera, «questa è una società aperta. L’opinione pubblica è una parte importante del processo».

È probabilmente questo il fattore che ha spinto il presidente Obama a un’azione più determinata, dato che i recenti sondaggi, contrariamente all’inizio di agosto, danno la maggioranza dei cittadini contrari alla linea pro accordo.

La marcia del 26 luglio contro l’intesa nucleare ha mobilitato migliaia di persone, spiazzando la Casa bianca e mostrando l’efficienza delle campagne grass roots organizzate dalle lobby contrarie al ritorno dell’Iran sullo scenario mondiale.

Si vedrà quale strategia risulterà vincente, e quale linea prevarrà al Congresso americano. Una decisione che modificherà sicuramente gli equilibri mediorientali, e che probabilmente rimarrà nella storia come uno dei più grandi fallimenti o successi dell’amministrazione Obama.

Fonte: Lettera43 – Gianluca Comin
Twitter @gcomin

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USA2016, tanti candidati, un unico obiettivo: i lobbisti http://www.lobbyingitalia.com/2015/09/usa2016-tanti-candidati-un-unico-obiettivo-i-lobbisti/ Tue, 01 Sep 2015 14:30:48 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2928 Hillary Clinton ha dichiarato il proprio appoggio a una nuova regolamentazione proposta dalla sinistra democratica sul tema della regolamentazione del lobbying, segnando un punto a favore dei progressisti liberal che sono sempre più un cavallo di battaglia della ex first lady per la candidatura alle Presidenziali del 2016.

Il Bill presentato dal senatore del Wisconsin Tammy Baldwin e sponsorizzato anche dalla senatrice Elizabeth Warren intende attenuare il meccanismo delle revolving doors tra Wall Street e Washington. La Clinton conviene nell’affermare che la fiducia degli americani nell’establishment istituzionale “si sta erodendo. Il popolo americano deve essere messo in condizione di fidarsi di ogni persona che lavora a Washington, dal Presidente fino ai membri delle agenzie governative, mettendo davanti a ogni altra cosa l’interesse generale”.

Obiettivo del Bill è restringere le occasioni di influenza da parte del settore privato nei confronti di quello pubblico, in particolare restringendo decisamente il meccanismo delle revolving doors. L’appello della Clinton è stato immediatamente appoggiato da diversi gruppi progressisti, quali Democracy for America, Progressive Change Campaign Committee, American Family Voices e CREDO Action.

Anche gli altri candidati democratici hanno appoggiato il Bill. Il senatore del Vermont Bernie Sanders ha da sempre supportato la limitazione dell’attività dei lobbisti a Washington, così come l’ex governatore del Maryland Martin O’Malley. La proposta di regolamentazione proibisce agli ex membri delle istituzioni i cosiddetti “paracadute d’oro”, i bonus che arrivano dal settore privato per l’assunzione di dipendenti pubblici. Inoltre viene prolungato il periodo in cui le revolving doors sono vietate fino a due anni. Una norma simile è prevista per il percorso inverso: i regolatori finanziari per due anni non potranno favorire ex impiegati passati al settore privato.

I gruppi progressisti, in particolare Democracy For America, stanno conducendo una forte campagna di moral suasion nei confronti della Clinton per l’appoggio dichiarato alla proposta. Ma non è solo la candidata democratica a “sparare sui lobbisti” durante la propria campagna elettorale.

Nello scorso mese di luglio, Jeb Bush (candidato repubblicano) in un discorso alla Florida State University ha denunciato le lobby di Washington, secondo lui un potere eccessivamente preponderante nella democrazia americana tale da aver tolto indipendenza alla stessa Presidenza e al Congresso. “Serve un Presidente che cambi la cultura della capitale nazionale”, ha dichiarato.

La scorsa settimana anche Donald Trump, altro candidato del GOP, si è schierato contro i lobbisti e gli interessi di parte rilasciando alcune dichiarazioni alla CBS: “ho rifiutato una donazione di 5 milioni da un lobbista, sono soldi che non prenderei mai. Cambierò il sistema, non voglio essere legato ad alcun interesse, il nostro Paese rischia in questo modo di non avere più una middle class”.

