Al maggio 2015, almeno 20 Paesi in tutto il mondo hanno una regolamentazione del lobbying, la cui portata ed efficacia varia da caso a caso, a livello nazionale: Australia, Austria, Brasile, Canada, Cile, Francia, Georgia, Germania, Ungheria, Irlanda, Israele, Lituania, Macedonia, Montenegro, Perù, Polonia, Slovenia, Taiwan, Regno Unito, Stati Uniti (aggiungiamo anche i progressi in Messico, Colombia, Nigeria, Ucraina). Sebbene la maggior parte di questi Paesi siano ad alto livello di industrializzazione, ogni regolamentazione presenta aspetti che i 38 standard mirano a mitigare: tra tutti, gli scandali relativi alla corruzione che portano le ong e i centri di ricerca ad interrogarsi e interessarsi sempre più sulle normative nazionali in tal senso.
È ben specificato che la regolamentazione non è che uno strumento per raggiungere l’obiettivo del maggior livello di eticità delle attività di public affairs; è infatti necessaria anche la disponibilità da parte di decisori e gruppi di pressione a rispettare nel concreto le norme, in modo tale da creare un ambiente di decisione pubblica etico e “fair”.
Princìpi guida
I primi standard riguardano le definizioni di lobbying, decisore pubblico e lobbista. Ne vengono escluse le interazioni tra cittadini e pubblici ufficiali riguardo i loro interessi privati, e tra pubblici ufficiali stessi (decisori pubblici, agenti diplomatici o rappresentanti di Stati stranieri) nell’attuazione delle proprie funzioni pubbliche.
Altra sezione riguarda le norme sulla trasparenza. La registrazione deve essere obbligatoria, periodica, prevedere un’attività di reporting delle attività e degli incontri; devono essere pubblicate una serie di informazioni da parte dei lobbisti, tra le quali i documenti presentati e i finanziamenti alla politica; i dati devono essere accessibili, aperti e comparabili; il carico burocratico deve essere minimo, sia per il pubblico che per il privato. È consigliato che i decisori pubblici e gli enti decisionali pubblichino le proprie informazioni, che devono essere chiare, libere ed esaustive.
Ulteriori norme dovranno essere previste per raggiungere il maggior livello possibile di integrità. Ai decisori pubblici è raccomandata la sottoscrizione di un codice di condotta di cui sono definiti nello specifico i punti (tra questi, le norme di prevenzione di conflitto di interessi); di rispettare un periodo di cooling-off di almeno due anni prima di lavorare come rappresentante di interessi privati, per prevenire il fenomeno delle revolving doors; di dichiarare, nel caso inverso di provenienza dal settore privato, di non difendere interessi di parte una volta nominati/eletti come decisori pubblici. Norme sull’integrità sono previste anche per i lobbisti o rappresentanti di interesse: anche qui un codice di condotta, standard comportamentali e auto-regolazione.
Partecipazione ed accesso: anche qui sono previste norme che puntano alla totale disclosure del settore e che già in alcune democrazie sono attuate, seppur non con l’efficacia richiesta da TI. Sono auspicati il diritto alla partecipazione per ogni tipo di gruppo interessato a un processo decisionale pubblico (anche non organizzato con strutture di lobby), un processo di consultazione pubblico precedente a qualsiasi iniziativa decisionale, la par condicio sia nell’accesso che nella partecipazione alla formazione della decisione, la giustificazione di eventuali rifiuti a richieste portate avanti da gruppi di interesse. Riguardo gruppi di esperti, il legislatore deve prevedere una composizione interna bilanciata includendo tutti i diversi interessi.
Riguardo il sistema di controllo, sono raccomandati precisione e tempismo nelle attività di monitoraggio delle attività di relazioni istituzionali; un meccanismo di ricorsi aperto a tutti; una serie di sanzioni, efficaci proporzionate e dissuasive, per la violazione di norme sul registro. Non è però previsto che tipo di ente debba assumere il controllo sulle attività di lobbying: un ente già esistente, o un organo ad hoc?
Infine, relativamente al quadro regolatorio generale, è sottolineato l’interesse per il contesto locale sia dal punto di vista territoriale (se si è in presenza di accentramento o decentramento governativo, o se c’è un alto tasso di corporativismo) che sociale (tasso di professionalità dell’attività di lobbying, gruppi sociali presenti e attivi). La revisione annuale dei risultati della regolamentazione dal punto di vista del tasso di eticità e concorrenza dell’intero mercato nazionale è l’ultimo step per garantire un quadro regolamentare completo per la disciplina del lobbying.
Link allo studio di Transparency International e alle opinioni in merito della Sunlight Foundation.
]]>Le organizzazioni attualmente iscritte nel registro Ue per la Trasparenza sono 7.821: il 75% di queste, circa 4.879, cerca di favorire gli interessi delle aziende. Mentre il 18 % è rappresentato dalle Ong e il 4% dai think tank e solo il 2% dalle autorità locali. Nella top list delle imprese che spendono di più per fare lobby figurano la Microsoft, Exxon Mobil e la Shell con una spesa che varia tra i 4,5 e i 5 milioni di euro, dedicato a questo scopo. Seguite subito dopo dalla Deutsche Bank AG, la Dow Europe GmbH e Google: quest’ultima ha già avuto 29 incontri con le istituzioni europee in questi mesi. Ma anche Ong come Greenpeace e il Wwf si sono incontrate diverse volte con l’esecutivo comunitario e tra le lobby presenti a Bruxelles BusinessEurope, la General Electric Company (GE) , Eurocommerce e Airbus group.
