lobbista – LobbyingItalia http://www.lobbyingitalia.com Blog dedicato al mondo delle lobbies in modo chiaro e trasparente Tue, 24 May 2016 16:31:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.4.3 Quando gli ex commissari europei fanno i lobbisti http://www.lobbyingitalia.com/2015/07/quando-gli-ex-commissari-europei-fanno-i-lobbisti/ Mon, 27 Jul 2015 20:50:47 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2894 Ottenere un incontro con un commissario europeo non è affatto facile. Ma esiste una corsia preferenziale: essere un ex commissario europeo. E se poi questo ex commissario è un lobbista, rappresenta cioè gli interessi di un gruppo di potere, una grande società o un’associazione di categoria europea, poco importa, il conflitto di interessi non sembra essere un problema.
D’altronde un ex commissario può sempre sostenere di incontrare un commissario in carica per dargli consigli sull’incarico o per mantenere rapporti di amicizia, non certo per sostenere i clienti per cui lavora.
Le famose regole sulla trasparenza degli incontri tra funzionari Ue e lobbisti, in realtà, non vengono in aiuto della trasparenza. L’oggetto degli incontri con i lobbisti, recitano le regole, deve risultare specificato, ma la specifica può essere piuttosto vaga, tipo “cena di lavoro” o “questioni europee”.
Facciamo alcuni esempi concreti. Per diversi anni l’inglese Peter Mandelson è stato l’uomo di Tony Blair a Bruxelles. Ha ricoperto l’incarico di commissario europeo al Commercio dal 2004 al 2008 e nel 2010 ha fondato la società di lobby Global Counsel. Il registro di trasparenza dell’Ue dice che Mandelson, il 16 giugno scorso, ha incontrato a cena Martin Selmayr, capo di gabinetto del Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. Selmayr era accompagnato da altri tre membri “senior” del gabinetto. Tra questi c’era Ann Mettler che, come capo del Centro europeo strategico politico, è uno dei più influenti consiglieri politici di Juncker.
Le regole di trasparenza impongono ai “senior”, ossia agli alti funzionari della Commissione, di specificare l’esatto argomento in discussione nei loro incontri di carattere economico. Possono ad esempio scrivere Unione energetica, Fondi Horizon 2020, Situazione Grecia, ecc. In questo caso, il soggetto indicato è stato “cena di lavoro”.
Un altro ex commissario, il belga Etienne Davignon, vanta un elenco impressionante di incontri con alti funzionari. Davignon ha lavorato in Commissione Europea dal 1977 al 1985 e oggi è uno dei businessman più immanicati a Bruxelles. Tra le altre cose, è presidente del think-tank pro europeo Friends of Europe e siede nei Cda di diverse grandi società. Davignon è anche consigliere speciale di Gérard Mestrallet, amministratore delegato della multinazionale francese dell’energia Engie, meglio conosciuta con il suo vecchio nome, GDF Suez. L’ex commissario appare per due volte sul registro di trasparenza della Commissione: 17 aprile e 8 maggio, come rappresentante di Engie in incontri con Juncker e il suo capo di gabinetto Selmayr.
Un fatto degno di nota, perché Juncker ha dichiarato di aver fatto riunioni solo con altre due aziende: Deutsche Bank (rappresentata dall’ex ministro delle finanze a Lussemburgo sotto il governo Juncker, vale a dire Luc Frieden) e Atos (guidata da Thierry Breton, che è stato ministro delle Finanze francese, quando Juncker ha assunto la presidenza dell’Eurogruppo a 2003).
Gianluca De Falco – Il Fatto 24 Ore
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Sulla Lobby: framing, verità, poeti e creatori http://www.lobbyingitalia.com/2015/04/sulla-lobby-framing-verita-poeti-e-creatori/ Wed, 22 Apr 2015 17:44:09 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2769 (Alberto Cattaneo) Fare lobby significa spesso lavorare in difesa di interessi specifici che si incastrano in situazioni complicate e dalle verità multiple. Ha ragione chi difende la sperimentazione animale in nome della ricerca e della salute degli uomini o hanno ragione gli animalisti a sostenere il diritto alla vita degli animali? Ha ragione l’ambientalista o l’azienda inquinante? Ha ragione chi difende il gioco legale o il movimento di opinione che lo vorrebbe abolire? Non è facile dare delle risposte a questo genere di domande e sarebbe troppo facile dire che la verità o la soluzione a questi “dilemmi sociali” risiede in un giusto mezzo, nel ritrovare un punto di equilibrio che possa soddisfare le parti interessate.

Il lobbista, nella sua essenza, è proprio colui che ricerca questo punto di equilibrio, ma ciò che ci interessa oggi è quanto possa essere difficile farlo quando qualcuno o qualcosa “impone” una verità precostituita.

In un contesto dove la comunicazione viaggia veloce e raggiunge in modo multiforme la cosiddetta opinione pubblica, è facile che si costruisca una qualche forma di verità che cristallizza posizioni identificando i “buoni” e i “cattivi”, i “giusti” e gli “sbagliati”. Spesso a farlo è la magistratura inquirente, altre volte la politica, altre ancora i media. Sono numerosi le fonti, infatti, capaci di creare una “verità” e farla passare per l’unica possibile. Come dovrebbe lavorare un lobbista in questo genere di situazioni?*

Proviamo a fare un passo indietro. Che cosa è la verità? Nietzsche direbbe che la verità è “un mobile esercizio di metafore, metonimie, antroporformismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite e che, dopo un lungo uso, sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti”. In estrema sintesi la verità è frutto di un esercizio linguistico e di un codice il cui carattere è sempre più “sociale e in definitiva anche politico” (cioè relazionale). La verità, intesa in questo modo, è solo un termine – come ci dice Vattimo – che “allude alla possibilità per singoli, gruppi e per la stessa specie, di riconosere e organizzare il mondo esterno in modo favorevole alla propria esistenza”. In un certo senso, dunque, l’uomo non vuole tanto la verità ma desidera che le conseguenze di questa verità siano piacevoli ed è “indifferente rispetto alla conoscenza pura priva di conseguenze, mentre è disposto addirittura ostilmente verso le verità forse dannose e distruttive” (Nietzsche).