La “caccia al lobbista” è uno sport che lo stesso Presidente Barack Obama ha praticato negli ultimi anni. Nel 2011, Obama dichiarava al NY Times che non avrebbe preso soldi dai grandi gruppi di pressione americani e si è impegnato a porre un freno all’influenza corruttrice dei gruppi di interesse. Salvo poi, però, affidarsi ad alcuni di loro come Sally Susman, manager della casa farmaceutica Pfizer, per attività di fundraising e comunicazione per la campagna elettorale di mid-term. In questi giorni, poi, Obama stesso si trova ad appoggiare ed essere appoggiato da diversi gruppi di pressione che chiedono l’implementazione degli accordi sull’Iran, diventando egli stesso “primo lobbista” (espressione coniata dal prof. Petrillo in occasione dell’attività di promozione della riforma sanitaria del 2010) nei confronti dei membri del Congresso in favore dell’accordo sul nucleare (come accaduto nei confronti del deputato dello stato di New York Jerrold Nadler, che ha poi appoggiato l’accordo).

In realtà il mercato del lobbying negli Stati Uniti è ancora molto vasto e influente. Secondo un rapporto della ONG Open Secrets, pubblicato lo scorso giugno, la spesa in lobbying nei confronti del Congresso è di circa 1,6 miliardi di dollari per il primo semestre 2015: una cifra in linea rispetto agli anni precedenti, per un numero di impiegati nel settore che si aggira attorno ai 10.000 (per rimanere, però, ai lobbisti professionisti e solo al livello federale, tralasciando il livello locale). Come riportato da un articolo di Repubblica, il lobbying rimane un’attività è talmente connaturata al sistema politico-costituzionale degli Stati Uniti da essere scherzosamente definita (con una tipica espressione slang) as American as apple pie.

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Usa: perché vince sempre la lobby delle armi | Panorama http://www.lobbyingitalia.com/2015/08/usa-perche-vince-sempre-la-lobby-delle-armi-panorama/ Sat, 29 Aug 2015 09:24:00 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2923 Il Congresso non farà nulla per aumentare i controlli sulla diffusione delle armi da fuoco

Obama ci ha riprovato. Ma sa che è una battaglia persa. L’ennesima preghiera non verrà esaudita. La Casa Bianca può insistere quanto vuole ma Capitol Hill non cederà. Non ci sarà alcuna legge per un maggiore controllo sulle armi. Dopo la strage di Newtown nel 2012, dopo quei bambini uccisi, straziati dalle pallottole sparate da Adam Lanza, il paese era rimasto scioccato e il presidente aveva lanciato un primo appello al Congresso.

Sembrava di essere a un passo da un cambiamento storico nella società americana, pari al via libera ai matrimoni omosessuali. L’effetto è durato poco, qualche settimana. Poi tutto è tornato come prima. Tre anni e quasi 800 (ottocento) massacri dopo, nulla è mutato. E nulla muterà. Il parlamento statunitense non muoverà un dito per rendere meno facile possedere un’arma da fuoco.

La lobby delle armi
Non è servito Newtown, non è servita la strage di Charleston. Non servità neppure l’omicidio in diretta dei due giornalisti della WDBJ-TV. Nonostante lo sdegno, le decine di petizioni, l’attivismo delle associazioni per i diritti civili, nonostante le decine e decine di vittime, nulla muterà.

La lobby delle armi è troppo potente. E ha rapporti con decine di senatori e deputati. A Capitol Hill non c’è foglia che la National Rifle Association non voglia. Tutto legale, ovviamente. Tutto trasparente e alla luce del sole. Tutto registrato e denunciato. Ma fatto sta che il Congresso è sostanzialmente nelle mani dell’industria delle armi da fuoco.

Non abbiamo ancora avuto una legge sulle restrizioni sulle armi da fuoco più pericolose, e non l’avremo. Non è mai stata varata una norma che evitare che pistole e fucile vengano acquistate da persone malate di mente, e non sarà approvata. Come non vedrà la luce un provvedimento per un maggiore controllo sulle vendite. Non ci sarà perchè il Senato e la Camera dei Rappresentanti non la voterà. Troppi sarebbero i no. Non ci sarebbe maggioranza.

Non solo perché molti di questi parlamentari siano convinti che – come dice la Costituzione – ogni americano abbia il diritto di difendersi individualmente e quindi possa possedere un’arma. Non si tratta solo di aderire a un retaggio dell’Epoca della Frontiera entrato nel Dna della nazione.

Milioni di dollari per i deputati e i senatori
Qui più banalmente si tratta di soldi e consenso. In certe zone degli Usa se dici di essere contro il possesso di pistole o fucili pensano che sei un pazzo e non ti mandano più a Washington come rappresentante della comunità. Il consenso elettorale te lo devi conquistare. Non solo dicendo quello che i tuoi elettori si vogliono sentire dire, ma anche avendo i soldi per vincere le campagne elettorali.