«Le organizzazioni con un più alto budget per fare lobby hanno un grande accesso , in particolare nel settore finanziario, digitale ed energetico» osserva Daniel Freund di Transparency International. Le imprese che hanno dichiarato almeno 900mila euro di spese per lobby sono quelle che hanno ottenuto più di dieci colloqui ad alto livello con la Commissione Europea, in base al report. Tra i paesi che hanno ottenuto più incontri in questo periodo, al primo posto spicca il Belgio, poi la Germania, l’Inghilterra, la Francia e l’Italia. Le organizzazioni italiane registrate sarebbero 597. Per ora, tra le italiane, la Confindustria avrebbe ottenuto più appuntamenti con rappresentanti istituzionali Ue, poi l’Enel e l’Eni. In generale le organizzazioni italiane sembrano spendere meno per le attività di lobby rispetto ad altri paesi e si focalizzano in particolare sul settore energetico.
Il clima e l’energia, il lavoro e la crescita, l’economia digitale, i mercati finanziari e i trasporti sono i settori che attraggono di più i lobbisti di Bruxelles. Mentre i commissari Katainen, Hill e Oettinger hanno finora avuto pochi confronti con la società civile, tra il 4% e l’8 per cento. In particolare gli ambiti dei mercati finanziari e dell’economia digitale sono presi più di mira dalle imprese. Le nuove misure di trasparenza Ue sono però secondo l’analisi di Transparency International ancora poco seguite: l’80% delle organizzazioni presenti nel registro per la Trasparenza non ha riportato pubblicamente un solo incontro con commissari Ue o funzionari. Inoltre su 30mila funzionari che lavorano alla Commissione Europea neppure 300 sono soggetti alle nuove misure di trasparenza. Le nuove regole di trasparenza della Commissione riguardano solo l’1% dei funzionari e il 20% delle organizzazioni lobbistiche. Su questo punto Carl Dolan, direttore di Transparency International ha le idee chiare «Le istituzioni europee dovrebbero pubblicare “un’impronta legislativa” un documento pubblico con tutti gli incontri con le lobby e altri contributi che abbiano in qualche modo influenzato le politiche e le legislazioni».
Tra i problemi principali riscontrati dall’organizzazione anticorruzione vi è anche la carenza nella qualità dei dati raccolti dal registro per le lobby che rimane per ora su base volontaria: molte organizzazioni rimangono ancora fuori da questo database, tra queste quattordici su venti dei più grandi studi legali mondiali tutti con un ufficio a Bruxelles, come Clifford Chance, White&Case o Sidley Austin. Mente undici di queste sono registrate ad esempio a Washington DC dove vige l’obbligo di iscriversi. «La maggior parte delle informazioni che i lobbisti volontariamente compilano nei file del registro risultano incomplete, poco accurate o totalmente insignificanti» ha affermato Freund. Secondo l’organizzazione oltre il 60% delle organizzazioni che hanno fatto pressione sulla Commissione Ue per l’accordo commerciale tra Ue ed USA non ha dichiarato queste attività in maniera adeguata. Per Transparency International si rendono indispensabili alcuni passi in avanti che riguardino l’obbligatorietà del registro delle lobby e l’introduzione di “un’impronta legislativa” , ossia una testimonianza dell’influenza dei lobbisti su una parte di legislazione.
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Ci hanno provato cinquanta volte, dalla nascita della Repubblica a oggi, con altrettanti disegni di legge. Ma non c’è mai stato verso: qualche discussione in commissione, qualche passaggio in Aula. Nulla da fare: il velo che nel nostro Paese copre e protegge il lobbying non è mai stato alzato. E i gruppi di pressione che cercano di orientare l’attività politica, di influire sui processi di formazione delle decisioni pubbliche, si sono sempre mossi nell’ombra, in un’opacità poco tollerabile per le istituzioni democratiche. Parte da questa fotografia “Lobbying e Democrazia. La rappresentanza degli interessi in Italia,” il report preparato dalla sezione nostrana di Transparency International, l’associazione che in tutto il mondo lotta contro la corruzione.
I numeri e l’etica pubblica. A voler utilizzare la statistica, i dati sono allarmanti: il livello di accesso da parte dei cittadini italiani alle informazioni sui gruppi di pressione è valutato intorno all’11%, nulla. Mentre gli “standard etici” raggiunti nel rapporto tra lobbisti e decisori pubblici arriva al 27%: tre quarti delle loro “frequentazioni” sono fuori dai canoni dell’etica pubblica. E va ancora peggio se ci si sofferma a considerare l’eguaglianza di rappresentanza e partecipazione ai processi decisionali. Qui, altro che democrazia: solo il 22% delle scelte pubbliche riesce a raggiungere, in questo contesto, standard adeguati.
Il lobbyng ad personam. Il punto centrale indicato da Transparency International è proprio la mancanza di regolazione, l’assenza di una legge che consenta, per lo meno, di tracciare i binari sul quale far muovere la rappresentanza degli interessi. E se si può parlare, senza pericolo di smentite, di un “caso Italia” – siamo quasi gli unici nel mondo occidentale a non avere una legge in materia – allo stesso tempo bisogna evitare di confondere ciò che appare da ciò che accade: perché anche se per il nostro ordinamento i lobbisti non esistono, la realtà è diversa: fatta di un lobbying ad personam che troppo spesso, basta ricordare le inchieste su Expo 2015 o sulla P4, sfocia nella totale noncuranza delle leggi e dell’interesse pubblico.
Il modello europeo. Basterebbe alzare un attimo gli occhi, verso Bruxelles. Perché in Europa, un elenco dei gruppi di pressione esiste eccome. Si chiama Registro per la Trasparenza, ed è stato adottato nel 2011 dalla Commissione Europea: a ottobre 2014, erano censiti 612 lobbisti italiani. E basta scorrere i nomi per rendersi conto che al “traffico di influenze” partecipano tutti: associazioni, Ong, rappresentanti delle industrie che si occupano di telecomunicazioni, energia, tabacco. Poi le fondazioni bancarie, le aziende farmaceutiche. Interessi di parte, tutti legittimi: ma che sono costretti, da un vuoto normativo, a muoversi alla luce del sole in Europa ma nell’ombra delle Aule parlamentari italiane.