Se si accetta questa impostazione il lobbista si trova a competere in uno strano mercato: quello della costruzione della verità. Un costruttore della verità si trova, dunque, a creare un “framing” grazie a un utilizzo efficace di metafore e combinazioni di fatti che dettano il codice con cui si valuta una determinata situazione. E un costruttore basa la sua efficacia nel potere (power) che ha di affermare tale verità: ad esempio un magistrato, un primo ministro, la prima firma di un giornale hanno certamente più potere istituzionale rispetto a un singolo cittadino di affermare un framing di lettura e quindi una qualche verità.

Si può costruire una matrice i cui assi sono proprio costituiti da framing e power e da quattro possibili posizioni. Il lobbista si può ritrovare a lavorare in difesa di un interesse che può essere collocato: 1. in un framing positivo ma con debole potere di affermarlo; 2. in un framing negativo e con potere debole; 3. in un framing positivo con alto potere di mantenerlo tale; 4. in un framing negativo con alto potere di modificarlo. Queste posizioni per un lobbista esprimonono quattro condizioni di lavoro: 1. Weak Winner 2. Heavy Looser 3. Winner but Target; 4. Potential Looser. Vediamoli nel dettaglio.

1. Weak Winner. E’ una condizione certamente favorevole perché il tipo di verità che emerge asseconda gli interessi che il lobbista si trova a difendere. Ma è una posizione scomoda in quanto il potere di difendere questa tipo di framing non è consolidato e quindi può essere messo in discussione da un qualcuno che questo potere di fatto ce l’ha. In questa situazione il lobbista deve stare necessariamente fermo e svolgere per lo più un lavoro di rafforzamento del proprio “potere di framing” recuperando soggetti più credibili e autorevoli, Il dilemma esiste, però: cercando di costruire nuovo potere si può “svegliare il can che dorme” e quindi l’analisi del posizionamento delle “fonti” che si vanno a toccare riveste un ruolo cruciale. Il mapping stakeholder e l’intelligence sugli interessi che lo compongono diventano allora l’attività core in questo quadrante. Si è dei vincitori, ma deboli. Si deve essere umili, cercare alleati e mantenere la pace. Non si è dei conquistatori.

2. Heavy Looser. E’ la condizione disperata. Il framing precostituito non è positivo (non da ragione all’interesse da difendere) e non si ha il potere per modificare la situazione. Si è perdenti. E lo si è pesantamente. Ma non si è disperati. Bisogna solo rendersi conto che l’azione che si ha davanti richiede pazienza e tempo (e spesso i portatori di interessi non hanno né l’uno né l’altro). Il lavoro è primariamente quello di lavorare sul linguaggio su cui il framing si basa e se la verità è “la somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente” si tratta di costruire un piano di stakeholder engagement che miri non tanto ad ottenere un obiettivo specifico quando a fare comprendere all’altro che la verità può essere intesa in modo diverso. Il target è chi lavora sui linguaggi (i media ad esempio, i “politici da talk show” altro esempio). Difficile. Estremamente difficile. Perché bisogna cambiare la poetica e la retorica con cui si presenta il problema. E questo non solo non è sempre possibile ma, appunto, richiede pazienza, accantonare gli obiettivi di breve (che non sarebbero comunque raggiunti! … inutile illudersi), fare nuovi esercizi linguistici. Il portatore di interessi diventa così, pazientemente, un nuovo poeta, un nuovo creatore di retorica. Se genuina, seria e vera questa retorica si trasforma in power.

3. Winner but Target. Ottimo. Siamo i predatori. La verità è dalla nostra parte e abbiamo il potere di difenderla. Diventiamo però il target per tutti quelli che vogliono cambiare questa verità. Siamo il bersaglio. Il segreto qui è allo stesso semplice e drammatico. Il predatore non può smettere di predare, di fare paura. Al primo segno di debolezza si diventa prede. Non ci sono compromessi. Non ci sono mediazioni con i più deboli. Fare un passo indietro significa velocemente modificare il proprio status, rinunciare al proprio power, diventare potential looser.

4. Potential Looser. Siamo potenti. Facciamo paura. Ma il framing è negativo. La verità non ci da ragione e prima o poi… Dalla nostra abbiamo il potere di lavorare sui codici linguistici perché abbiamo la possibilità di affermare una nuova retorica nelle relazioni. In questa situazione non possiamo stare fermi. Dobbiamo essere agili e veloci perché è un corsa contro il tempo. Prima o poi il nostro potere sarà eroso se non modifichiamo il modo con cui il framing guarda al nostro interesse.

La due situazioni del looser hanno a che fare con “l’innovare il modo con cui si fa relazione”. E per noi innovazione significa modificare il codice linguistico. Diventare poeti significa diventare portatori di qualcosa di sensazionale, di nuovo stupore, di uno schock che ridesti le attenzioni e che faccia capire agli altri (al singolo, al gruppo o alla specie) che vale la pena di investire energie per accettare una nuova verità. Da dove nasce quanta capacità poetica? Dall’analisi delle conseguenze (l’uomo non vuole la verità, desidera conseguenze piacevoli). Ecco allora che l’analisi delle conseguenze, che non sempre il lobbista si ricorda di fare, diventa l’elemento critico. Il fattore di successo. Per capire le conseguenze bisogna diventare conoscitori delle dinamiche sociali, diventare esperti di un settore. Bisogna immergersi in profondità per riemergere con nuove intuizioni. Riemergere come nuovi poeti.