E qui entra in campo la lobby delle armi. Che ogni anno tira fuori milioni di dollari per foraggiare un buon numero di politici. La solaNational Rifle Association ha speso circa un milione e mezzo all’anno negli ultimi quindici anni per indirizzare il voto dei congressisti. Sulla lista dei beneficiari ci sono nomi importanti.

Due candidati alla nomination repubblicana, il senatore texano Ted Cruz e quello della Florida Marco Rubio, il leader del GOP al SenatoMitch McConnell e lo Speaker della Camera John Boehner. Nomi molto importanti. Ma non ci sono solo i repubblicani. Anche i democratici ricevono sovvenzioni dalla Nra. L’ex leader del Senato Harry Reid era uno dei più accerrimi difensori delle armi.

Tra i 46 senatori che avevano votato contro maggiori controlli per il possesso delle armi, 43 avevano ricevuto soldi dalla lobby delle armi nei dieci anni precedenti.

Il condizionamento delle elezioni locali
Il loro “compito” non è solo quello di bloccare ogni possibile nuova legge restrittiva, ma anche quello di evitare che provvedimenti non direttamente collegate al possesso di fucili o pistole possano mettere in discussione la libertà di vendita e diffusione delle armi. Ai tempi della riforma sanitaria c’è stata una vera e propria battaglia al Congresso per impedire che i medici potessero chiedere ai loro pazienti se fossero o no proprietari di armi da fuoco.

La lobby ha ottenuto diverse vittorie a Capitol Hill. Ha respinto la proposta di bandire la vendita dei fucili d’assalto, ha cassato la diminuzione pe legge delle scorte nei magazzini; infine, ha fatto approvare una norma sulla reciprocità tra gli stati: se possiedi un’arma puoi portarla in un’altro stato se ci sono accordi tra le due amministrazione.

La National Rifle Association “lavora” anche a livello periferico. La lobby condiziona anche le leggi dei singoli stati e investe soldi nelle elezioni per le amministrazioni locali; finanzia le campagne per il Senato e la Camera, appoggiando i candidati amici. Che spesso, molto spesso, vincono le partita e volano a Washington.

Obama non verrà ascoltato anche questa volta.  Nessuna legge restrittiva sarà approvata. I massacri continueranno. Il Congresso non muoverà un dito. La lobby delle armi è più potente dello sdegno di una parte della nazione.

Fonte: Michele Zurleni, Panorama

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USA 2016: La stretta di Jeb Bush, anche per i lobbisti http://www.lobbyingitalia.com/2015/07/usa-2016-la-stretta-di-jeb-bush-anche-per-i-lobbisti/ Wed, 22 Jul 2015 11:00:22 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2861 Una drastica cura dimagrante per il governo federale e una stretta sull’influenza eccessiva delle lobby in Congresso che si avvalgono del lavoro di molti ex parlamentari: sono le proposte lanciate da Jeb Bush, intervenuto nel corso di un evento della sua campagna elettorale in Florida. Tra le misure invocate dal candidato repubblicano alla Casa Bianca un taglio del 10% del personale in quattro anni e il congelamento immediato delle assunzioni. Nel dettaglio, gran parte del programma di Bush – ha spiegato lui stesso – puo’ essere realizzata rimpiazzando ogni tre dipendenti federali in uscita con una nuova assunzione. Di fatto, pero’, una dichiarazione di guerra nei confronti dei lavoratori pubblici i cui sindacati gia’ affilano le armi. Anche perche’ la ricetta Bush prevede misure piu’ severe per punire e licenziare i lavoratori federali che violano le regole del Civil Service.

Ma insieme al bastone c’e anche la carota, scrive il New York Times: l’ex governatore della Florida prevede infatti incentivi economici e aumenti di salario maggiori per i lavoratori piu’ produttivi e per i manager pubblici che realizzano i maggiori risparmi riducendo la spesa pubblica. Si tratta di una ricetta in linea con la tradizionale lotta al «big government» della destra americana, e molto distante dalla proposta di Hillary Clinton che punta su un aumento della spesa pubblica, anche per il welfare e con l’obiettivo di ridurre le ineguaglianze sul fronte del reddito.

