Il punto è un altro, e prima o poi dovrà venir fuori. E’ proprio sbagliato l’obiettivo di chi pensa di irreggimentare, ingabbiare, demonizzare, punire le dannate lobby, come intendono fare paleo e neocensori parlamentari. Bisogna fare il contrario: aprire il sistema a una rinnovata ed efficace rappresentanza degli interessi, una volta saltata quella vecchia, per motivi più che noti. Nel vecchio mondo la lobby era appannaggio di partiti, sindacati, associazioni datoriali e di categoria. In quel circolo chiuso si componevano i conflitti, si dettavano le priorità e si organizzavano le gerarchie degli interessi. Con i media schierati a fare da pura cassa di risonanza. E le truppe pronte a intervenire, in casi di necessità. Era semplice, il piccolo mondo antico del Novecento. Oggi le cose sono cambiate.
L’universo della rappresentanza è meravigliosamente frazionato. I partiti sono personali, i sindacati pensionati, la Confindustria ininfluente, e il tavolone verde di Palazzo Chigi, dove le corporazioni più loffie vivevano il loro quarto d’ora di notorietà, è (definitivamente?) messo in soffitta. Oggi ognuno ambisce a rappresentarsi da sé. La grande azienda, con il suo solido responsabile delle relazioni istituzionali. L’agenzia di lobbying, dove professionisti di valore si muovono unicamente nell’interesse dei clienti e non del loro datore di lavoro. Gli “abusivi”, quelli che non fanno lobby per professione: presidiano un interesse, lo intermediano e ne ricavano utili, lavorando “a percentuale”, spesso bluffando, millantando conoscenze e aderenze. E poi i media, che fanno lobby in proprio. E la rete, dove gli interessi esplodono in una miriade di ingovernabili frammenti.
Nel mondo nuovo si gioca un’altra partita, dove tutto è lobby, possibilità, libertà e potere di espressione, comunicazione, condivisione. Lobby è postare, twittare e ritwittare, intercettare (ops) gli influencer, creare reti, costruire relazioni. Tutte attività difficilmente “recintabili”, cui ognuno può tranquillamente sfuggire. E ha facoltà di farlo. Se invece entriamo nei sacri confini delle istituzioni, e decidiamo di darci delle regole, allora bisogna che la regolamentazione sia sexy, altro che multe, divieti e misure coercitive. Registrarsi come lobbisti deve essere un label, un marchio di qualità. E chi ha un’istanza da rappresentare deve trovare conveniente affidare la sua pratica a un “registrato”. Si può fare con chiari meccanismi di premialità.
Chi si registra può telefonare a un ministro e poi a un suo cliente. Tutto normale. Trasparente, certificato e garantito. Il registrato partecipa agli approfondimenti tecnici, ha a disposizione i testi dei provvedimenti, le bozze dei documenti. Dopo che li hanno avuti i politici, prima che diventino pubblici. Il registrato accede, con un tesserino personalizzato e riconoscibile, nei palazzi delle istituzioni, e ogni volta che usa il tesserino dichiara cosa è entrato a fare e perché. La registrazione contempla la dichiarazione degli interessi che si sostengono (in linea con normative sulla privacy e con le clausole di salvaguardia presenti nei contratti e nei regolamenti aziendali).
Su queste basi si può costruire un vero patto di reciprocità: i lobbisti (e i loro clienti) consentono che si acceda al loro lavoro; le istituzioni consentono agli interessi e ai lobbisti di accedere al proprio. Con modalità certe e in tempo reale, con obbligo di consultazione, di esame e di risposta sui singoli dossier. I professionisti della lobby sono pronti per questa sfida: lo dico perché ne conosco tanti bravi e capaci. Le istituzioni non ancora. Per questo continuano a diffondere il timor panico delle “lobby”.
Claudio Velardi
Fonte: Il Foglio
]]>Per l’opposizione è un emendamento “marchetta” che favorisce le lobby.