*Riconosco che esiste un problema anche etico nel lavoro del “costruttore” di verità che ha mio avviso esiste per qualsiasi costruttore, sia esso istituzionale o meno. Riconosco anche che per il lobbista il pregiudizio negativo che lo contrassegna implica una maggiore attenzione al tipo di comportamenti che adotta nei suoi tentativi di costruzione della verità.

Fonte: Infiniti Gesti

 

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Addio a Thomas Boggs, il più grande. “Tutti hanno bisogno di un lobbista” http://www.lobbyingitalia.com/2014/09/addio-a-thomas-boggs-il-piu-grande-tutti-hanno-bisogno-di-un-lobbista/ Tue, 16 Sep 2014 22:16:48 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2435 Thomas Hale Boggs Jr., l’erede di una dinastia politica che ha costruito una delle più importanti law & lobby firm di Washington, è moro lunedì per un attacco di cuore. Aveva 73 anni.

Nel suo portafoglio clienti aveva società quali AT&T Corp., General Electric Co. e Goldman Sachs Group Inc., e dal 1998 la sua Patton Boggs ha fatturato un totale di $525 milioni solo per attività di lobbying, il 20% più della seconda in classifica, secondo i dati estratti dal Lobbying Register americano. La sua tariffa da “hired gun” era di $550 l’ora.

Ma la reputazione della But Patton Boggs dipendeva più dalla personalita di Thomas Boggs che dall’enormità del fatturato. La sua infatti era una storia di successo, e Boggs non si vergognava affatto di raccontare ai media i retroscena del potere.

Conosciuto col nickname di “Tommy,” Boggs è stato l’avangurdia dei lobbisti che hanno conquistato Washington nella parte finale del XX secolo. Boggs usò le sue relazioni e il suo know-how per fondare la Patton Boggs nel 1966, dando il suo imprinting ad una law firm costituita quattro anni prima da Jim Patton e George Blow. “Ho fatto dei colloqui con i più importanti studi di  Washington e ricevuto alcune offerte”, raccontò Boggs nel 2012. “Ma pensai fosse più divertente entrare in uno studio agli inizi, e si è dimostrata un’ottima decisione. Invece di diventare parte di un grande studio, abbiamo costruito un grande studio”. “Mio padre pensava fossi pazzo – raccontò al Washingtonian – ma mi piace la sfida di inizare qualcosa di nuovo”.

Al momento dell’avvio della sua attività, Boggs aveva appena lasciato l’amministrazione di Lyndon B. Johnson, doveva aveva lavorato a stretto contatto col presidente.

La Patton Boggs crebbe rapidamente, arrivando ad occupare un complesso immobiliare di Georgetown, che divenne il quartier generale internazionale della società, mettendosi in luce quando Boggs ottenne nel 1979 (amministrazione Carter, democratico…) un prestito federale da 1,5 miliardi di dollari per la Chrysler.

Ma il boom arrivò nel 1992, con l’elezione di Bill Clinton, che nominò uno dei soci di Patton Boggs – Ronald H. Brown – Segretario al Commercio, mentre un altro – Lanny J. Davis – fun nominato consigliere speciale del presiCon l’occupazione repubblicana del Congresso nel 1994 Boggs cambiò strategia, assumendo molti avvocati/lobbisti in arrivo da quel mondo, ed alcuni danno anche a lui parte della colpa per le leggi sulla finanza che hanno poi portato alla crisi del 2008.

Negli ultimi anni Boggs era diventato chairman emeritus della Squire Patton Boggs, a seguito della fusione con la law firm internazionale Squire Sanders, e dopo un periodo tra qualche problema (relativo) passato per una revisione compelta della struttura, la società ha ripreso a gonfie vele, anche grazie all’attività di Boggs.

“Tutti hanno bisogno di un lobbista”, raccontò allo Washingtonian. “Tutti hanno bisogno di vedere i propri bisogni tradotti in ciò che i policymakers posso comprendere”.

Boggs era figlio di un deputato Thomas Hale Boggs (D-La.), che fu anche House majority leader nel 1971 e 1972. Suo padre e il deputato Nick Begich (D), padre dell’attuale senatore dell’Alaska Mark Begich (D), scomparvero durante un viaggio aereo in Alaska, e i loro corpi non furono mai trovati.

Dopo l’incidente, la madre di Boggs, Lindy, vinse le elezioni suppletive sostituendo il marito alla House of Representatives, e rimanendo in carica per quasi 20 anni.

Nel 2012 Tommy Boggs spiegò come la politica fosse parte della sua vita sin da giovane.

“La mia sorella più grande, Barbara, usava dire ‘Se andiamo a casa di amici vediamo antichità e meraviglie sulle pareti, ma a casa nostra la nostra specialità era vedere l’ex Speaker Sam Rayburn (D-Texas), Jack Kennedy, [ex Vice President] Hubert Humphrey. I politici di questa città erano la nostra collezione”. E infatti, Barbara divenne sindaco di Princeton (NJ), mentre la sorella più piccola Cokie fa la giornalista politica.

Il suo ex compagno di scuola, il Sen. Patrick Leahy (D-Vt.) ha ricordato come fosse il lobbista Boggs. “Veramente, veramente, efficiente. Con un attributo infallibile: ti diceva sempre la verità, anche se era qualcosa che non volevi sentire”.

Il leader della maggioranza democratica Harry Reid (D-Nev.) ha aperto la sessione parlamentare di lunedì con un tributo a Boggs.

“Tom Boggs era un’istituzione in questa città. Washington è un posto migliore perché Tommy Boggs è passato di qua”.

Un’altra qualità di Boggs era però certamente la sua capacità di raccogliere fondi per il Partito Democratico, anche se spesso interveniva per i Repubblicani. Ad esempio quando il suo collega lobbista Haley Barbour si candidò a governatore del Mississippi nel 2003, Boggs raccolse fondi per il Partito Repubblicano.