Virtuosi nel deserto. Qualche esempio virtuoso esiste comunque nel nostro Paese. Bisogna abbandonare il livello statale e passare a quello regionale: in Toscana, Molise e Abbruzzo esistono dei registri, in queste regioni il lobbying non è più un’attività che si fa a porte chiuse. Nella consapevolezza che rendere trasparente “chi chiede cosa” aiuta a separare la rappresentanza legittima degli interessi dall’alveo concettuale della corruzione. Insomma, fare una legge è possibile: ad oggi le proposte in questo senso presentate in Parlamento sono nove e lo stesso governo Renzi definisce come una sua priorità la messa a punto di una normativa efficace.
Cinque passi per una legge. Infine, le proposte di Transparency International. Si parte dall’istituzione, da parte del governo, di un registro pubblico dei lobbisti, garantito da un’autorità super partes. Poi l’apertura al pubblico del processo legislativo, soprattutto nelle prime fasi, quando vengono raccolte quelle “informazioni” che poi orienteranno l’iter delle leggi. Poi, l’obbligo per i parlamentari di rendere pubblici i dettagli dei loro incontri con i lobbisti: basta bar e ristoranti al centro di Roma o le sale d’attesa degli aeroporti. Ancora: l’adozione del Freedom of Information Act e la regolamentazione del “Revolving Doors”: impedire, per un determinato periodo di tempo, che chi ha fatto parte delle istituzioni possa poi passare senza soluzione di continuità alla rappresentanza di interessi particolari. Sfide difficili, ma alla portata di una democrazia moderna e matura. Ovvero quella che vuole evitare che i gruppi di pressione diventino il fattore dominante del sistema politico.
Fonte: Carmine Saviano – Repubblica.it
Transparency International Italia (Tii) ha messo per la prima volta un punto fermo su questa complessa problematica scegliendo una modalità poco appariscente. Ha riunito per mesi i maggiori esperti di lobbismo, per capire quanto davvero pesino i rappresentanti dei vari settori, che accesso abbiano alle informazioni necessarie, quali regole siano loro necessarie e quanto robusta sia la loro etica. Il tutto per sbarrare la strada a faccendieri di diverse carature e dalle fedine penali di varia lunghezza. Da questo lavoro, Transparency Italia ha tratto il report «Lobbying e democrazia» che sarà presentato e analizzato domani a Roma (in via della Mercede 55, alle ore 10,30) dai due fronti: professionisti del settore e politici.
Talmente sconosciuto è il mondo delle lobby italiane che ancora oggi l’unico riferimento resta il Registro europeo per la trasparenza che riporta 612 iscrizioni italiane. Sappiamo così che il gruppo più consistente è rappresentato da 138 Ong dalle finalità più varie, seguito dal pattuglione di 128 Associazioni di categoria e 76 tra imprese e gruppi. Suddividendo i settori in cui sono maggiormente attivi i lobbisti italiani a Bruxelles, in testa c’è l’Ambiente con 353 rappresentanti, anche se sommando quelli di Imprese (293) e Ricerca (290), risulta una falange di quasi 600 incaricati.
Esistesse nel nostro Paese un identico registro, sapremmo molto di più su come vengono costruite o modificate le leggi, mentre i media potrebbero raccontare correttamente il lavoro dei lobbisti. Un lavoro a volte paziente, che somma competenze vere a quelle non sempre rassicuranti dei politici (come nel caso dei “farmaci orfani”, salvati dai tagli ai fondi pubblici); ma anche fatto di incursioni fulminee, lanciate nottetempo, per stravolgere il senso di una norma con un comma aggiunto o cancellato (ad esempio la lobby dei taxisti).
È così che il 70% degli italiani finisce col ritenere che il governo sia guidato in larga misura, se non del tutto, da poche grandi organizzazioni che agiscono unicamente nel loro interesse (Barometro globale sulla corruzione di Transparency International, 2013). Naturalmente le cose non stanno così, anche se molte istituzioni – partiti in testa – e media a caccia di facili sensazionalismi nutrono quella percezione che spinge l’Italia in basso nelle classifiche mondiali, evitando ogni chiarezza nei rapporti tra politici, enti, burocrati, amministratori e gli interlocutori espressione di pezzi della società civile.
Persino i 5 stelle hanno tentato di mettere mano al tema, scoprendo la inafferrabilità del sistema di rilasci dei badge d’accesso alla Camera. Informazione peraltro inutile, visto che non c’è obbligo di registrare i nomi di chi partecipa agli incontri né su quali temi. Quella che scarseggia, alla fine, è la volontà di entrambe le parti di rendere trasparente il rapporto e così il Paese opaco brulica di discreti ristoranti e di salotti riservati oltre che politicamente trasversali. C’è da tremare, pensando al 2017, quando i partiti saranno a secco di fondi pubblici, mentre tardano le barriere che mettano fuori gioco i “facilitatori” dalla mazzetta facile.
Delle sette raccomandazioni firmate Transparency Italia per disciplinare il lobbismo, cinque si riferiscono ai passi normativi necessari, una invita gli operatori a darsi una efficace autoregolamentazione e l’ultima è un augurio di rinascita del giornalismo investigativo, oggi in stato d’abbandono. E il questionario fatto riempire da una ristretta e qualificatissima cerchia di esperti e professionisti attivi nel cuore del sistema legislativo e burocratico italiano, emergono i tre punti da migliorare – e di molto – per dare un futuro al settore: la trasparenza nell’azione, l’integrità di chi opera, la parità nell’accesso ai processi decisionali pubblici. Tra pochi mesi, questo lavoro di analisi verrà messo a confronto con studi analoghi svolti da Transparency in altre regioni europee, per aggiornare lo stato dell’arte.