“Non esiste. A parte che solo in Italia usiamo il termine lobby in modo denigratorio, è normale incontrare società e portatori d’interesse. Accade anche al 5 Stelle. Penso a quando Di Maio ha incontrato gli ambasciatori stranieri. O quando si sono confrontati con il Vaticano”.
Il conflitto d’interesse rimane un problema.
“Il provvedimento sul conflitto d’interesse è passato alla Camera e ora è al Senato. Siamo noi che stiamo lavorando sull’albo dei lobbisti. Ma parliamoci chiaro: se Coldiretti ti chiede l’obbligo dell’etichettatura, sono lobbisti con cui non possiamo parlare? No, basta che ci sia trasparenza”.
Leggi l’articolo completo: http://goo.gl/2mjUS0
]]>
Stavolta, Renzi è sfortunato. Il suo governo inciampa nella vicenda Guidi. Al di là delle battaglie sul ministro e sul governo, il solito triangolo giornali-magistrati-politici basato su intercettazioni fa nascere qualche domanda, oltre che sulla disciplina delle intercettazioni – soprattutto se applicate a un ministro della Repubblica – sulla figura del politico.
A giudicare dai commenti, la telefonata della ministra Guidi era scandalosa e le dimissioni il minimo del buon gusto. Dopo poche ore, la ministra passa subito nel lato oscuro della classe politica mentre il suo compagno è già condannato dai media come losco faccendiere.
Sarà, ma ancora una volta si vede soprattutto il moralismo che ci attanaglia tutti. Proviamo a ragionare. La ministra telefona e informa il suo compagno che un provvedimento che riguarda anche l’azienda per cui lavora passerà in Parlamento. Che cosa c’è di sbagliato? Il problema è se il provvedimento è buono o cattivo e non chi coinvolge. Il ministro fa qualcosa di illegale? Da quanto ne sappiamo finora, sembra di no. Se le cose stanno come ci hanno detto, un politico informerebbe un suo elettore interessato su un provvedimento per il quale aveva lottato e che poco dopo sarebbe auspicabilmente passato nell’aula di rappresentanza dell’intero popolo italiano. Nessuna illegalità, ma soltanto il sospetto che si possano celare pressioni di ben altro genere. Ma non siamo in un sistema totalitario e i sospetti non sono reati.
Non c’è nulla, eppure il nulla è sufficiente a far dimettere un ministro. A prescindere dalla questione Guidi, su cui capiremo se c’è qualcosa d’altro, la verità è che questo mestiere di politico non sappiamo più maneggiarlo.
Che cosa dovrebbero fare? Se sono algidi e distaccati, diciamo che non sono vicini alla gente e che sono una casta. Se si mischiano con la gente, sono presenti sul territorio, ascoltano le persone nei loro bisogni (persino il compagno!), diciamo che sono potenzialmente corrotti. Se hanno un’impresa, hanno conflitti d’interesse. Se non ce l’hanno e hanno sempre fatto politica, allora sono dei parassiti mentre bisognerebbe prendere solo persone che hanno un lavoro e non devono dipendere dalla politica. Se fanno compromessi, sono corrotti e attaccati alla poltrona. Se non fanno compromessi, sono integralisti e potenzialmente totalitari. Se viaggiano molto, spendono i nostri soldi in viaggi di piacere. Se viaggiano poco, si godono i nostri soldi senza far niente. Se fanno i bandi pubblici, ecco non la si finisce più con la burocrazia e non si decide mai. Se decidono qualcosa in via diretta, ecco non c’è mai trasparenza.
Insomma, che cosa dovrebbe fare un politico? Nella prima Repubblica era chiaro: il politico era l’espressione di una realtà territoriale o sociale che si adoperava a rappresentare, cercando allo stesso tempo di promuovere il bene di tutti. Concretamente, il politico cercava di sentire tutti i “suoi” e poi andava a trattare con gli altri. Per farlo bene, non poteva che essere un lavoro. Ben pagato, per non essere eccessivamente ricattabile.