Ma Bush promette battaglia anche ai tantissimi ex membri del Congresso che una volta finito il loro incarico a Capitol Hill vi tornano nella veste di lobbisti: la proposta dell’ex governatore della Florida e’ quella di prevedere sei anni prima che un ex deputato o senatore possa esercitare quel tipo di attivita’.

Fonte: On-line News

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Lobbies, che passione. Le università americane si aprono ai lobbisti, quelle italiane sono ferme all’anno zero (HuffingtonPost.it) http://www.lobbyingitalia.com/2015/06/lobbies-che-passione-le-universita-americane-si-aprono-ai-lobbisti-quelle-italiane-sono-ferme-allanno-zero-huffingtonpost-it/ Wed, 10 Jun 2015 14:32:34 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2816 (Luigi Ferrata) Negli ultimi anni le Università americane hanno aumentato in maniera considerevole l’attività di lobbying nei confronti del Congresso e soprattutto verso il governo arrivando ad aprire uffici dedicati anche a Washington, assumendo al proprio interno lobbisti o facendosi appoggiare da società di consulenza specializzate. Gli atenei statunitensi si sono resi conto dell’importanza di ingaggiare in maniera proattiva il decisore politico, tenendo conto della necessità di presentare le proprie posizioni e proposte su tutti i temi di interesse. In sostanza anche le Università operano in un settore altamente regolato e hanno compreso che le decisioni politiche che influiscono su di esse sono destinate ad aumentare sia qualitativamente che quantitativamente.

In particolare, è opportuno notare che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, un’attività di relazioni istituzionali svolta dalle Università è solo in parte diretta ad accaparrarsi i finanziamenti migliori, o ad azioni dirette ad incidere su riforme universitarie o sul trattamento del personale docente. In realtà l’azione di lobbying si concentra anche su altri temi come quelli fiscali, per chiedere esenzioni e deroghe specifiche, si pensi semplicemente a detrazioni fiscali per studenti o per gli immobili, o quelli legati a politiche di welfare per gli studenti. Si tratta evidentemente di questioni che possono avere grande impatto sia sul conto economico, sia sulla qualità dell’insegnamento ed infine sull’attrattività dell’Università stessa.

Navigando sui siti Internet di prestigiosi atenei si nota che è effettivamente prevista una pagina dedicata all’attività di Government relations in cui sono specificate le regole sul Federal lobbying e le prescrizioni a cui è necessario attenersi, ad esempio la redazione di report che rendano trasparente l’attività svolta, nei confronti di chi e per quale ammontare. Inoltre le Università sottolineano chiaramente la differenziazione esistente tra l’attività di lobbying da loro svolta e la ricerca accademica. Se da un lato l’attività di lobbying è diretta ad influenzare specificatamente l’adozione di una normativa in linea con gli interessi e gli obiettivi dell’Università, dall’altro la normale attività di ricerca accademica, in cui vengono prese posizioni sui temi più svariati non va confusa con la precedente e rappresenta la posizione degli accademici sul tema, ma non punta a cambiare, almeno in maniera diretta, la legislazione su quel tema specifico.

Le cifre in gioco sono ingenti, secondo alcuni dati raccolti da Opensecrets del Centre for Responsive Politics, una delle principali ONG dirette a monitorare e tracciare i finanziamenti alla politica nell’attività di lobbying, le maggiori facoltà americane, tra cui, solo per citarne alcune, Harvard, University of California, Texas University e New York University nel biennio 2013 – 2014 hanno tutte speso cifre superiori al milione di dollari e sono state spesso ricompensate con l’accesso ad importanti finanziamenti. Detto ciò sarebbe tuttavia sbagliato sostenere che le Università che hanno vinto i grant più consistenti non li meritassero. Semplicemente, chi ha maggiori contatti con l’amministrazione ha maggiore visibilità e può operare con maggiore tempismo, rispetto a chi ha un atteggiamento solo reattivo.

In Europa il ruolo delle Università nell’interazione con il mondo politico non sembra essere paragonabile al modello statunitense. Gli Atenei iscritti al registro della trasparenza di Brussels, che include tutti i portatori di interesse accreditati presso le Istituzioni comunitarie, sono ancora molto pochi a dimostrazione del fatto che in Europa non si è ancora compresa fino in fondo l’importanza di rapportarsi ai decisori.