«Il principale problema legato al lobbying è la mancanza di trasparenza – conferma Virginio Carnevali, da febbraio presidente di Transparency Italia – poiché resta difficile sapere chi influenza chi e su quali temi. Servono regole più chiare, come l’istituzione di un registro pubblico e obbligatorio, un maggior controllo degli accessi al Parlamento, la possibilità di tracciare gli incontri tra politici e lobbisti».
Fonte: [email protected]
]]>C’è anche la fondazione Brigitte Bardot, che perora instancabilmente la causa degli animali. Oppure spunta fuori la Chiesa luterana evangelica di Finlandia. Dall’Italia, poi, arriva l’Associazione dialoghisti adattatori cinetelevisivi. Sì, perché tra Bruxelles e Strasburgo, ossia tra le sedi di Commissione e Parlamento europeo, tutti vogliono poter dire la loro facendo legittime pressioni sui vari organi decisionali. Benvenuti nel poliedrico mondo dei lobbisti “regolarizzati”, con tanto di lista e codice di condotta. Ebbene, quello che spesso sfugge ai radar è che nel relativo elenco, ribattezzato “Transparency Register”, ci sono in tutto 6.486 lobbisti. Categoria, questa, all’interno della quale rientra un po’ di tutto, dai più importanti gruppi privati e pubblici a singole persone fisiche, passando per associazioni che a prima vista sembrerebbero rappresentare micro-interessi. Il tutto con sorprese non da poco.
Il registro è una realtà “codificata” dall’Eu ropa già da qualche anno, nel tentativo di rendere trasparente il modo in cui un gruppo di pressione si relaziona all’istituzione comunitaria per “influenzarne” in qualche modo le decisioni. Il problema è che, nonstante gli sforzi, l’obiettivo della trasparenza europea sembra a dir poco vacillante. Chi vince L’Europa è troppo schiava dei diktat della Germania? Chissà, magari sarà anche merito del fatto che in mezzo al gruppone dei 6.486 lobbisti i tedeschi sembrano farla da padrone. Basta consultare le griglie riportate on line in ordine alfabetico per rendersi conto di quante volte ricorrano organismi di volta in volta ribattezzati “bundesverband”, “bundesvereinigung”, “deutscher verband” e “arbeitgemeinschaft”.
Di cosa si tratta? Semplice, di centinaia e centinaia di associazioni e cooperative che si occupano di tutto e che rappresentano tutto: pasticcieri, apicoltori, tabaccai, ceramisti, agricoltori di ogni tipo e chi più ne ha più ne metta. Questo, naturalmente, accanto a grossi gruppi tedeschi di pressione che sono direttamente presenti all’interno dell’elenco, da E.On ad Adidas, passando per Deutsche Bank e Bayer. Ma i colossi internazionali, nella lista, sono anche tanti altri. Ci sono compagnie petrolifere come Chevron, Shell e Total, banche come Bofa, Bnp Paribas e Banco Bilbao, case farmaceutiche come Bristol-Myers Squibb, la già citata Bayer e Glaxo, maxi-fondi di investimento come BlackRock (che in Italia sta facendo man bassa di banche), e poi Air France, Facebook, Google, British American Tobacco, Philip Morris, Imperial Tobacco, Arcelor-Mittal, Alstom. Ma è chiaro che un elenco esaustivo non sarebbe possibile.
Le rappresentanze “lobbistiche” italiane, pur numerose, sembrano arrancare rispetto a quelle di altre paesi. Nell’elenco, tra le altre, ci sono Eni, Enel, Rai, Fs, Cassa Depositi, Fiat, Fincantieri, Finmeccanica e Mediaset. Ci sono associazioni di categoria come Legacoop (coop rosse), Confcommercio, Ance (costruttori), Ania (assicurazioni), Abi (banche), Unioncamere (le camere di commercio che ora Matteo Renzi vorrebbe abolire), Uil (il sindacato di Luigi Angeletti), Aiscat (i concessionari autostradali guidati da Fabrizio Palenzona). Spuntano pure enti pubblici come l’Ice, l’università di Bologna Alma Mater e l’Autorità portuale di Ancona. E altre associazioni come Arcigay e Altroconsumo.
La questione
Ma è efficace questo maxi-elen co con 6.486 lobbisti? La risposta potrebbe essere affermativa se la trasparenza fosse garantita. Teoricamente ogni lobbista dovrebbe indicare il fatturato che trae dalla sua attività e quali sono i clienti per i quali lavora. Nella pratica, però, molto spesso le schede informative non riportano questi dati. Per tale ragione molti osservatori credono che il registro in questione sia “tutto fumo e niente arrosto”. Anche perché i controlli sono ballerini e alcuni finiscono col chiedere l’ammissio ne all’elenco solo per questioni di marketing. Accanto a questi, però, ci sono organismi che invece sanno fare pressione, e anche molto bene. Tedeschi in primis.
(La Notizia) @ssansonetti
]]>Obiettivi dell’iniziativa sono la riforma il registro UE della Trasparenza (poca) dei lobbisti che si trova in Europa, rivedere l’elenco degli esperti che dovranno lavorare alla definizione delle nuove regole del lobbying, e soprattutto spingere gli stati dell’Unione a rivedere leggi inadeguate (ad esempio la Germania e la Francia, che hanno norme limitate) e ad intordurle dove non sono mai state approvate (con l’Italia in prima fila), come anche da indicazioni dell’OCSE.
Il progetto di Transparency prevede un’organizzazione ramificata per Stati, con un gruppo di lavoro che riunisce TI e gruppi di esperti locali. Nel panel italiano sono stati chiamati:
A lavorare sul progetto per TI:
La presentazione del progetto in Italia dovrebbe arrivare entro l’autunno prossimo.
]]>Siim Kallas, il commissario europeo incaricato degli affari amministrativi, revisione dei conti e della lotta antifrode, ha annunciato in marzo la preparazione di una iniziativa europea di trasparenza. Per questo sarebbe necessario tra l’altro che i lobbisti professionisti rivelassero gli interessi che rappresentano e le loro fonti di finanziamento.