Adesso non sappiamo più come vogliamo questi politici. Tangentopoli ci ha mostrato come il sistema si fosse pervertito ma da allora non abbiamo trovato un’immagine di politico che ci vada bene. Così passiamo dalle ondate di garantismo a quelle di legalismo, portati da un moralismo che attacca spesso solo quelli della parte politica per cui non tifiamo. Sul ruolo dei politici e sullo statuto di questa attività forse andrebbe fatta una riflessione più profonda di quella a cui siamo soliti, e magari occorrerebbe cambiare anche le regole e le leggi che li riguardano. Intanto, solo per dare un’ipotesi pragmatista: non potremmo giudicarli dai risultati? La legge che la ministra Guidi ha promosso è una buona legge o no? E chi lo deve giudicare, se non la normale battaglia politica, dalle Camere alle elezioni? In generale, il suo operato è stato quello di una buona ministra o no? Questo mi preme, mentre non mi importa affatto che lo faccia per qualche interesse, che non può che avere, come tutti gli esseri umani. In fondo, come dimostrava la vicenda Danton-Robespierre, il politico senza interessi è il più pericoloso. Per questo, prima ancora delle intercettazioni inutili, dovremmo spegnere l’inutile moralismo che alberga in ciascuno di noi.
]]>Transparency International Italia (Tii) ha messo per la prima volta un punto fermo su questa complessa problematica scegliendo una modalità poco appariscente. Ha riunito per mesi i maggiori esperti di lobbismo, per capire quanto davvero pesino i rappresentanti dei vari settori, che accesso abbiano alle informazioni necessarie, quali regole siano loro necessarie e quanto robusta sia la loro etica. Il tutto per sbarrare la strada a faccendieri di diverse carature e dalle fedine penali di varia lunghezza. Da questo lavoro, Transparency Italia ha tratto il report «Lobbying e democrazia» che sarà presentato e analizzato domani a Roma (in via della Mercede 55, alle ore 10,30) dai due fronti: professionisti del settore e politici.
Talmente sconosciuto è il mondo delle lobby italiane che ancora oggi l’unico riferimento resta il Registro europeo per la trasparenza che riporta 612 iscrizioni italiane. Sappiamo così che il gruppo più consistente è rappresentato da 138 Ong dalle finalità più varie, seguito dal pattuglione di 128 Associazioni di categoria e 76 tra imprese e gruppi. Suddividendo i settori in cui sono maggiormente attivi i lobbisti italiani a Bruxelles, in testa c’è l’Ambiente con 353 rappresentanti, anche se sommando quelli di Imprese (293) e Ricerca (290), risulta una falange di quasi 600 incaricati.
Esistesse nel nostro Paese un identico registro, sapremmo molto di più su come vengono costruite o modificate le leggi, mentre i media potrebbero raccontare correttamente il lavoro dei lobbisti. Un lavoro a volte paziente, che somma competenze vere a quelle non sempre rassicuranti dei politici (come nel caso dei “farmaci orfani”, salvati dai tagli ai fondi pubblici); ma anche fatto di incursioni fulminee, lanciate nottetempo, per stravolgere il senso di una norma con un comma aggiunto o cancellato (ad esempio la lobby dei taxisti).
È così che il 70% degli italiani finisce col ritenere che il governo sia guidato in larga misura, se non del tutto, da poche grandi organizzazioni che agiscono unicamente nel loro interesse (Barometro globale sulla corruzione di Transparency International, 2013). Naturalmente le cose non stanno così, anche se molte istituzioni – partiti in testa – e media a caccia di facili sensazionalismi nutrono quella percezione che spinge l’Italia in basso nelle classifiche mondiali, evitando ogni chiarezza nei rapporti tra politici, enti, burocrati, amministratori e gli interlocutori espressione di pezzi della società civile.