“Certamente supporto i democratici, ma quando vedo un repubblicano che penso sia davvero competente e bravo, un mio amico come Haley Barbour, tendo ad aiutarlo”, disse alla CNN nel 2003.

Boggs fu in prima fila lungo la crescita dell’industria dell’advocacy a Washington, iniziando la sua attività quando all’epoca nel DC c’erano sì e no solo 100 persone che identificano sé stesse come “lobbisti”.

Nel 1970 – aveva 29 anni – tentò momentaneamente di seguire le orme paterne in politica, ma la campagna elettorale in cui fu sconfitto lo cambiò, indirizzandolo verso quello che sarebbe diventato il suo percorso di successo.

“La cosa migliore che mi sia mai accaduta”, spiegò Boggs a Carl Bernstein (uno dei due giornalisti del Watergate) nel 2000, “fu essere battuto quando mi candidai per il Congresso”.

Fonti: The Hill, WSj, Washington Post

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Mazzei:«Io, lobbista doc esigo trasparenza» (Avvenire) http://www.lobbyingitalia.com/2014/09/mazzeiio-lobbista-doc-esigo-trasparenza-avvenire/ Tue, 16 Sep 2014 18:28:01 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2321 (Giovanni Grasso) Giuseppe Mazzei è un «lobbista» e se ne vanta. Anzi, afferma con orgoglio: «Rivendico la specificità della mia professione, che non va assolutamente confusa con quella dell’intermediario». O – ma Mazzei questa parola non la pronuncia – del ‘faccendiere’. Mazzei ha fondato un’associazione di lobbisti, ‘Il Chiostro‘, che è in prima fila per chiedere una legge di regolamentazione che assicuri il massimo di trasparenza.

Insomma, Mazzei: tra lei e un Bisignani che differenza c’è?
Facciamo un mestiere diverso.
Si spieghi meglio…
Il lobbista è un professionista che rappresenta specifici interessi, alla luce del sole e si occupa, prevalentemente, di produzione legislativa.
Non di procacciare affari.
Dunque, lei si reca in Parlamento e spiega ai deputati o ai senatori come dovrebbero scrivere una legge…
Spiego loro le possibili conseguenze per settori dell’economia o della società civile di una legge scritta male. Il parlamentare non può sapere
tutto. L’ascolto delle esigenze di chi opera in settori specifici diventa fondamentale proprio per produrre una buona legislazione.
Insomma, il lobbista è una sorta di avvocato del mondo dell’economia e del sociale in Parlamento.
Più o meno, è così. Ci occupiamo di migliorare la produzione normativa.
Il problema è che non si sa mai dove finisce l’ascolto e dove iniziano le pressioni indebite…
Proprio per questo, gli associati al Chiostro operano seguendo un rigidissimo codice deontologico.
Che cosa prevede questo codice?
Il massimo di trasparenza. Non devono occuparsi di appalti e gare. Non devono avere conflitti di interesse. E devono fare attenzione alla questione delicatissima dei finanziamenti ai partiti. I nostri associati hanno l’obbligo rigoroso di astenersi da finanziare partiti o candidati, in qualunque forma.
Compresi i regali?
Quelli di un certo valore, sicuramente. Una cosa è regalare un’agenda, un’altra pagare una settimana per due persone ai Caraibi.
Questo codice lo seguite voi. Ma gli altri?
Per questo è da tempo che chiediamo una legge che regolamenti il settore e che valga per tutti gli operatori. Abbiamo fatto una nostra proposta che abbiamo inviato anche al presidente del Consiglio Renzi.
E che cosa prevede questa vostra proposta?
Innanzitutto la creazione di un registro professionale obbligatorio e pubblico, a cui si deve iscrivere chiunque voglia fare lobby. L’iscrizione a questo registro comporta il rispetto di norme stringenti e sanzioni, pecuniarie e disciplinari, fino alla sospensione e alla radiazione,
per chi le viola.
Sono anni che il Parlamento tenta di fare una legge. Chi resiste, le lobby o la politica?
C’è molta gente, da una parte e dall’altra, che ha interesse a mantenere una zona d’ombra, all’interno della quale è difficile distinguere tra lecito e illecito.
Che ne pensa degli ex parlamentari che diventano lobbisti?
Che se vogliono fare lobby devono rinunciare a tutti i privilegi che gli spettano come ex parlamentari.
Per fare un esempio?
Per entrare nei Palazzi devono accreditarsi e indossare il badge come tutti gli altri.

(Fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 12 e 13 settembre)

Fonte: Avvenire

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Vi spiego perché a Renzi serve un lobbista. Parola di lobbista (Formiche.net) http://www.lobbyingitalia.com/2014/06/vi-spiego-perche-a-renzi-serve-un-lobbista-parola-di-lobbista-formiche/ Thu, 05 Jun 2014 17:35:50 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2359 (Alberto Cattaneo) I numeri sono drammatici e raccontano dell’impotenza di questo governo (e di tutti quelli passati in anni recenti) a produrre una legislazione di qualità che poi vuol dire credibile, certa e, soprattutto, applicabile. Invece i numeri raccontano una realtà diversa, quella delle leggi non attuabili perché necessitano di altri leggi (i cosiddetti decreti attuativi) che assomigliano a treni dei desideri che mai arrivano. I numeri dunque: il “Salva Italia” di Monti richiedeva norme attuative per il 22% dei suoi articoli, il “Cresci Italia” per il 40%, la Finanziaria 2013 per il 20% e l’elenco può continuare ancora a lungo fino a citare la cosiddetta delega fiscale che appunto delega la burocrazia dei ministeri a legiferare un pò su tutto l’universo. Gli esperti dei ministeri, ad oggi, devono scrivere più di mille e trecento decreti. Naturalmente con calma, oltreché con difficoltà. Risultato: ne mancano più della metà con casi curiosi tipo il Destinazione Italia, che avrebbe dovuto rilanciare il nostro Paese presso investitori esteri e che richiedeva 34 decreti attuativi di cui nemmeno uno è stato ancora scritto.