Niente di sensazionale, direte voi. Dopo tutto, la stampa rigurgita di appelli alla trasparenza e alla responsabilità del settore pubblico “burocratico” e “inefficace”.
Ma Kallas, in un discorso pronunciato alla Nottingham Business School davanti alla European Foundation for Management, ha reso noto che a Bruxelles esistono circa 15000 professionisti del lobbing e circa 2600 gruppi di interesse che vi dispongono di un ufficio permanente. Egli ha stimato che le attività di lobby generano annualmente tra i 60 e i 90 milioni di euro di profitti per i lobbisti. Poiché non esiste nessuna direttiva né tenuta dei conti obbligatoria, nessuno può saperlo veramente. Lo stesso vale per le organizzazioni non governative (ONG) di cui molte dipendono dai fondi pubblici e che forniscono poche informazioni sugli interessi che esse rappresentano. Kallas ammette che la commissione europea ha trasferito più di 2 milioni di euro per “buone cause” ai sedicenti paesi in via di sviluppo attraverso ONG di cui essa non sa molto.
Come sottolineava Kallas, nei siti web di alcune ONG che beneficiano dei fondi comunitari si può leggere che il loro compito principale risiede nel “lavoro di lobby nei corridoi della Commissione”.
“O meglio” ha spiegato al suo auditorio della Nottingham Business School, “la Commissione finanzia delle lobby perché dei lobbisti professionisti esercitino delle pressioni su di essa”.
Ma chi sono questi lobbisti? Quali interessi rappresentano?
L’Osservatorio Europeo delle Imprese (CEO), un gruppo di ricerca e indagini situato ad Amsterdam, ha redatto una intrigante guida sul mondo della lobby industriale del quartiere Leopoldo, chiamato “Il quartiere europeo di Bruxelles”. E’ un mondo totalmente sconosciuto al grande pubblico.
L’UE, un terreno fertile per i lobbysti
Dopo gli anni 90, la totalità del quartiere è stato largamente ricostruito per i burocrati europei e il loro entourage di lobbisti, consulenti e mediatori politici. Più di 85000 persone vi lavorano. Solo 15000 persone vivono in quello che era stato un quartiere residenziale e per la maggior parte, questi abitanti sono ricchi eurocrati.
Le ragioni di ciò stanno nel fatto che la complessa struttura decisionale dell’UE, fatta in modo da tenere alla larga il grande pubblico, fornisce un terreno fertile per i lobbisti industriali.
Con più di un migliaio di gruppi di pressione ai quali si aggiungono centinaia di servizi di pubbliche relazioni e di servizi finanziari, studi di procuratori d’affari che offrono i loro servizi di lobby, decine di “think tank” (gruppi di studio) finanziati dalle imprese così come da uffici di “affari comunitari”, Bruxelles fa concorrenza a Washington per il titolo di capitale mondiale del lobbing.
Secondo il CEO, il 70% dei 15000 lobbisti professionisti rappresentano la grande industria. Ogni industria o settore immaginabile beneficia di un gruppo di pressione. Il 20% rappresenta le ONG, compresi i sindacati, i grandi gruppi di organizzazione della salute pubblica, dell’ambiente, ecc. Il 10% rappresenta gli interessi delle regioni, delle città e delle istituzioni internazionali.
Uno dei più grandi gruppi, Hill & Knowlton, occupa forse da solo più persone di quanto possano fare tutti i gruppi sociali e ambientali presenti a Bruxelles. Essi hanno esercitano la loro attività di lobbisti per tutti coloro che possono presentarsi come associazioni commerciali e grandi imprese. Il loro obbiettivo principale è la Commissione europea perché essa sola è abilitata a proporre e a elaborare una nuova legislazione per il Parlamento europeo.
I lobbisti hanno anche come bersaglio il Consiglio dei ministri che avendo l’ultima parola – a porte chiuse- sulle proposte presentate dalla Commissione, rappresenta un altro potere decisionale.
Non si deve dimenticare infine che l’estensione dei poteri del Parlamento europeo ha contribuito a renderlo bersaglio dei lobbisti; a tal punto che nel marzo 2004, la Società dei professionisti in affari europei (SEAP) ha inviato una lettera al presidente del Parlamento europeo per lamentare la mancanza di posti e cuffie per la traduzione destinati ai lobbisti. Si contano quasi 5000 lobbisti accreditati in possesso di lasciapassare che permette loro di un accesso permanente a tutti gli edifici occupati dal Parlamento. Anche se il Parlamento ha la sua sede ufficiale a Strasburgo, possiede grandi immobili anche a Bruxelles. L’insieme del processo parlamentare è diventato tributario dei lobbisti per la redazione delle risoluzioni e degli emendamenti al punto che Chris Davies, un liberaldemocratico britannico deputato al Parlamento europeo, ha affermato in occasione di un seminario di formazione di lobbisti: “Ho bisogno di lobbisti. Conto sui lobbisti”.
Ci si può fare un’idea della perversione dell’insieme della cultura politica facendo riferimento al rapporto redatto dal CEO che riprende le parole di Davies: “In ragione dell’intensità del lavoro e della complessità degli argomenti che sono all’ordine del giorno del Parlamento Europeo, Davies spiegava che era desideroso di ricevere iniziative di emendamenti specifici concernenti le proposte di legge. Davies sottomette questi emendamenti al voto del Parlamento europeo e molte di essi diventano legge europea”.
La “rotazione delle carriere” è un fenomeno ordinario, visto che i membri del parlamento europeo così come gli eurocrati non smettono di acquisire funzioni lucrative negli affari di lobbing a Bruxelles.