Persino i 5 stelle hanno tentato di mettere mano al tema, scoprendo la inafferrabilità del sistema di rilasci dei badge d’accesso alla Camera. Informazione peraltro inutile, visto che non c’è obbligo di registrare i nomi di chi partecipa agli incontri né su quali temi. Quella che scarseggia, alla fine, è la volontà di entrambe le parti di rendere trasparente il rapporto e così il Paese opaco brulica di discreti ristoranti e di salotti riservati oltre che politicamente trasversali. C’è da tremare, pensando al 2017, quando i partiti saranno a secco di fondi pubblici, mentre tardano le barriere che mettano fuori gioco i “facilitatori” dalla mazzetta facile.
Delle sette raccomandazioni firmate Transparency Italia per disciplinare il lobbismo, cinque si riferiscono ai passi normativi necessari, una invita gli operatori a darsi una efficace autoregolamentazione e l’ultima è un augurio di rinascita del giornalismo investigativo, oggi in stato d’abbandono. E il questionario fatto riempire da una ristretta e qualificatissima cerchia di esperti e professionisti attivi nel cuore del sistema legislativo e burocratico italiano, emergono i tre punti da migliorare – e di molto – per dare un futuro al settore: la trasparenza nell’azione, l’integrità di chi opera, la parità nell’accesso ai processi decisionali pubblici. Tra pochi mesi, questo lavoro di analisi verrà messo a confronto con studi analoghi svolti da Transparency in altre regioni europee, per aggiornare lo stato dell’arte.
«Il principale problema legato al lobbying è la mancanza di trasparenza – conferma Virginio Carnevali, da febbraio presidente di Transparency Italia – poiché resta difficile sapere chi influenza chi e su quali temi. Servono regole più chiare, come l’istituzione di un registro pubblico e obbligatorio, un maggior controllo degli accessi al Parlamento, la possibilità di tracciare gli incontri tra politici e lobbisti».
Fonte: [email protected]
]]>In queste ore – spiega una fonte – a conferma della volontà del governo di avviare un iter “continuativo” e “approfondito”, la presidenza del Consiglio ha affidato la delega sulle lobby al ministero per i Rapporti con il Parlamento e le Riforme. Come anticipato nei giorni scorsi, il ddl in esame al Senato, incardinato in commissione a fine luglio, è a prima firma Giuseppe Marinello (Ncd), cofirmato anche da alcuni senatori di Forza Italia, come Domenico Scilipoti.
Relatore del provvedimento è il senatore ex M5s, Francesco Campanella (ora al Misto, nella componente ‘Italia lavori in corso’). Quello a firma Marinello, però, non è l’unica proposta presente in Parlamento: nella XVII legislatura, infatti, sono sette i ddl e proposte di legge depositate.
A quanto viene riferito, durante la seduta di mercoledì della commissione Affari costituzionali è stato deciso di attendere altre proposte (come quella annunciata dalla senatrice Pd, Laura Puppato) che saranno connesse con il primo testo. Subito dopo sarà avviata la discussione generale e l’esame vero e proprio. Per il governo sarà il sottosegretario alle Riforme Luciano Pizzetti a seguire il provvedimento, che a Public Policy spiega: “Per ora il governo non ha intenzione di presentare un suo testo e quindi interverrà sul testo base”.
Fonte: SOR – PublicPolicy.it
E in termini di priorità – precisa – “avranno la precedenza il ddl delega Pa e la legge elettorale“. Infine, prima dell’avvio dell’esame la 1a commissione ha chiesto di acquisire la documentazione dei lavori svolti, in materia di attività di rappresentanza di interessi particolari, dalla commissione Anticorruzione istituita nella XIII legislatura alla Camera.
]]>Questo binomio virtuoso (loro)-vizioso (noi) vale soprattutto per il confronto tra Italia e democrazie di matrice anglosassone. Perde di spessore quando mettiamo l’Italia a confronto con i propri vicini europei. Qui la situazione si fa molto più complessa e, in genere, molto meno virtuosa.