UN CONSIGLIO PER RENZI

Mi permetto di dare il consiglio a Renzi di coinvolgere nel suo staff qualche lobbista. Già perché il lobbista – e non il faccendiere con cui spesso viene confuso – difende interessi privati e per farlo deve essere in grado di promuovere una legislazione per l’appunto credibile, certa e applicabile. Se no, col cavolo che gli interessi vengono difesi. Poi questa legislazione promossa dai lobbisti può piacere o meno, può promuovere la difesa di un privilegio di casta o può supportare la liberalizzazione di un settore e così via, esattamente come lo è un programma politico di una parte o dell’altra e quindi di un interesse o di un altro. Può piacere o meno ma almeno avremmo delle leggi e non dei puzzle di cui manca sempre un pezzo.

NON SOLO PROVOCAZIONE

La mia è una provocazione? Sì certo. Ma solo in parte. In fondo i “lobbisti pubblici” già esistono e sarebbero i capi di gabinetto o i capi delle segreterie tecniche che devono promuovere gli interessi dei loro ministeri, con un “capo lobbista” nella figura del ministro per i rapporti con il Parlamento che ha, infatti, il compito di difendere gli obiettivi del governo nel momento in cui devono trasformarsi in legge (non me ne voglia nessuno ma per me la parola “lobbista” è positiva e non negativa). E allora perché non chiedere a qualche lobbista di lasciare il proprio lavoro e mettersi dall’altra parte? Perché non approfittare delle competenze dei lobbisti degli interessi privati e trasformarli in lobbisti dei cosiddetti interessi pubblici? Il “cosiddetti” è naturalmente d’obbligo.

LOBBISTI ALL’OPERA

Mi sbaglierò di certo, ma sono convinto che farebbero molto bene e che la qualità della legislazione sarebbe migliore perché, come i loro colleghi “privati”, dovranno essere premiati sui loro risultati. Vedremmo quindi i “lobbisti pubblici” partecipare alla stesura iniziale delle leggi; fare pressione sui tempi; partecipare direttamente ai tavoli tecnici dove nascono i decreti attuativi… Insomma, li vedremmo prendersi “cura” della qualità di una legge e quindi della reale difesa di un interesse.

BINGO

E se poi dovesse mai passare una legge sulla lobby (manca poco perché è prevista per giugno… forse…) sarebbe perfetto perché in un solo colpo garantiremmo trasparenza (perché la legge sulla lobby ha questo come obiettivo!) sia nel lobbismo privato che in quello pubblico. Bingo.

Fonte: Formiche

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Georgia, al via i nuovi limiti per i lobbisti http://www.lobbyingitalia.com/2014/01/georgia-al-via-i-nuovi-limiti-per-i-lobbisti/ Wed, 01 Jan 2014 18:14:48 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2050 Dopo una lunga discussione, durata per gran parte della sessione legislativa, è entrata in vigore oggi la riforma della normativa sul lobbying nello stato della Georgia (USA), e più in generale una serie di spetti connessi all’etica pubblica. La scadenza delle vecchie norme ieri ha consentito a molti deputati di ricevere grossi regali dell’ultimo minuto.

Tra le nuove previsioni approvate dall’assemblea statale, vi è la previsione di limiti di spesa per i lobbisti, anche se rimangono numerose questione in relazione all’applicabilità della norma.  La State Ethics Commission avrà il compito di interpretare la norma e fissarne le linee guida per il rispetto, un processo questo che però potrebbe prendere mesi

Secondo le nuove norme, i lobbisti non potranno spendere più di $75 per volta (ad es. per cene, eventi sportivi, ecc.), mentre sino a ieri non esistevano limiti. Ma una previsione del genere lascia ampio spazio ad elusioni, visto che, ad esempio, non vi rientrano gli eventi in cui sono ospitati  gruppi alla presenza di membri (anche solo invitati) della General Assembly. inoltre, il tetto di $75 ricade sui lobbisti, e non sui deputati, e sicuramente è probabile che un lobbista si faccia accompagnare per dividere la spesa e superare il limite previsto.

La norma sul lobbying in Georgia risale nell’ultima versione al 2011, all’interno di una regolamentazione generale relativa al finanziamento della politica. Essa definisce lobbista ogni individuo pagato o che spenda almeno $1.000 l’anno nel cercare di influenzare soggetti pubblici, prevedendo però tutta una serie di esclsuioni e limiti (ad es. se si è convocati, o si lavora su gare d’appalto, ecc.). In sintesi, lo spirito della norma è quello di gettare luce su tutti i rapporti tra privati e amministrazione.

Previsto un registro (con tassa annua di $300) e sanzioni (fino a $1.000 per i ritardi nell’aggiornamento dei dati, $2.000 per false dichiarazioni) che possono arrivare sino all’esclusione dal registro stesso. Ai lobbisti tocca poi la redazione di una rapportistica periodica accurata. Previsto anche un limite alla revolving door per un anno per gli ex funzionari pubblici.

Interessante anche la nuova norma imposta ai vendor, che entro l’1 febbraio 2014 dovranno presentare una dichiarazione relativa ai regali fatti ad impiegati della pubblica amministrazione nel caso sia stato superato il tetto complessivo di $250.

Le norme della Georgia arrivano dopo anni di critiche alla general Assembly, che avevano visto lo Stato del sud precipita all’ultimo posto della classifica dell’Integrity Index redatta dal Center for Public Integrity.

