Parlamento Europeo – LobbyingItalia http://www.lobbyingitalia.com Blog dedicato al mondo delle lobbies in modo chiaro e trasparente Fri, 13 May 2016 14:04:46 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.4.2 Quando il lobbying “va di moda” http://www.lobbyingitalia.com/2015/11/lobbying-moda/ Tue, 03 Nov 2015 09:26:09 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=3017 Business of Fashion (BOF), uno dei più autorevoli siti online dedicati alla moda, racconta i frequenti meccanismi di lobbying del mondo della moda statunitense, cioè i tentativi di influenzare il potere politico e amministrativo per difendere e promuovere i propri interessi. Com’è facile immaginare, stabilire con esattezza le pressioni delle lobby della moda è piuttosto complicato, vista la discrezione con cui le aziende affrontano l’argomento; BOF ha raccolto alcuni esempi per darne un’idea.

In questi ultimi mesi le lobby si sono concentrate attorno al Trans Pacific Partnership (TPP), un grande trattato internazionale sul commercio che coinvolge 12 paesi affacciati sull’Oceano Pacifico: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e soprattutto Stati Uniti. Il TPP prevede la cancellazione o la riduzione di alcune tasse che alcuni paesi applicano alle merci provenienti da altri: al momento l’accordo è stato solo annunciato, non è stato ancora firmato e non se ne conoscono i dettagli in termini di numeri e prodotti.

Le implicazioni del TPP interessano molto il mondo della moda per i vantaggi economici che ne potrebbero derivare. In particolare gli Stati Uniti, il più grande acquirente nel campo dell’abbigliamento, avrebbero un accesso facilitato al Vietnam, il terzo mercato emergente nella produzione di vestiti, dopo la Cina e il Bangladesh. Secondo un’analisi della Footwear Distributors and Retailers of America, la più grande associazione statunitense nel settore delle calzature, nel 2014 le aziende statunitensi hanno pagato 400 milioni di dollari in tariffe doganali per scarpe importate da paesi che partecipano al TPP: l’accordo permetterà di risparmiare parte di questo denaro.

BOF racconta anche i notevoli sforzi della multinazionale di abbigliamento sportivo Nike per far passare il trattato: dal 2006 ha intensificato la sua attività di lobbying sul tema più di qualsiasi altra azienda. L’anno scorso Nike ha speso 1,1 milioni di dollari (quasi un milione di euro) per fare pressioni a favore dell’accordo, a cui si aggiungono altri 560 mila dollari (oltre 500 mila euro) nella prima metà di quest’anno. L’interesse di Nike nel TPP è stato confermato anche dalla visita, a maggio, del presidente degli Stati Uniti Obama al quartier generale dell’azienda a Beaverton, in Oregon, dove ha parlato a favore dell’accordo. In occasione della visita Mark Parker, amministratore delegato di Nike, ha detto che il TPP permetterà all’azienda di creare 10 mila nuovi posti di lavoro nell’industria manifatturiera e nell’ingegneria: «la libera circolazione dei beni nell’economia globale – ha spiegato – sguinzaglierà la nostra capacità di investire e innovare».

Negli Stati Uniti – ma non solo, succede per esempio anche nella Commissione e nel Parlamento Europeo – quella del lobbista è una vera e propria professione, disciplinata da una legge federale, il Federal Lobbying Disclosure Act. La legge regolamenta l’attività di lobbying e prevede un’iscrizione in un apposito registro, così da garantirne la trasparente. Secondo dati della US Federal Lobbyng Disclosures, l’ufficio federale che si occupa della materia, nella prima metà del 2015 le aziende di moda hanno già speso molti soldi per difendere e promuovere i propri interessi, e in particolare il TPP: la National Retail Federation, l’associazione che difende i diritti dei grandi distributori statunitensi, ha speso 3 milioni di dollari (2,7 milioni di euro); i grandi magazzini Target 770 mila (quasi 700 mila euro); e le catene di abbigliamento JC Penney e Gap rispettivamente 410 mila dollari (370 mila euro) e 160 mila dollari (145 mila euro). Sono pochi rispetto a quelli investiti dalle lobby farmaceutiche – che nel 2015 hanno speso complessivamente 1,63 miliardi di dollari (1,47 miliardi di euro) – ma dimostrano comunque il coinvolgimento delle case di moda.