Parliamo dell’Ungheria, ad esempio. Il problema dell’opacità delle lobby – ma si potrebbe dire dell’intero sistema politico – ha radici recenti. Nasce nel 1989, subito dopo la transizione dal regime socialista, verso un regime politicamente più variegato. é in questi sistema di confine, scarsamente regolamentato e attento più alla segretezza del dato pubblico rispetto alla sua divulgabilità, che sono cresciute le attuali oligarchie politiche. Per crescere, e finanziarsi, il sistema ha dovuto fare della segretezza dei rapporti tra politica ed economia un requisito essenziale.
E difatti oggi in Ungheria non è disponibile praticamente alcuna informazione (di rilievo, almeno) sui finanziamenti che la politica riceve dai privati. Esistono iniziative private che monitorano e riportano i casi più eclatanti, ma le risorse con cui operano sono limitate e al massimo possono aprire uno spiraglio su una realtà sconosciuta al grande pubblico. Una tra queste iniziative è K-Monitor (QUI). Un’altra iniziativa è promossa dal capitolato locale di Transparency International e si chiama Kepmutatas (QUI).
Gli analisti politici ci dicono che le cause del sistema attuale, non solo opaco, ma a tratti apertamente anti-democratico (nel senso che respinge le istanze di partecipazione promosse dai cittadini comuni) dipendono per gran parte dal lavoro di Fidesz, oggi primo partito, che ha agito mosso dalla necessità di recuperare il terreno sui socialisti, tornati a vincere nel 2008 e nel 2010.
Come spiega bene la SunLight Foundation (QUI) il partito di Orban non ha oggi alcuna intenzione di migliorare, né dal punto di vista della trasparenza istituzionale, né da quello della partecipazione delle istanze provenienti dalla società civile. Perché dovrebbe? L’opposizione alla disclosure ha consentito di riorganizzare le finanze del partito in tempi brevi e di contenere in modo sostanzialmente indolore le pressioni degli attivisti. Un paradiso, o un inferno, a seconda di come vogliate vederla, per i lobbisti. Una situazione dalla quale avremmo comunque da imparare. Non nel senso di prendere l’esempio su come intervenire per disciplinare la materia. Ma un ottimo esempio per capire quanto sia rischioso non intervenire.
]]>È giunto il tempo di mettere mano alla legge sulle lobby. Anzi il tempo è bello che scaduto. E ogni giorno di ritardo non fa che accrescere il divario di pensiero tra i legittimi “portatori di interessi” e una volgata comune che li definisce faccendieri. In mezzo, le istituzioni e i funzionari pubblici che un po’ resistono e un po’ si lamentano dell’invadenza dei lobbisti.
Quindi, basta polemiche e rivendicazioni: si metta a punto un testo e si porti all’approvazione in tempi non biblici, perché comunque arriveremo tardi, persino dopo il Cile che proprio quest’estate ha reso operativo un regolamento stringente, ideato dal governo di destra di Piñera e approvato da quello di sinistra della Bachelet.
SERVE IL CORAGGIO DI RENZI. Nel mondo dei professionisti in realtà si è convinti che questa è #lavoltabuona. Dopo i tentativi del governo Prodi (2007), di Monti (2012) e di Letta (2013) ci vuole il coraggio e la capacità di innovazione di Renzi per rompere luoghi comuni e mettere nero su bianco un testo che ci renda pari agli altri Paesi europei, se non agli Stati Uniti.
Ora si aprirà un fitto dibattito sui dettagli e il sasso l’ha già lanciato nei giorni scorsi con competenza il professor Pierluigi Petrillo, autore tra l’altro dell’unico albo ancora in vigore (ma ben poco applicato), quello del ministero dell’Agricoltura introdotto dall’allora ministro Mario Catania. Mettiamo qualche punto fermo.
1. Trasparenza. È l’ingrediente principale di qualsiasi regolamentazione. Che poi avvenga con un albo al quale obbligatoriamente iscriversi, con un registro volontario o con altre formule sono dettagli. È importante che si sappia che Mario Rossi rappresenta quel gruppo di interessi aziendali, sindacali, associativi, ecc. Altrettanto trasparente deve essere il processo legislativo. Il governo Renzi è sulla buona strada. Il power point seguito da un fitto dibattito online con gli interessati assomiglia alle tecniche europee del libro verde e delle consultazioni regolare. Poi però il processo legislativo da noi e non da ora diventa opaco, spesso in mano a funzionari che anche la politica ha difficoltà ad indirizzare. Quindi trasparenza nel ruolo e nel drafting legislativo. Un esempio? Eccolo.