 

 

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Professione lobbista: chi sono e cosa fanno (Linkiesta) http://www.lobbyingitalia.com/2013/12/professione-lobbista-chi-sono-e-cosa-fanno-linkiesta/ Mon, 23 Dec 2013 12:27:01 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2356 (Maurizio Di Lucchio) I lobbisti chiedono regole stringenti. Ma il governo Letta ha rinviato l’obbligo di registrazione

Chi lo fa di mestiere assicura che nel settore di lavoro ce n’è. Basta prepararsi e non avere imbarazzi nel dire: «Faccio il lobbista». «Per anni quella dell’esperto di lobbying è stata l’unica professione in crescita nel mondo della comunicazione», spiega Fabio Bistoncini, fondatore dell’agenzia di consulenza Fb & Associati e autore del libro Vent’anni da sporco lobbista. «Chi ha le competenze e la capacità, anche in tempi di crisi, non fa troppa fatica a trovare un impiego in questo comparto».

Anche se si tratta di un ambito di nicchia, il richiamo dell’occupabilità potrebbe far guadagnare una fama migliore al ruolo di lobbista, che per lungo tempo in Italia è stato identificato nell’immaginario collettivo con il personaggio oscuro pronto a tutto, anche alla corruzione, pur di tutelare gli interessi di una determinata categoria.

Tuttavia, possibilità di assunzioni a parte, già negli ultimi anni la figura del “responsabile delle relazioni istituzionali” (o “public affairs specialist”, per dirla all’inglese) ha cominciato a conoscere una buona reputazione. Anche al di fuori delle aziende, sono tanti quelli che la considerano un’attività dignitosissima, che richiede studio, competenza e passione.

Ma chi è il lobbista? E cosa fa di preciso? «È un tecnico – dice Bistoncini – che rappresenta un gruppo di interesse e che ha l’obiettivo di comunicare con chi gestisce il processo decisionale per influenzarlo, cercando per esempio di modificare una normativa specifica oppure, ed è ciò che si definisce advocacy, tentando di inserire un tema all’ordine del giorno nell’agenda politica».

Concretamente il lobbying consiste nell’intrattenere rapporti quotidiani con i decision maker, termine ormai passato nel linguaggio comune per intendere le persone che prendono decisioni ai vari livelli di governo, presentare richieste motivate («spesso ci presentiamo già con gli emendamenti pronti», aggiunge il fondatore di Fb & associati) e rispondere alle controdeduzioni dei politici cercando di rendere comprensibile ogni contenuto in poco tempo.

Non a caso, la frase più citata quando si parla di public affairs è quella di J. F. Kennedy: «I lobbisti sono quelle persone che per farmi comprendere un problema impiegano 10 minuti e mi lasciano sulla scrivania cinque fogli di carta. Per lo stesso problema i miei collaboratori impiegano tre giorni e decine di pagine».

Stabilire quanti siano gli specialisti di lobbying in Italia è impresa ardua perché non c’è ancora una normativa che imponga l’iscrizione in appositi albi professionali. Al momento, l’unica grande istituzione che ha voluto un elenco ufficiale è il ministero dell’Agricoltura. Mentre il ddl preparato lo scorso luglio dal governo Letta, che prevedeva appunto la creazione di un registro per i lobbisti che hanno rapporti con le pubbliche amministrazioni e la registrazione obbligatoria, è stato rinviato a data da destinarsi.

È noto però che molte di queste figure sono interne alle aziende e altre fanno consulenza nell’ambito di agenzie specializzate (in Italia ce ne sono una decina) o di studi legali. Poi ci sono singoli consulenti che lavorano in proprio. Le associazioni che rappresentano gli interessi di chi fa lobbying in Italia sono due: Il Chiostro e Ferpi (Federazione relazioni pubbliche italiana), che ha al suo interno una sezione dedicata a questi professionisti. Ma solo una parte dei lobbisti italiani è iscritta a queste organizzazioni.

In questo settore, si diceva, le opportunità di lavoro non mancano. Lo conferma anche Francesco Delzio, fondatore e condirettore del master post lauream in Relazioni istituzionali, lobby e comunicazione di impresa dell’Università Luiss di Roma: «È una sorpresa positiva vedere come anche in questi ultimi anni di crisi le aziende siano sempre più in cerca di queste figure e vadano a caccia di profili nuovi e più ispirati al modello anglosassone, dove le capacità del lobbista contano più del suo network di conoscenze. Ed è questo il tipo di professionista che intendiamo formare».

Per diventare specialista in relazioni istituzionali quindi è necessario un percorso formativo diverso rispetto al passato: «Se prima a fare questo mestiere erano soprattutto ex politici ed ex assistenti e collaboratori di politici – continua Delzio, che è anche direttore Relazioni esterne, affari istituzionali e marketing di Autostrade per l’Italia –, ora le imprese richiedono manager che abbiano competenze ampie in diritto, economia e comunicazione».

Nello specifico, secondo il condirettore del master Luiss, bisogna possedere una conoscenza approfondita del diritto pubblico a tutti i livelli (regionale, nazionale, comunitario e internazionale), essere in grado di misurare l’impatto di un provvedimento sul conto economico di un’azienda, muoversi agevolmente nella lettura di un bilancio, capire di micro e macroeconomia e padroneggiare le tecniche e gli strumenti della comunicazione, sia offline che online.

«Si è bravi quando si è capaci di costruire consenso intorno alla posizione che si sostiene», conclude il manager. «E lo si deve fare anche attraverso i media: l’obiettivo è far capire che con un certo provvedimento non si avvantaggia solo un gruppo di interesse ma tutta la comunità. La nostra funzione è nobile e determinante per la democrazia. Le strutture tecniche all’interno delle istituzioni si stanno indebolendo e siamo noi, in molti casi, a informare i decisori e a spiegare loro come funzionano certi settori».