Una lobby può limitarsi a cercare contatti e inviare comunicazioni ai politici – come presentare dati e rapporti a sostegno delle sue richieste – oppure organizzare grosse campagne per influenzare l’opinione pubblica, finanziare campagne elettorali, e addirittura promuovere scioperi e proteste. Le aziende possono assumere lobbisti o pagare un’organizzazione che lo faccia al posto loro: non c’è un tetto massimo alle spese che si possono spendere per le attività di lobby, ma c’è per le donazioni individuali ai politici, pari a 2.700 dollari (2.500 euro) per ciclo elettorale. Julia Hughes, presidente della United States Fashion Industry Association (USFIA), un gruppo di Washington DC che preme per eliminare le restrizioni sul commercio di tessuti e abbigliamento, ha spiegato che il lavoro del gruppo consiste nell’incontrare e sottoporre regolarmente le richieste degli iscritti ai responsabili delle politiche amministrative.

BOF riporta alcuni esempi in cui il lobbying ha funzionato. Il caso più famoso è del 2009 e riguarda la casa di alta moda francese Chanel, il suo direttore creativo Karl Lagerfeld, il gruppo LVMH e altre aziende che si occupano di beni di lusso. Nel 2010 sarebbe scaduta le legge europea per la concorrenza che consentiva ai marchi di scegliere su quali siti vendere la propria merce; sarebbe stata sostituita da un’altra che eliminava le restrizioni sul commercio online. LVMH, Chanel e altre società del lusso temevano che i loro prodotti sarebbero stati così venduti su mercati di massa, come per esempio Ebay, insieme a riproduzioni false dei loro articoli; iniziarono quindi un’operazione di lobbying per impedire all’UE di approvare le nuove norme. Karl Lagerfeld andò a Bruxelles per incontrare Neelie Kroes, responsabile delle politiche di concorrenza della Commissione europea, e per discutere con lei il disegno di legge. Avvocati e lobbisti cercarono di far capire ai politici che la distribuzione selettiva è fondamentale per l’industria del lusso, un settore che produce il 3,5 per cento del prodotto interno lordo dell’UE e dà lavoro a 1,5 milioni di persone. Questa strategia ebbe successo, e la legge che venne poi adottata consente alle aziende di lusso maggior controllo sulla vendita online dei loro prodotti.

Negli ultimi anni le società di moda hanno indirizzato le attività di lobby su temi come l’e-commerce, la sicurezza dei prodotti e la proprietà intellettuale. In quest’ultimo caso la lobby della moda ha però fallito. Nel 2012 il CFDA, Council of Fashion Designers of America, l’equivalente americano della nostra Camera della moda, ha chiesto una legge per garantire tre anni di diritti d’autore agli stilisti che registravano un nuovo prodotto nel giro di sei mesi dalla creazione. Il CFDA assunse due lobbisti ma non riuscì a far passare la legge, in parte perché i politici sono restii a farsi carico di cause che appaiono elitarie e lontane dai problemi della gente, in parte perché la legge sembrava semplicemente proteggere gli interessi delle case di moda e non l’interesse generale.

Negli Stati Uniti le attività di lobby della moda più recenti sono quelle dei negozi di lusso in California, che chiedono un’esenzione dal divieto di importare pelle di coccodrillo. Il governo statunitense deve invece affrontare le pressioni del sito di e-commerce cinese Alibaba per non venire inserito nella lista nera dei siti che vendono merce contraffatta. In Europa il mondo della moda si sta invece muovendo attorno al Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP, in italiano Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti), un accordo commerciale di libero scambio su cui stanno negoziando l’Unione europea e gli Stati Uniti: ci sono già stati incontri tra il dipartimento della Commissione europea che si occupa di moda e aziende come Ralph Lauren, LVMH, Levi’s, InditexEbay.

Fonte: Il Post

 

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Europarlamento, ai socialisti non piacciono i lobbisti delle multinazionali http://www.lobbyingitalia.com/2015/10/europarlamento-ai-socialisti-non-piacciono-i-lobbisti-delle-multinazionali/ Fri, 23 Oct 2015 14:53:22 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=3008 Messi al bando dall’Europarlamento i lobbisti delle multinazionali dichiarate non gradite: Fiat Chrysler, Amazon, Ikea, Mc Donald’s, Facebook, Google, Coca Cola, Ikea, Philip Morris, Wal-Mart, Walt Disney, Barclays Bank Group e Hsbc.

I socialisti europei hanno messo al bando i lobbisti delle multinazionali dall’Europarlamento. Il gruppo dei socialisti e dei democratici (S&D) ha stilato l’elenco delle 14 società dichiarate non gradite e che pertanto non potranno partecipare ai meeting di questa famiglia politica perché, pur convocate, non si sono presentate alle audizioni del comitato speciale Taxe, istituito sull’onda dello scandalo LuxLeaks e incaricato di far luce sugli accordi fiscali tra gli Stati membri e le multinazionali.