Tuttavia anche nel nostro continente qualcosa sta cambiando. La stampa britannica ha dato ampio risalto alla missione di vero e proprio lobbying effettuata da 50 Università inglesi a Brussels svoltasi ad aprile del 2015 e diretta a contrastare il trasferimento dei fondi alla ricerca universitaria di Horizon 2020 ad altri programmi comunitari. I rettori si sono recati in Belgio, alla stregua di un qualsiasi altro lobbista, per presentare in maniera trasparente alle Istituzioni posizioni e proposte. È evidente che tale rapporto con Brussels è destinato a crescere ed a consolidarsi anche negli anni futuri. Infine in Italia siamo all’anno zero, sembra che le Università agiscano solo tramite la Conferenza dei Rettori, organo che potrebbe presentare forti criticità dal momento che si fa fatica a comprendere come sia possibile fare una sintesi ed adottare una posizione comune di fronte al decisore, considerando le profonde differenze e gli interessi ed obiettivi diversi tra le varie Università. Probabilmente ad alcune Università, ed evidentemente alle migliori, converrebbe agire in proprio per quanto riguarda l’attività di relazioni istituzionali.

Fonte: Huffington Post

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Lobby, negli USA scandali a raffica ma è nel Dna del paese (Repubblica.it) http://www.lobbyingitalia.com/2015/03/lobby-negli-usa-scandali-a-raffica-ma-e-nel-dna-del-paese/ Mon, 16 Mar 2015 14:12:31 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2732 “Ero coinvolto profondamente in un sistema di corruzione. Corruzione quasi sempre legale”. Quando alla fine del 2010 – dopo aver scontato quattro anni di carcere e aver lavorato per sei mesi a 7,5 dollari l’ora in una pizzeria – Jack Abramoff chiuse i suoi conti con la giustizia, affidò a quelle poche parole il riassunto di cosa fosse il lobbyism negli Stati Uniti. Il pentimento (con relativo libro di denuncia) del più famoso lobbista americano degli ultimi venti anni – al centro di un altrettanto famoso scandalo che avrebbe coinvolto 21 potenti uomini della Washington politica (compresi un paio di funzionari della Casa Bianca di George W. Bush) – diede il via a feroci polemiche, accuse e contraccuse, editoriali indignati e (spesso) ipocriti, su una delle attività che più condizionano (nel bene e nel male) la vita politica e finanziaria del più potente paese del pianeta. Attività del tutto legittima e legale ma che ha offerto spazio, nei dettagli di regole complicate, anche ad azioni che hanno sfiorato la soglia della criminalità.

Negli Stati Uniti il lobbismo nasce insieme alla Costituzione e al free speech (protetto dal Primo Emendamento che tutela in generale la libertà di espressione e che vieta al Congresso di approvare leggi che limitino “il diritto che hanno i cittadini di inoltrare petizioni al governo”) ed è un lavoro (ben remunerato) a tempo pieno grazie al quale i cosiddetti ‘gruppi d’interesse’ (politici, religiosi, morali e soprattutto commerciali) fanno pressione sul Congresso per approvare questa o quella legge, per difendere posizioni acquisite, per condizionare una scelta piuttosto che un’altra. Dagli anni Settanta è un fenomeno in costante crescita e oggi a Washington ci sono oltre 13mila lobbisti registrati come tali, più diverse altre migliaia che lavorano sotto-traccia e fanno spesso il lavoro ‘sporco’ e più rischioso. Con un volume di affari che, nel corso degli ultimi decenni, è cresciuto in modo esponenziale e che nel 2010 ha raggiunto la cifra record di 3,5 miliardi di dollari. Un’attività, quella di lobbying, che è talmente connaturata al sistema politico-costituzionale degli Stati Uniti da essere scherzosamente definita  (con una tipica espressione slang) as American as apple pie, americana come la torta di mele.

Ma chi sono i lobbisti? In gran parte avvocati (o comunque persone uscite dalle Law School e dalle Business School dei migliori college degli Usa), assoldati da famose corporation (JP Morgan ha un team che costa oltre tre milioni di dollari all’anno), da grandi studi legali, sindacati e organizzazioni varie, ma soprattutto da società che nascono ed operano con l’unico scopo di fare lobbismo. La loro attività è riconosciuta da una legge bipartisan del 1995 (Lobbying Disclosure Act) – varata dopo una serie di scandali e azioni che vennero definite “poco chiare” – e i lobbisti (sulla carta tutti) devono registrarsi presso la Rules Committee, la commissione delle regole del Congresso, hanno un badge permanente che gli permette di girare tranquillamente negli uffici di deputati e senatori a Capitol Hill (può essere revocato in caso di violazioni di legge) e sono identificati come “gruppi portatori di interesse da tutelare”, un giro di parole che rende bene l’idea.