Si potrebbe obiettare che i dati forniti dai gruppi di interesse possono essere opachi e parziali. Finora però quelli che hanno invocato più regole per il settore sono stati i lobbisti stessi. E sono stati i decision maker a non introdurre una regolamentazione stringente. Non sarà forse perché la trasparenza può creare qualche imbarazzo di troppo alla politica?

Fonte: Linkiesta

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Frenare la revolving door tra pubblico e privato http://www.lobbyingitalia.com/2013/11/frenare-la-revolving-door-tra-pubblico-e-privato/ Thu, 14 Nov 2013 11:18:06 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=1825

(The New York Times) E’ stata definita “corrotta”, “corrosiva” e “pericolosa per la nostra salute”. Ma la revolving door di Washington continua a girare.

Numerosi procuratori, regolatori, assistenti parlamentari, continuano ad entrare attraverso la metaforica porta che fa viaggiare rappresentanti dell’amministrazione avanti e indietro col settore privato. I funzionari in questione si mettono quindi alle spalle la loro vita al servizio del settore pubblico per un salario a sei zeri in studi legali e società di lobbying, facendone uno stile di vita a Washington e a Wall Street.

Il libero mercato idealmente indica questo scambio continuo come perfettamente legale, se non come desiderabile. Perché dei relativamente sottopogati impiegati pubblici non dovrebbero cedere le proprie competenze per una paga migliore, e forse anche ua vita migliore, nel settore privato?

Mentre è comunque possibile per loro farlo, rimane il timore che questa “revolving door” spinga alla creazione di quella sorta di cultura da club in cui regolatori e procuratori possano andarci leggeri ad esempio sulle banche in vista di lavori futuri. E una volta passati nel privato – affermano i critici – c’è la possibilità che possano esercitare un’influenza non adeguata sui propri ex colleghi ancora in carica.

Il problema sta da entrambe le parti. Il pubblico è allo stesso modo scettico in relazione agli interessi degli avvocati di Wall Street che vanno a fare i regolatori per la Securities and Exchange Commission (la CONSOB americana, NdT), essendoci il pensiero che questi non taglino mai realmente i ponti con l’industria di provenienza.

Per rispondere a queste questioni, alcuni gruppi per la trasparenza, ex funzionari pubblici e persino la Casa Bianca, stanno spingendo delle policies mirate a meglio proteggere l’interesse pubblico. L’amministrazioen Obama fatto i primi passi al riguardo, aumentando le restrizioni per i funzionari di nomina presidenziale.

Ora però, gruppi quali Public Citizen e Project on Government Oversight, puntano a qualcosa in più, a restringere ancor di più la revolving door, a partire da un aumento dello stipendio per alcuni funzionari pubblici sino a $400,000. Tra le policies proposte ci sono poi la richiesta alle agenzie di rendere pubbliche via web le riunioni con i lobbisti delle industrie e aumentare il periodo d- attualmente di un anno – di cooling off, il pempo cioè prima del quale un funzionario non può assumere un incarico in un’azienda privata precedentemente sottoposta al suo controllo.

La proposta più recente è di Sheila C. Bair: un bando a vita mirato ai regolatori, i quali non potrebbero andare a lavorare per le società sottoposte al loro controllo una volta cessati dalla carica. La Bair, che è un ex regolatore nel settore bancario che ha chiuso la revolving door, afferma che un divieto del genere potrebbe togliere ogni incentivo ai regolatori di fare favori a Wall Street. “Cambierebbe la mentalità dei regolatori“, ha affermato la Bair, ex capo del Federal Deposit Insurance Corporation e ora senior adviser del Pew Charitable Trusts.

Al momento gli avvocati dell’accusa già sono sottopostio ad un bando a vita sui casi su cui hanno lavorato. Ma un eccesso di regole – dicono i critici della proposta – potrebbe impedire alla pubblica amministrazione dall’attrarre i migliori talenti.

L’obiettivo di Sheila Bair non è quello di eliminare la revolving door. Ma in ogni caso la sua idea potrebbe bloccare il percorso di carriera di molti avvocati nella S.E.C. Gli ultimi sei capi della S.E.C. dopo aver lasciato l’incarico sono andati a lavorare per grandi società quali JPMorgan Chase e Bank of America. Robert S. Khuzami, ex pubblico ministero federale occupatosi spesso di casi di terrorismo ma che per la SEC ha seguito una serie di questioni durante la crisi finanziaria quale Direttore della Divisione Enforcement, recentemente è diventato un socio da Kirkland & Ellis (grande studio legale specializzato in corporate and tax, NdT).

In un’intervista, Khuzami ha sottolineato come molti funzionari della S.E.C. fossero impiegati di carriera. Secondo uno studio del Government Accountability Office, il periodo medio di servizio di un funzionario  S.E.C. prima di lasciare l’incarico è passato recentemente a una media di 13,5 anni nell’anno fiscale 2010 dagli 8,3 del 2006.

Certmanete, c’è un’altra scuola di pensiero che afferma che la revolving door rende più efficavce l’azione dei regolatori su Wall Street. Questo perché chiunque voglia accendere i riflettori sugli angoli bui dell’industria finbanziaria deve sapere dove guardare.

Quando la S.E.C. non ha notato i segnali della crisi finanziaria, l’autorità ha riconosciuto di non aver abbastanza esperienza del settore privato per riuscire a fermarne i comportamenti sbagliati. Un argomento che ricorda una frase del presidente Franklin D. Roosevelt, che scelse il finanziere Joseph P. Kennedy quale primo chairman della S.E.C. perché Kennedy “sapeva dove fossero sepolti i corpi”.

Khuzami, già avvocato della Deutsche Bank prima di andare alla S.E.C., ha adottato una filosofia simile. Dice di comprendere le preoccupazioni sulla revolving door, ma questiona sulla possibilità che questa possa compromettere le indagini. Infatti, ogni caso gestito dalla enforcement unit dell’autorità passa sotto il controllo commissioners della S.E.C. e di altre divisioni della stessa, oltre a a quello di dozzine di investigatori. “Alla S.E.C., nessuno può mettere mano inappropriatamente“, dice Khuzami.