La lista delle società interessate include Fiat Chrysler (reduce dalla bocciatura Ue dell’accordo di tax ruling con il Lussemburgo), Amazon, Ikea, Mc Donald’s, Facebook, Google, Coca Cola, Ikea, Philip Morris, Wal-Mart, Walt Disney, Barclays Bank Group e Hsbc. Come sottolinea il presidente del gruppo S&D, Gianni Pittella, la scelta anticipa la decisione al riguardo che sarà presa dal Parlamento europeo. La proposta era stata avanzata dalla stessa commissione Taxe, presieduta dal popolare francese Alain Lamassoure.

fonte: Milano Finanza

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Istituzioni UE, è scontro per le norme sul lobbying http://www.lobbyingitalia.com/2015/10/istituzioni-ue-e-scontro-per-le-norme-sul-lobbying/ Tue, 20 Oct 2015 09:10:50 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2996 Il Parlamento Europeo chiede misure stringenti per i lobbisti delle multinazionali che non cooperano in materia fiscale. Ma la Commissione frena

Sanzionare i lobbisti non cooperativi non è di certo una cosa semplice con il sistema normativo attuale. Le istituzioni dell’Unione Europea sono divise sul tema. Da una parte il Parlamento Europeo incoraggia misure più stringenti, dall’altra la Commissione cerca di evitare di entrare a gamba tesa sul tema per non andare a intaccare i sistemi di accreditamento.

Il Parlamento Europeo ha lanciato un comitato speciale in materia fiscale (il Taxe), che è stato però costretto a svolgere le proprie indagini in assenza degli imputati, visto che le grandi multinazionali non si sono presentate per collaborare. Delle 18 grandi aziende contattate dal Taxe per dare chiarimenti fiscali solo Airbus, Total, Bnp Paribas e la società energetica scozzese Sse hanno accolto la richiesta.

Amazon, Anheuser-Busch InBev, Barclays, Coca Cola, Facebook, Fiat Chrysler, Google, Hsbc, Ikea, McDonald’s, Philip Morris, Wal-Mart e Walt Disney si sono tutte rifiutate di testimoniare. Di fronte a questa battuta d’arresto, il Taxe ha chiesto di infliggere dure sanzioni alle multinazionali che hanno rifiutato di cooperare, compresa la sospensione del loro accreditamento al Parlamento Europeo, dove i lobbisti convergono regolarmente per cercare di influenzare la legislazione.

A Bruxelles si conta infatti la presenza di 8396 lobbisti che lavorano nelle istituzioni europee. Ma la Commissione non sta dando alcun sostegno alla proposta del Parlamento e così l’idea rischia di restare solo sulla carta. Ora finalmente sembra che qualcosa possa muoversi sul serio. Il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha espresso il desiderio di raggiungere un accordo comune a proposito della registrazione obbligatoria dei lobbisti in tutte le istituzioni europee.

Fonte Affari Italiani

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Timmermans: “Cari lobbisti, noi vi ascoltiamo, ma voi non mentite!” http://www.lobbyingitalia.com/2015/04/timmermans-cari-lobbisti-noi-vi-ascoltiamo-ma-voi-non-mentite/ Tue, 28 Apr 2015 06:04:33 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2784 I lobbisti che mentono saranno buttati fuori dalla Commissione dell’UE, secondo le parole di Frans Timmermans, che sin da quando è entrato in carica ha promesso un registro obbligatorio.

In ogni caso, il piano finale non è produrre la regolamentazione stringente che molti chiedono, ma piuttosto un “gentlemen agreement” tra la Commissione e il Parlamento Europeo per non dare accesso ai lobbisti non registrati.

Il Commissario ha iniziato a portare avanti questo progetto a inizio anno, creando scompiglio tra le società e le imprese iscritte al cosiddetto “Registro per la Trasparenza”, che è tutto meno che trasparente.

ALTER-EU (the Alliance for Lobbying Transparency and Ethics Regulation) ha indicato che nel 2013 Goldman Sachs ha dichiarato una spesa per le attività di lobbying inferiore a 50.000€ per l’UE, davvero poco realistica se paragonata ai 3,6 milioni di $ negli USA.

Nel frattempo, la European Privacy Association, apparentemente innocua nella denominazione, attualmente rappresenta gli interessi di società come Facebook, Google e Yahoo! nel corso del dibattito sull’uso e la protezione dei “big data”. In base al Registro per la Trasparenza, l’EPA ha pochi impiegati e spende solo 450.000€ l’anno, una cifra che sembra non corrispondere a ciò che Microsoft ha ammesso spendere quest’anno: 4,75 milioni di €, dieci volte tanto. Apple dice di avere solo quattro lobbisti nell’Unione Europea, spendendo solo 250.000€.

Alla domanda su cosa farebbe per sanzionare queste società che fanno “interpretazioni creative della realtà”, Timmermans ha tuonato che i bugiardi non sono benvenuti nel suo ufficio. Ha detto che la sanzione dovrebbe essere non registrare del tutto (quindi nessun accesso ai decisori e nessun meeting con i commissari). Però non ha chiarito chi debba monitorare il registro o come si possa capire se le informazioni fornite fossero vere o false.