2. Incompatibilità. Se Paola Bianchi fa la parlamentare, l’assistente parlamentare, il funzionario o il dipendente pubblico, ma anche se fa la giornalista, non può fare la lobbista. Rendiamo netta la separazione e, secondo alcuni, introduciamo anche la norma sul revolving door già in vigore per le autority che impone un periodo di astensione nel passaggio dal pubblico al privato? Su questo punto ho dei dubbi. Secondo me basta la trasparenza, cioè il sapere che Paola Bianchi è una ex parlamentare e si occupa di infrastrutture. Vedremo.
3. Autorevolezza del controllore. Perché la legge non rimanga lettera morta qualcuno si deve occupare a certificare che Mario Rossi è un lobbista ed a rendere cogenti le norme applicate. Può essere una Agenzia, una Autority o la presidenza del Consiglio. Basta andare a vedere quello che fanno gli inglesi, che con una rigorosa selezione hanno nominato, per la presidenza del Registro pubblico dei lobbisti, Alison White (ex Royal Mail, ex Federfarma britannica, ex Business Link West Midlands , ex Ordine degli odontoiatri, quindi esperienza pratica e non figura da astratto legalese) la cui prima dichiarazione è stata: «Mi piace pensare di essere un osso duro. Sono una persona molto resistente e determinata». Rispondeva al labourista Paul Flynn le cui parole sentiamo spesso echeggiare anche nelle nostre aule parlamentari: «I lobbisti sono persone molto preparate, persuasive e ambigue. Stai per prendere clienti molto difficili. Cosa c’è nella tua esperienza che ti può suggerire come affrontare questi mostri?».
* Professore di Strategie di Comunicazione, Luiss, Roma
Fonte: Lettera43.it
]]>Siamo d’accordo nel considerare “lobbisti” i soggetti, persone fisiche o giuridiche, che rappresentano professionalmente, presso i decisori pubblici, interessi leciti, anche di natura non economica, al fine di incidere sui processi decisionali pubblici in atto, ovvero di avviarne di nuovi.
E siamo d’accordo nel ricomprendervi anche coloro che, pur operando nell’ambito o per conto di organizzazioni senza scopo di lucro, ovvero di organizzazioni il cui scopo sociale prevalente non è l’attività di rappresentanza di interessi particolari, svolgono per conto dell’organizzazione di appartenenza, la suddetta attività? E quindi considerare in questa definizione anche le rappresentanze datoriali e i sindacati, al di fuori dei processi concertativi definiti dalle leggi, nonché chi cura le relazioni istituzionali delle grandi società pubbliche o a partecipazione pubblica?
E siamo d’accordo nel considerare “decisori pubblici” i parlamentari, i loro assistenti e collaboratori, i ministri, vice ministri e sottosegretari e i membri dei loro gabinetti, i componenti delle autorità indipendenti e i componenti dei gabinetti, i dirigenti della Pubblica Amministrazione e i consiglieri parlamentari?
Oppure riteniamo che si possa intervenire solo su uno spettro più ridotto di individui o società o decisori?
TRASPARENZA DI LOBBISTI E DECISORI PUBBLICI
Siamo tutti d’accordo sul fatto che i portatori di interessi particolari dovrebbero iscriversi in un Elenco pubblico, dichiarando per chi lavorano, con quali obiettivi, con quanti soldi a disposizione, e rendicontando, almeno annualmente, l’attività svolta e gli incontri avuti? Oppure esiste un modo diverso dall’elenco per assicurare la trasparenza di tali soggetti? E tale Elenco deve essere una sorta di albo abilitante o, più semplicemente, un registro? E chi non è iscritto nell’Elenco può fare comunque lobbying? E l’iscrizione dovrebbe essere obbligatoria o volontaria?