L’esempio più famoso è certo quello del britannico Sir Leon Brittain, già Commissario europeo per il commercio estero, divenuto consigliere per gli affari relativi all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) all’interno dello studio di avvocati Herbert Smith, vice presidente della banca d’affari internazionale UBS Warburg, membro del consiglio di amministrazione dell’Unilever e presidente del comitato LOTIS dell’International Financial Services London (IFSL), gruppo di pressione rappresentante i servizi finanziari del regno Unito. Secondo il CEO, il deputato britannico liberal democratico al parlamento europeo Nick Clegg, è un altro esempio; egli raggiunse l’anno scorso a Bruxelles la società di pubbliche relazioni e consulenti Gplus Europe. Il CEO ha anche segnalato dopo che il deputato laburista al parlamento europeo David Bowe, aveva perso il suo seggio nel giugno 2004, annunciava, a mezzo dell’ European Voice, che era alla ricerca di un impiego. “Qualsiasi offerta verrà considerata”, scriveva.
I Lobbisti
Il CEO enumera un gran numero di strategie di lobbing che la società Kimmons & Kimmons espone in uno dei loro stage di formazione. E’ una lettura interessante.
“L’aereo militare” (the gunship) comporta un lobbing aggressivo, che comprende minacce di delocalizzazione nel caso in cui non si abbandoni il progetto ufficiale, e deve essere usato nel caso in cui tutte le altre tattiche siano state vane.
“The Kofi Annan”, conosciuto anche come “cavallo di Troia” o impegno costruttivo, che consiste nel sottoporre ai governi un compromesso mutualmente accettabile.
“Il buon poliziotto e il cattivo poliziotto” (The good cop-bad cop) dove una impresa o un gruppo adotta una linea dura e un altro presenta una soluzione di “compromesso costruttivo”.
“Il dentista” (The dentist) con cui un’impresa o un gruppo che non apprezza un regolamento proverà di estrarre il “dente peggiore” per poi passare ai restanti in seguito.
“La terza parte” (The third party) significa lavorare con le ONG e i sindacati nell’intento di trovare un compromesso per regolare un conflitto.
“L’asino” (The donkey) è la tecnica della carota e del bastone allo scopo di impossessarsi delle chiavi di chi decide.
Premettendo che la società afferma che queste strategie non rientrano nel campo della seduzione e della corruzione, si può dare per certo che esse sono state applicate spesso.
Una delle principali associazioni industriali è l’Unione delle Industrie dei paesi della comunità europea (UNICE), la confederazione padronale europea. Non stupisce che questa preconizzi un mercato del lavoro “flessibile” in seno ad un mercato interno liberato più possibile di ogni “distorsione” fisica, tecnica, fiscale e sociale. UNICE emette analisi dettagliate e commentari su quasi tutta la politica emanata da Bruxelles. Essa non si limita al lobbing di Bruxelles ma, attraverso le federazioni nazionali degli aderenti, pratica il lobbing anche sui 25 governi nazionali europei. Essa ha preteso una moratoria su tutte le nuove iniziative sociali fino a che l’UE non sia divenuta l’economia più “concorrenziale” del mondo.
Secondo il CEO, la scelta degli uffici dell’ UNICE è stata dettata dal fatto che si trovano proprio di fronte alla Direzione generale del mercato interno della Commissione Europea che è ferocemente pro-business. Fino all’autunno scorso, il commissario responsabile della Direzione generale era Fritz Bolkestein, che è all’origine della direttiva sui servizi di interesse economico generale, detta Direttiva Bolkestein, destinata a liberalizzare e aprire i servizi pubblici alle imprese private. Poiché la direttiva è stata rinviata per revisione in seguito a una massiccia opposizione popolare il suo successore non farà altro che ritoccarla un po’.
L’UNICE e la Tavola rotonda europea degli industriali lanciarono la campagna per fare della “competitività” l’ obiettivo primario dell’UE; questo fu raggiunto nel marzo 2000 con l’Agenda di Lisbona il cui obiettivo è di fare della competitività un elemento centrale dell’UE al quale tutti gli altri settori politici devono essere subordinati. A questo fine, l’UNICE pretese e finì per ottenere che l’UE effettuasse nella primavera del 2004 delle valutazioni dell’impatto commerciale relativo a tutta la politica comunitaria esistente e futura. Questo significa che, seguendo l’esempio britannico, sarà impossibile introdurre una legge o adottare una politica che imponga alle imprese costi superiori ai benefici. José Manuel Barroso ha dichiarato che farà dell’Agenda di Lisbona la priorità assoluta della sua presidenza della Commissione Europea.
Tutte le più grandi multinazionali e imprese hanno stabilito le loro sedi nel quartiere Leopoldo. Boeing e Airbus hanno entrambe i loro uffici per gli affari comunitari al Rond-Point Schumann, una posizione ideale che permette di fare un salto alla Commissione europea e al Consiglio d’Europa per avanzare la rivendicazione del dominio mondiale dell’ industria aerea.
La lobby dell’industria chimica è stato uno delle più evidenti per avere organizzato una delle più scandalose campagne della storia dell’Unione Europea. Fino al 99% dei prodotti chimici venduti nell’UE non sono stati sottoposti ad alcun esame ufficiale relativo all’ambiente e alla salute.
Secondo il CEO, il gigante tedesco BASF che dispone di uffici di lobbing a Bruxelles, ha preso il comando del Consiglio europeo dell’industria chimica (CEFIC). Con il sostegno di Bush, il CEFIC ha realizzato una campagna contro gli sforzi dell’UE di regolamentare i prodotti chimici tossici con un sistema di Registrazione, Valutazione, Autorizzazione delle sostanza chimiche (REACH). Il CEFIC ha dispensato milioni di euro in lobbing e in una campagna dei media per ritardare e indebolire il progetto. Sotto la direzione di BASF, il CEFIC ha argomentato che il REACH avrebbe un impatto sfavorevole sulla “competitività” e ostacolerebbe l’obbiettivo comunitario dell’Agenda di Lisbona, di rendere la sua economia la più competitiva del mondo entro il 2010. Delle analisi redatte da consiglieri finanziati dalle imprese presentarono stime largamente e deliberatamente esagerate dei costi che REACH potrebbe richiedere alle imprese così come delle perdite d’impiego che ne deriverebbero.