Un lavoro che ha come interlocutori membri del governo, parlamentari ed amministratori pubblici (a livello federale, statale e locale) e che è, o meglio dovrebbe essere, ben distinto da chi lavora in una campo contiguo come quello delle public relations. Ed è qui, quando questi due mondi si intersecano, che si trovano i confini tra il lobbismo ‘buono’ (e assolutamente legale) e il mondo ‘grigio’ del sottobosco politico-affaristico che, ogni tanto, sfocia in un grande scandalo come quello di Abramoff. Un sottobosco che (stando ad alcuni studi recenti) arriva ad impiegare una manodopera di quasi centomila persone e dove il cosiddetto metodo delle ‘tre B’ (booze, broads, bribes, ovvero alcol, donne e bustarelle) non è stato mai del tutto abbandonato.

Un mondo che è stato combattuto in epiche battaglie da uomini come Ralph Nader, lo scrittore-avvocato-attivista (e cinque volte candidato senza speranza alla Casa Bianca) diventato un simbolo della difesa dei consumatori e una decennale spina nel fianco delle lobby anche più potenti. Un mondo (e i critici non mancano mai di ricordarlo) che deve il suo nome all’atrio degli alberghi: un posto visibile a tutti ma che nasconde qualche inconfessabile segreto.

Fonte: Alberto Flores D’Arcais – Repubblica.it

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Addio a Thomas Boggs, il più grande. “Tutti hanno bisogno di un lobbista” http://www.lobbyingitalia.com/2014/09/addio-a-thomas-boggs-il-piu-grande-tutti-hanno-bisogno-di-un-lobbista/ Tue, 16 Sep 2014 22:16:48 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2435 Thomas Hale Boggs Jr., l’erede di una dinastia politica che ha costruito una delle più importanti law & lobby firm di Washington, è moro lunedì per un attacco di cuore. Aveva 73 anni.

Nel suo portafoglio clienti aveva società quali AT&T Corp., General Electric Co. e Goldman Sachs Group Inc., e dal 1998 la sua Patton Boggs ha fatturato un totale di $525 milioni solo per attività di lobbying, il 20% più della seconda in classifica, secondo i dati estratti dal Lobbying Register americano. La sua tariffa da “hired gun” era di $550 l’ora.

Ma la reputazione della But Patton Boggs dipendeva più dalla personalita di Thomas Boggs che dall’enormità del fatturato. La sua infatti era una storia di successo, e Boggs non si vergognava affatto di raccontare ai media i retroscena del potere.

Conosciuto col nickname di “Tommy,” Boggs è stato l’avangurdia dei lobbisti che hanno conquistato Washington nella parte finale del XX secolo. Boggs usò le sue relazioni e il suo know-how per fondare la Patton Boggs nel 1966, dando il suo imprinting ad una law firm costituita quattro anni prima da Jim Patton e George Blow. “Ho fatto dei colloqui con i più importanti studi di  Washington e ricevuto alcune offerte”, raccontò Boggs nel 2012. “Ma pensai fosse più divertente entrare in uno studio agli inizi, e si è dimostrata un’ottima decisione. Invece di diventare parte di un grande studio, abbiamo costruito un grande studio”. “Mio padre pensava fossi pazzo – raccontò al Washingtonian – ma mi piace la sfida di inizare qualcosa di nuovo”.

Al momento dell’avvio della sua attività, Boggs aveva appena lasciato l’amministrazione di Lyndon B. Johnson, doveva aveva lavorato a stretto contatto col presidente.

La Patton Boggs crebbe rapidamente, arrivando ad occupare un complesso immobiliare di Georgetown, che divenne il quartier generale internazionale della società, mettendosi in luce quando Boggs ottenne nel 1979 (amministrazione Carter, democratico…) un prestito federale da 1,5 miliardi di dollari per la Chrysler.

Ma il boom arrivò nel 1992, con l’elezione di Bill Clinton, che nominò uno dei soci di Patton Boggs – Ronald H. Brown – Segretario al Commercio, mentre un altro – Lanny J. Davis – fun nominato consigliere speciale del presiCon l’occupazione repubblicana del Congresso nel 1994 Boggs cambiò strategia, assumendo molti avvocati/lobbisti in arrivo da quel mondo, ed alcuni danno anche a lui parte della colpa per le leggi sulla finanza che hanno poi portato alla crisi del 2008.