Siamo anche d’accordo sul fatto che i decisori pubblici dovrebbero rendicontare pubblicamente gli incontri avuti con i lobbisti, anche al di fuori delle sedi istituzionali, raccontando, sinteticamente, chi come e quando si sono confrontati con le lobby?
DIVIETO DI REVOLVING DOOR
Siamo d’accordo nel vietare a chi ha esercitato funzioni pubbliche, anche non elettive, di svolgere l’attività di lobbying per un certo periodo dalla cessazione della suddetta funzione?
IL CONTROLLORE
Siamo d’accordo che dovrebbe esserci una Autorità preposta a controllare l’attuazione e il rispetto di queste regole? Possiamo pensare che questa attività di controllo sia svolta dall’ANAC in quanto autorità competente a vigilare sulla trasparenza nella PA anche al fine di evitare fenomeni patologici della rappresentanza d’interessi quali la corruzione?
DIRITTI DEI LOBBISTI E DOVERI DEI DECISORI
Siamo d’accordo nel fissare una serie di diritti dei lobbisti (connessi ad esempio a procedure di consultazione obbligatorie, preventive alla redazione dell’atto) nonché dei doveri dei decisori pubblici (come ad esempio quello di indicare l’origine di una certa proposta o di un certo emendamento, ovvero di rifiutarsi di incontrare chi non è iscritto nell’Elenco)?
Si tratta di regole banalissime, diffuse nelle democrazie più avanzate, con sfumature e intensità diverse. Si tratta di regole che derivano direttamente dai principi elaborati dall’OCSE per contrastare i fenomeni della corruzione, assicurare una reale competizione tra i vari interessi pubblici e privati, e consentire ai cittadini di conoscere effettivamente le ragioni di determinate scelte della politica.
Ma siamo d’accordo su questi punti minimali? Il dibattito è aperto. Sperando che almeno questa volta si faccia sul serio; altrimenti il #cambiaverso resterebbe semplicemente (e solo) un hasthag.
Fonte: Formiche.net
]]>Ecco la seconda parte dell’intervento del prof. Petrillo. La prima parte si può leggere qui.
Le opzioni di intervento sembrano essere prevalentemente 3: le prime due più “soft”, potenzialmente approvabili in pochissimo tempo; la seconda più “hard” ma più seria.
1) L’opzione-esempio (una sorta di Negroni)
Consapevoli che un disegno di legge in Parlamento rischierebbe di arenarsi, il Presidente del Consiglio può con proprio Decreto regolamentare il rapporto tra Pubblica Amministrazione e lobbisti. Ovviamente tali norme varrebbero solo per Palazzo Chigi, i Ministeri e le Società controllate dalle Stato. Non sarebbe comunque poco ma soprattutto darebbe il buon esempio. Una sorta di sveglia per il Parlamento e il modo migliore di rispondere ai #gufi.
2) L’opzione-esempio invertito (il Negroni sbagliato, ovviamente)
Consapevoli che il Governo non ha voglia di intervenire sul punto, i Presidenti di Camera e Senato intervengono d’imperio, esercitando i poteri d’interpretazione dei regolamenti parlamentari loro attribuiti. Possono così disporre, ad esempio, regole d’accesso pubbliche e trasparenti per i lobbisti ovvero (a mero titolo d’esempio) impegnare i parlamentari a rendere pubblici gli incontri avuti. Gli stessi effetti potrebbero essere prodotti, più democraticamente, facendo approvare una risoluzione dalle rispettive assemblee oppure, per essere ancora più democratici, modificando i regolamenti parlamentari (come propose il sen. Andreatta nel lontano 1988). E’ l’esempio francese dove, da quattro anni, esiste una regolamentazione delle lobby presso l’Assemblea Nazionale introdotta con una risoluzione parlamentare. In questo modo sarebbe il Parlamento a dare la sveglia al governo …
3) L’opzione “all inclusive” (quindi impossibile … una vera Caipirinha)
Il governo presenta alle Camere un disegno di legge, dichiarandolo urgente così da essere calendarizzato in tempi certi. Poiché ci va di sognare, possiamo anche ipotizzare che con questo provvedimento il Legislatore corregga le numerose norme già vigenti ma totalmente disapplicate che dovrebbero imporre trasparenza e partecipazione in taluni procedimenti pubblici. Sempre in questo contesto, si dovrebbero modificare le assurde norme sul finanziamento della politica da parte dei privati.