L’industria chimica fece presto ad avere i governi di Regno Unito, Francia e Germania al suo fianco e il progetto REACH fu considerevolmente edulcorato.
Il CEO dal canto suo ha esaminato le attività di una società di lobbing, Burson-Marsteller, che ha sede in Avenue de Cortenburgh. Una delle società di pubbliche relazioni più controverse del mondo e che contava tra i suoi clienti recenti il Congresso nazionale Iracheno di Ahmed Chalabi, la dittatura birmana e la famiglia reale saudita.
Burson-Marsteller, impiega 45 persone di cui alcuni dirigenti del “front group” per conto di imprese. Uno di questi “front group” è il Forum scientifico e ambientale sul Bromo (BSEF), creato da Burson-Marsteller per i quattro maggiori produttori di bromo al mondo, USA, Israele e le imprese chimiche giapponesi, che si oppongono al divieto del bromo, un additivo ignifugo con gravi effetti collaterali sull’ambiente e la salute. Essi ricorsero ai servizi di Burson-Marsteller quando molti paesi cominciarono a regolamentare l’uso dei ritardatori di fiamma al bromo (BFR) e cercarono di impedirlo colpendo alcuni dei loro prodotti. La ricerca finanziata dal BSEF indica il bromo come buono per l’ambiente in quanto riducendo il fuoco riduce l’inquinamento. Nel maggio 2003, i loro avvocati comunicarono alla stampa che “[i nostri clienti] non esiteranno ad usare tutti i mezzi a loro disposizione nel caso in cui ci sia il minimo rapporto scorretto o inesatto relativo ai BFR e che porti pregiudizi agli affari dei loro clienti”. L’anno scorso, l’UE ha annullato il divieto di un tipo di bromo.
Un esame della carriera del direttore dell’ufficio di Burson-Marsteller a Bruxelles, David Earnshaw, mostra le connessioni che esistono tra i lobbisti, il mondo industriale, le ONG (di cui alcune sono esse stesse grandi imprese) e l’UE. Era stato precedentemente responsabile dell’ufficio di Oxfam a Bruxelles e, prima ancora, aveva condotto la campagna del lobby industriale per la direttiva comunitaria del Patents on Life (”brevetti per la vita”).
Un altro potente gruppo è quello del lobby Biotech, comprendente l’Associazione europea delle sementi (ESA) e l’associazione europea della Bio-Industria. Quattro delle più grandi imprese d’agribusiness e di biotech del mondo (Monsanto, Sygenta, Pioneer (DuPont) e Bayer) sono membri di questi due gruppi che dispongono anche di propri uffici.
ESA auspica l’applicazione di una versione attenuata della direttiva europea concernente le sementi e che determina i termini per l’ etichettaggio delle sementi geneticamente modificate (GM). Mentre all’inizio, l’industria biotech aveva riportato molti successi beneficiando delle politiche che esse preconizzavano, ora si trova a dover affrontare un ritorno della situazione a favore dei consumatori e il fatto che i governi nazionali hanno bloccato tutti i nuovi prodotti. Dopo le campagne aggressive e taglienti condotte contro i gruppi ambientalisti, l’industria ha ora sviluppato molte proposte comunitarie importanti per la “coesistenza” di agricoltura GM e agricoltura tradizionale e biologica, e la Direttiva delle sementi che fisserà i termini al di sotto dei quali sarà necessario etichettare le sementi GM.
Esistono dei think tank di imprese. Uno dei più in vista a Bruxelles è il Centro politico europeo. E’ finanziato dall’industria e mette a disposizione dei media l’ “esperto istantaneo” pronto a commentare gli ultimi sviluppi dell’UE.
Il Centro per la New Europe (CNE) è un altro think tank molto ben finanziato e concepito secondo i modelli americani ultra-destrorsi e molto aggressivi, la Heritage Foundation e il Competitive Enterprise Institute. Esso attacca la politica ambientale europea che dichiara essere basata su una “scienza stantia”.
TechCentralStation, un think tank di destra che dispone di un sito web (www.TechCentralStation.be) finanziato da Microsoft, Exxon e McDonald pubblica degli articoli scritti da ultra-destrorsi americani e europei che denunciano tutta la politica progressista ancora in discussione.
Mentre prima tali organizzazioni erano considerate come marginali, esse fanno ora parte della corrente generale. TechCentralStation per esempio, organizza delle conferenze in collaborazione con il gruppo parlamentare cristiano democratico del parlamento europeo.
Altri think tank industriali comprendono Friend of Europe (Amici dell’Europa), il Foro dell’Europa e la New Defence Agenda (NDA). Il NDA fa parte del crescente complesso dell’industria militare di Bruxelles. Fu fondato nel 2003 ed è finanziato dai fabbricanti di armi Lockheed Martin e BAE System allo scopo di promuovere le spese militari europee.
L’altro gruppo di lobby dell’industria bellica comprende l’Associazione europea dei costruttori di materiale aerospaziale (AECMA) e il Gruppo europeo delle industrie della difesa (EDIG). Anche l’industria bellica mette in primo piano l’Agenda di Lisbona e la competitività per portare avanti la sua causa e far passare le spese attuali dell’UE che sono il 3%, a quelle degli Stati Uniti che sono il 6% del PIL.
La risposta dei lobbisti
L’annuncio esitante del commissario Kallas durante la richiesta di trasparenza dei lobbisti da lui proposta -che tutte le sue proposte possono essere discusse- ha suscitato una opposizione feroce anche da parte di quei gruppi che l’Iniziativa di trasparenza cerca di frenare.