Negli ultimi anni Boggs era diventato chairman emeritus della Squire Patton Boggs, a seguito della fusione con la law firm internazionale Squire Sanders, e dopo un periodo tra qualche problema (relativo) passato per una revisione compelta della struttura, la società ha ripreso a gonfie vele, anche grazie all’attività di Boggs.

“Tutti hanno bisogno di un lobbista”, raccontò allo Washingtonian. “Tutti hanno bisogno di vedere i propri bisogni tradotti in ciò che i policymakers posso comprendere”.

Boggs era figlio di un deputato Thomas Hale Boggs (D-La.), che fu anche House majority leader nel 1971 e 1972. Suo padre e il deputato Nick Begich (D), padre dell’attuale senatore dell’Alaska Mark Begich (D), scomparvero durante un viaggio aereo in Alaska, e i loro corpi non furono mai trovati.

Dopo l’incidente, la madre di Boggs, Lindy, vinse le elezioni suppletive sostituendo il marito alla House of Representatives, e rimanendo in carica per quasi 20 anni.

Nel 2012 Tommy Boggs spiegò come la politica fosse parte della sua vita sin da giovane.

“La mia sorella più grande, Barbara, usava dire ‘Se andiamo a casa di amici vediamo antichità e meraviglie sulle pareti, ma a casa nostra la nostra specialità era vedere l’ex Speaker Sam Rayburn (D-Texas), Jack Kennedy, [ex Vice President] Hubert Humphrey. I politici di questa città erano la nostra collezione”. E infatti, Barbara divenne sindaco di Princeton (NJ), mentre la sorella più piccola Cokie fa la giornalista politica.

Il suo ex compagno di scuola, il Sen. Patrick Leahy (D-Vt.) ha ricordato come fosse il lobbista Boggs. “Veramente, veramente, efficiente. Con un attributo infallibile: ti diceva sempre la verità, anche se era qualcosa che non volevi sentire”.

Il leader della maggioranza democratica Harry Reid (D-Nev.) ha aperto la sessione parlamentare di lunedì con un tributo a Boggs.

“Tom Boggs era un’istituzione in questa città. Washington è un posto migliore perché Tommy Boggs è passato di qua”.

Un’altra qualità di Boggs era però certamente la sua capacità di raccogliere fondi per il Partito Democratico, anche se spesso interveniva per i Repubblicani. Ad esempio quando il suo collega lobbista Haley Barbour si candidò a governatore del Mississippi nel 2003, Boggs raccolse fondi per il Partito Repubblicano.

“Certamente supporto i democratici, ma quando vedo un repubblicano che penso sia davvero competente e bravo, un mio amico come Haley Barbour, tendo ad aiutarlo”, disse alla CNN nel 2003.

Boggs fu in prima fila lungo la crescita dell’industria dell’advocacy a Washington, iniziando la sua attività quando all’epoca nel DC c’erano sì e no solo 100 persone che identificano sé stesse come “lobbisti”.

Nel 1970 – aveva 29 anni – tentò momentaneamente di seguire le orme paterne in politica, ma la campagna elettorale in cui fu sconfitto lo cambiò, indirizzandolo verso quello che sarebbe diventato il suo percorso di successo.

“La cosa migliore che mi sia mai accaduta”, spiegò Boggs a Carl Bernstein (uno dei due giornalisti del Watergate) nel 2000, “fu essere battuto quando mi candidai per il Congresso”.

Fonti: The Hill, WSj, Washington Post

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USA, i governi stranieri fanno lobbying con i think tank (NY Times) http://www.lobbyingitalia.com/2014/09/usa-i-governi-stranieri-fanno-lobbying-con-i-think-tank-ny-times/ Mon, 08 Sep 2014 21:58:54 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2341 Quando i governi e le entità straniere finanziano i think thank c’è da preoccuparsi? Ne è convinto il New York Times, che negli ultimi giorni ha pubblicato i risultati di un’inchiesta sui soldi stranieri ai più autorevoli lobbisti americani, dal Brookings Institution all’Atlantic Council. Soldi arrivati da Paesi stranieri interessanti a influenzare la politica degli Stati Uniti in vari campi, dall’energia al commercio internazionale, alla difesa. Centri di ricerca noti per la loro autorevolezza e indipendenza che operano, a volte, anche come «lobbisti occulti»?