Ci si chiede: possono esserci altri percorsi normativi? E tra quelli sopra individuati, quale sarebbe l’opzione preferibile?
Fonte: Formiche
]]>In quanto esperto del rapporto tra pubblica amministrazione e gruppi di pressione, Petrillo sostiene che “in tutte le democrazie l’attività di lobbying è considerata un elemento essenziale del processo decisionale. La presenza di cittadini, associazioni, società che si organizzano per cercare di influenzare il decisore pubblico al fine di ottenere un vantaggio, è ciò che dimostra la vitalità della democrazia, la sua essenza pluralista“. In Italia, tuttavia, c’è ancora un forte pregiudizio riguardo questo ruolo, in ampia parte dovuto all’assenza di regole che impongono una reale trasparenza sui processi di lobbying. “O meglio – come spiega il docente – le regole ci sono, ma il Legislatore fa di tutto per non rispettarle”.
La situazione è simile a quella di un paziente che “dichiara di voler fare una cosa e poi fa l’opposto” e che per questo ha bisogno di una cura. “Quando analizzo la regolamentazione italiana del fenomeno lobbistico, parlo di regolamentazione strisciante ad andamento schizofrenico. Significa che ci sono già molte norme in materia di trasparenza del processo decisionale, ma queste norme vengono disapplicate dagli stessi soggetti che le hanno approvate (Governo, Parlamento, regioni ecc.)“.
A proposito del suo percorso professionale di supporto alle istituzioni pubbliche, Petrillo ricorda con particolare affetto la Professoressa Carmela Decaro, docente LUISS di Diritto Pubblico Comparato. “La conobbi quando ricopriva l’incarico di vice segretario generale della Presidenza della Repubblica. Mi chiese di collaborare con lei al Quirinale. E in quel periodo ho imparato un metodo di lavoro che è risultato fondamentale per tutti gli incarichi successivi. Senza dubbio devo tutto a lei”.
Un metodo che gli è servito anche per “leggere” i suoi altri due grandi interessi, la cultura e l’ambiente, e per apprendere come seguire percorsi lunghi e complessi come le task force per l’UNESCO, che ha guidato prima al Ministero dell’Agricoltura, poi al Ministero della Cultura e ora al Ministero dell’Ambiente. “L’UNESCO è regolata da convenzioni, protocolli e programmi internazionali. Quando un paese vuole candidare un sito o un patrimonio immateriale nelle prestigiose Liste del Patrimonio culturale materiale e immateriale dell’UNESCO deve attenersi scrupolosamente a quelle regole e avviare un processo di riflessione, di studio, di ricerca e, ovviamente, di mediazione che dura, mediamente, 6-7 anni per ciascuna candidatura“.
E ora che il suo compito è divulgare tutto quello che ha imparato, ogni volta che torna alla LUISS per stare dall’altra parte delle aule, Petrillo si paragona ai suoi vecchi docenti. “Al primo giorno di lezione, mi chiedo come saranno gli studenti, come reagiranno alle mie suggestioni, se saprò coinvolgerli e trasmettergli informazioni che non avevano, utili per la loro professione futura. Da studente apprezzavo questo genere di professori e non dimenticherò mai le lezioni di Diritto costituzionale del Professor Panunzio o di Dottrina dello Stato dei Professori Galizia e Frosini o di Diritto commerciale del Professor Mosco: docenti che hanno saputo trasmettermi molto e che cerco di imitare“.
Fonte: LUISS.it
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