L’attuale registro volontario ha più di 8.400 registrati, ma è solo la punta dell’iceberg visto che molti attori dell’”industria del lobbying” boicotta il Registro, in particolare i grandi studi legali. Secondo la Commissione, chiunque faccia lobbying, rappresentanza di interessi o advocacy dovrebbe iscriversi al registro, ed è messo in evidenza più “cosa fai” che “chi sei”.

Olivier Hoedeman di ALTER-EU ha dichiarato: “Un Registro rivisto, basato su un accordo inter-istituzionale, farà perdere i meccanismi per verificare se le informazioni del Registro sono corrette, e significherà che non ci sarà possibilità di applicare sanzioni efficaci quando saranno realmente verificate le scorrettezze nelle informazioni”.

Fonte: The Register

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Lobbyfacts,ecco il registro delle grandi lobby (Repubblica.it) http://www.lobbyingitalia.com/2014/10/lobbyfactsecco-il-registro-delle-grandi-lobby-repubblica-it/ Sun, 05 Oct 2014 16:05:40 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2608 Il sito www.lobbyfacts.eu censisce costi e sforzi delle aziende per avere norme e controlli comunitari più adeguati ai loro business. Primeggiano le banche popolari francesi Bpce, forti le multinazionali americane. In Italia vince il gruppo di serie tv Alcuni con 1,7 milioni l’anno

Voilà, il registro dei lobbisti d’Europa è in rete. Ed emerge quel che si sospettava: gli interessi tedeschi e francesi sono ottimamente rappresentati a Bruxelles, ma le aziende a stelle e strisce fanno la parte del leone. Le aziende italiane non sembrano particolarmente attive. Il gruppo più attivo è la società trevigina Alcuni, casa di produzione di audiovisivi e cartoni animati nota per la serie tv Cuccioli. Alcuni srl ha un lobbista alla Comunità europea con capacità di spesa stimata in 2 milioni di euro l’anno, poco in confronto ai 7,75 milioni della banca francese Bpce, ma molti rispetto alle grandi società italiane, tutte con spese stimate dal mezzo milione in giù.

Tutti i dati sono pubblicati su www.lobbyfacts.eu, il nuovo registro in rete da oggi e che per la prima volta tenta di raggruppare informazioni sull’attività lobbistica di aziende, organizzazioni, consulenti e studi legali in Europa.

Ai vertici dell’attività di relazioni istituzionali censita dal nuovo sito stanno alcune multinazionali e altri nomi meno noti. Dopo le banche popolari francesi che primeggiano che la Cemafroid, sempre francese e operante nel raffreddamento (5,25 milioni). Poi la Philip Morris (5,25 milioni), Exxon (5 milioni), Microsoft (4,75 milioni), Shell (4,5 milioni), la tedesca Siemens (4,35 milioni), Gdf Suez (4 milioni), l’americana General Electric (3,5 milioni) e la spagnola Astramatic (3,25 milioni), attiva nel trattamento delle acque. All’undicesimo posto la prima cinese, la telefonica Huawei con 3 milioni.

Il primo gruppo italiano è quasi ignoto ai più. Si tratta del gruppo Alcuni, una srl con un solo lobbista ma con capacità di spesa stimata in 2 milioni di euro l’anno, che la pone al 26° posto tra i gruppi più attivi nel lobbying continentale. Seguono, tra le aziende domestiche, Enel con sette lobbisti e una spesa stimata in 500mila euro, Unicredit (7 operatori, 450mila euro), Fiat e Cnh (3 operatori, 450mila euro), Eni (5 operatori, 400mila euro), Ferrovie dello Stato (3 operatori, 400mila euro), Mediaset (5 lobbisti, 350mila euro), Edison (3 lobbisti, 350mila euro), Barilla (6 lobbisti, 300mila euro).

Circa il 60% dei lobbisti europei rappresenta gli interessi delle aziende mondiali, e quelle statunitensi sono prevalenti. Ma il nuovo contenitore di dati, e tutti gli altri del genere, sono necessariamente parziali e incompleti. Molte grandi società, infatti, non lasciano tracce né sono iscritte nei registri di categoria, perché l’attività di questi facilitatori del business e delle normative correlate è scarsamente trasparente. E’ opaca, ma è ricca: le 10 maggiori multinazionali spendono circa 39 milioni di euro l’anno in attività di lobby. Ci sono cinque società di consulenza forti di 130 operatori accreditati presso il parlamento europeo.

Fonte: Andrea Greco – Repubblica.it, 4 ottobre 2014

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