LO STRANIERO E IL LOBBISTA

Cinque milioni di dollari dalla Norvegia per ottenere il raddoppio degli aiuti al paese, ad esempio. I think tank non rivelano il rapporto che sussiste con i loro finanziatori, né gli accordi che stringono con chi tira fuori i soldi. E questo, secondo il NYT, non basta: in realtà molti tendono a non essere registrati come finanziatori, sfuggendo così ad ogni controllo di massima. L’inchiesta parla dei maggiori think tank in azione a Washington, dal Brookings Institute all’Atlantic Council. Ognuno di essi prende denari per organizzare convegni, forum, incontri privati o lavorare a dati, presentazioni, tesi che interessano al committente. La maggior parte del denaro proviene da paesi orientali od asiatici, oppure da produttori di petrolio. Gli Emirati Arabi, uno dei maggiori finanziatori del Centro per gli studi strategici e internazionale, ha tirato fuori dalle saccocce la bella cifra di un milione di euro per costruire la nuova sede del think tank. Evidentemente devono essere soddisfatti del servizio. Il Qatar è arrivato a quattro milioni con Brookings, di cui ha finanziato la sede appena aperta nel paese. E c’è chi fa notare che tutto questo si riverbera sull’attendibilità dei lavori promossi dai vari think tank, nonostante in base a loro studi e dati si prendano decisioni che valgono poi per i cittadini americani. In questa infografica pubblicata dal NYT si possono ammirare i vari contributi dei governi stranieri a nove think tank “indipendenti”:

La tabella del NYT sulle lobby

La versione originale si trova qui.

COSA C’È SCRITTO NEI CONTRATTI

Scrive il New York Times che spesso i governi sono piuttosto espliciti su quello che vogliono. «Per i rappresentanti diplomatici di piccoli paesi spesso è difficile anche soltanto riuscire ad arrivare a discutere con i rappresentanti delle istituzioni americane. I think tank organizzano anche questo», afferma un rapporto interno del governo norvegese. E in effetti, un’occasione di socializzazione con il nemico è imperdibile. Si lavora in due modi: o si pagano i think tank per spingere l’agenda del paese di riferimento, oppure li si sfrutta per ottenere dati, informazioni, studi e lavori che possano influenzare il dibattito politico. Dal 2011 almeno 64 tra governi stranieri o istituzioni estere ha pagato una tra le 28 entità che si occupano di lobbying a Washington, per un esborso complessivo di 92 miliardi di dollari in quattro anni: ma il conto, avverte il quotidiano, è necessariamente al ribasso visto che la maggior parte di questi finanziamenti non è registrabile o è registrata attraverso prestanome. Uno dei documenti sui finanziamenti ai think thank pubblicati dal Nyt:

La tabella completa dei finanziamenti è qui. Secondo il quotidiano gli accordi stretti tra i lobbisti e i governi stranieri potrebbero violare il Foreign Agent Registration Act del 1938, la legge federale che combatteva la propaganda nazista negli Stati Uniti. La legge obbliga chi paga per influenzare la politica Usa a registrarsi come “agente straniero”. E in effetti c’è chi lo ammette candidamente.

LA QUESTIONE COMPLETA

Massimo Gaggi sul Corriere della Sera ha commentato ieri i risultati delle analisi del NYT:

Con tanti miliardi di dollari e tanti personaggi di prestigio in circolazione, non c’è da stupirsi che a volte i confini tra le società di questi professionisti e centri di ricerca spesso guidati da economisti, ex diplomatici o personaggi di elevato rango politico, possano in qualche punto confondersi. Lo spettroagitato dal giornale americano è quello del«denaro straniero» ma Washington è pursempre la capitale di un impero, anche se indeclino, ed è abbastanza normale che Paesiche vogliono far sentire laloro voce al di là di quelloche possono fare le loro ambasciate,puntino anche suithink tank.

Serve agli arabi per premere sulla politicaenergetica Usa?

La Norvegia,come scrive il Times cerca difar cambiare idea al governosulle politiche per l’Articoattraverso la Brookings? Forse è così. Ma difficilmente il paper di qualche esperto farà cambiare rotta alla Casa bianca o al Congresso su questioni cruciali. Spesso quei soldi servono arisolvere problemi molto più terra-terra: trovareuna sede di prestigio nella quale il ministrostraniero in visita nella capitale dell’imperopossa lasciare un segno, parlandoin istituto davanti a un pubblico sussiegoso.

 

Fonte: Next Quotidiano

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