Contrariamente a questa proposta, essi chiedono l’autoregolamentazione, codici di condotta volontari e “responsabilizzazione sciale delle imprese”. Un portavoce dell’ UNICE ha espresso questa riflessione: “Una proposta di maggiore regolamentazione è un’assurdità”. Rogier Chorus, della società dei professionisti degli affari europei (SEAP) una organizzazione commerciale che raggruppa 150 lobbisti creata allo scopo di evitare ogni forma di regolamentazione del lobbing, ha dichiarato che era “un po’ irritato” dal tentativo, visto che SEAP aveva stabilito un codice di condotta etica volontario nei confronti dei lobbisti. Egli ha detto: “A questo punto io non lo accetterei [il registro di divulgazione delle informazioni]”. In un modo arrogante, ha intimato alla Commissione di “rivedere la sua copia” accusandola di corruzione, dicendo che essa farebbe bene a spazzare prima davanti alla propria porta rendendo “i funzionari meno vulnerabili alle bustarelle”.
Rigirando la frittata, ha affermato che una divulgazione obbligatoria del lobbing complicherebbe prima di tutto il compito dei gruppi di interesse più piccoli che farebbero fatica a farsi sentire. Il fatto che i “gruppi di interesse più piccoli”, come per esempio le persone comuni non hanno modo di pagare i grandi salari dei lobbisti, non gli è proprio venuto in mente.
I membri di SEAP sono tenuti a seguire uno stage presso l’ European Training Institute (ETI) concernente il loro codice di condotta. Ci si può fare un’idea di cosa rappresenti uno stage simile rifacendosi all’intervista con il presidente esecutivo di ETI, Daniel Guéguen.
Secondo CEO, Guéguen ha predetto tattiche di lobbing ancora più aggressive. In una intervista recente ha detto : “Penso anche che in futuro si andrà verso strategie di lobbing sempre più dure, verso degli approcci dell’intelligence economica sempre più sofisticati che comporteranno probabilmente il ricorso a pratiche di manipolazione, di destabilizzazione, o di disinformazione”.
Traduzione di Velia Vagnarelli
Jean Shaoul – www.wsws.org
]]>Background
Circa 15,000 lobbisti operano attualmente a Bruxelles
2.600 lobbisti hanno un ufficio permanente a Bruxelles
60 – 90 milioni euro di reddito sono generati annualmente dalle attività di lobbying nella capitale europea
La questione
Il commissario Siim Kallas ha annunciato che "nel corso della primavera" lancerà un ampio programma per aumentare la responsabilità dei politici e le norme sulla trasparenza delle attività che migliaia di gruppi di pressione esercitano sui decisori dell’EU.
Il 3 Marzo parlando all’European Foudation for Management in Birmingham (UK), Kallas ha detto "il problema dell’integrità non dovrebbe essere limitato alle istituzioni pubbliche, ma dovrebbe anche riguardare i gruppi di interesse di tutte le professioni compreso gli avvocati, i gruppi di pressione professionali ed gli NGOs. Alla gente deve essere permesso di conoscere chi sono, che cosa fanno", dice Kallas , notando che non ci è attualmente delle precise regole sulle attività di lobby.
In riferimento al codice di condotta sviluppato alla (SEAP) Society Of European Affairs Practioners, ha detto: "i resoconti forniti dalle organizzazioni dei gruppi di pressione dell’UE sono volontari ed incomprensibili e non forniscono molte informazioni sugli interessi specifici rappresentati o su come sono finanziati. I codici di autocomportamento hanno pochi firmatari e finora non hanno evidenziato delle sanzioni serie."
Kallas è stato ugualmente critico circa la mancanza di regole le NGOs. Precisando che sono stati stanziati, oltre 2 miliardi di euro l’anno per aiutare i paesi in via di sviluppo, e che la parola "Non" in Non-Governamental Organisation è "Piuttosto fittizia". Ha aggiunto che con la prossima iniziativa della Commissione, cercherà di migliorare la posizione delle NGOs "migliorando l’attuale rendiconto delle NGOs, che dovrebbe anche contenere le informazioni finanziarie".
Reazioni
L’iniziativa di Siim Kallas sulla trasparenza delle lobby ha fatto sobbalzare la Society of European Affaire Practioners (SEAP). Parlando a EurActiv, Rogier Chorus capo dello SEAP, ha detto di essere "un po’ in imbarazzo" poiché la SEAP ha presentato un proprio codice etico soltanto poche settimane fa. Dice che è sorpreso dalle dichiarazioni di Kallas riguardo "alla mancanza di sanzioni serie" del codice di autoregolamentazione. "Noi abbiamo affrontato quel tema. Penso che Siim Kallas non ne fosse al corrente". Chorus è inoltre scettico sulla possibilità di rivelare l’identità dei clienti e l’ammontare dei compensi dei gruppi di pressione. "Non accetterei qualcosa del genere al momento" ha commentato, aggiungendo che la Commissione dovrebbe pensare a rendere i suoi funzionari "meno vulnerabili ai doni". "La cosa importante è che i soldi non sono usati per corrompere la gente," aggiunge Chorus.
I lobbisti e la Corporate Europe Observatory (CEO), hanno accolto favorevolmente l’iniziativa di Kallas "buone notizie per la democrazia in Europa". Occorre la divulgazione delle norme delle attività di lobbying, "informazioni sempre più necessarie, a causa della crescente influenza delle aziende sui decisori politici". Il CEO critica continuamente la mancanza di "una significativa forma di trasparenza dell’attività di lobbying diretta alla Commissione Europea o al Parlamento".
Prossimi step
L’iniziativa europea sulla trasparenza sarà lanciata "nel corso della primavera" con la pubblicazione di un manifesto politico della Commissione (Libro Bianco).
Sarà organizzata in seguito una tavola rotonda con "tutti gli stakeholder" per scambiare i propri punti di vista e formulare delle proposte concrete
Una comunicazione che annuncia specifiche misure potrebbe essere pubblicata in autunno.
Euractive.com
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