Al riguardo gli stdui esistenti fornisco opinioni divergenti. I funzionari della S.E.C. puntano uno studio dello scorso anno realizzato da un gruppo specializzato di commercialisti che ha messo in rislato come la revolving door abbia rafforzato il risultato dei controlli. Contrariamente al credo popolare, gli avvocati della S.E.C. tendono ad usare la linea dura proprio per mostrare le loro capaciotà a possibili futuri datori di lavoro. Il report inoltre non ha mostrato evidenze che studi legali con molti ex funzionari S.E.C. “potessero esercitare alcuna influenza sugli sforzi di enforcement in corso”.

Dall’altra parte però, uno studio del Project on Government Oversight afferma che ex funzionari della S.E.C. sono riusciti ad ottenere risultati favvorevoli da parte dell’autorità. A mettere in rilievo queste preoccupazioni, lo studio cita la regolamentazione sul mercato delle valute e la gestione delle istanze contro JPMorgan Chase e UBS.

Un rimedio sarebbe quello della trasparenza,. Secondo l’organizzazione la S.E.C. dovrebbe postare delle dirette web dei meeting con avvocati e lobbisti, o fornire almeno un dettagliato rapporto degli stessi. Il gruppo chiede inoltre alla S.E.C. di fornire – nei due anni successivi all’abbandono dell’incarico – l’accesso online ai registri personali degli ex funzionari che interagiscono con l’autorità. Al momento questi documenti sono disponibili, ma solo dopo una richiesta di accesso attraverso il Freedom of Information Act.

Visto che la S.E.C. fa già il lavoro di raccolta dati, perché non renderli pubblici online?” dice Michael Smallberg, un investigatore per il gruppo. “La trasparenza è la base per eliminare i conflitti di interessi”. ma non l’unica. Smallberg e altri suggeriscono la restrizione delle regole che possono avere dei “buchi”.

I dodici mesi di “cooling off” previsti per la S.E.C., come per altre agenzie e per il Congresso, è un naturale punto di partenza. Una legge del 1989 previene gli assistenti parlamentari dal fare lobbying per un anno sui loro ex datori. La S.E.C. e altre agenzie hanno adottato simili divieti, e alcune li hanno anche rafforzati. Ma, tipicamente, sono divieti che si applicano solo ai livelli top. o a quelli che guadagnano più di $155.000 all’anno. Ma il bando, secondo i “watchdogs” americani, dovrebbe essere esteso a tutti i funzionari pubblici, e portato a due anni.

La Casa Bianca ha imposto delle sue restrizioni. Nel primo giorno in carica, il presidente Obama ha emanato un executive order che vieta a tutti i funzionari di nomina presidenziale dal fare lobbying sull’amministrazione dopo averla lasciata, in pratica imponendo un bando di otto anni sui capi di S.E.C., F.D.I.C. e altre autorità di regolamentazione. Inoltre, i nominati debbono ricusarsi per almeno due anni da questioni legate – “direttamente o sostanzialmente legate” – ai lori ex clienti o datori di lavoro.

Mentre gruppi quali Public Citizen hanno esultato per la decisione di Obama, il timore è che al termine del secondo mandato presidenziale – gennaio 2017 – terminerà anche la vigenza dell’executive order. E con davanti poco più di tre anni, Public Citizen sta premendo sul Congresso perché questo converta l’order in legge. “Ha avuto un effetto fenomenale sulla qualità e l’integrità dell’Amministrazione” ha dichiarato Craig Holman, lobbista di Public Citizen, il cui report “Una questione di fiducia” ha posto le basi per l’executive order di Obama.

I watchdog groups affermano inoltre che salri più alti per gli alti funzionari potrebbero scoraggiare il passaggio attraverso la revolving door. Alcuni suggeriscono che i circa $100.000 di stipendio attuali di un funzionario dovrebbero salire a mezzo milione. Sheila Bair afferma di aver supportato l’idea che molti funzionari di controllo delle banche guadagnassero $400.000. L’altra sua idea, il bando a vita sui funzionari, va persino oltre. E’ un piano senza precedenti, ispirato al programma del Foreign Service dello State Department per le carriere dei diplomatici. Una misura questa, secondo la  Bair, che potrebbe eliminare l’idea che i regolatori sono al soldo delle banche, e rimuovere ogni incentivo ai regolatori stesi di “fare felice” Wall Street. “Vogliamo che entrino nelle bache con la testa libera“, afferma.

 

Fonte: The New York Times (11 novembre, 2013)

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Lobbista: un mestiere d’oro http://www.lobbyingitalia.com/2013/07/lobbista-un-mestiere-doro-formiche/ Mon, 22 Jul 2013 14:52:17 +0000 http://www.lobbyingitalia.com/?p=1721 (Gianluca Sgueo) Quello della crisi occupazionale dei giovani è un problema non più recente – nel senso che esiste, e se ne parla, da tempo – e purtroppo di grande attualità. L’Italia, tra le tante economie occidentali, è quella che ne sconta più severamente le conseguenze.

Per tante ragioni. Anzitutto – e soprattutto – perché siamo un Paese che invecchia, e lo fa troppo rapidamente. Poco più di venti anni fa la classe dirigente italiana aveva un’età media di 56 anni. Appena pochi anni più tardi, nel 2004, l’età media era salita a 61 anni. Un invecchiamento diffuso tanto nel settore pubblico quanto in quello privato. Basti pensare, per il settore privato, che nelle società quotate in borsa l’età media del management è di poco superiore ai 52 anni. Ma è il settore pubblico quello che riflette il divario più consistente. Il governo tecnico di Mario Monti ne ha dato la prova. Con 64 anni è stato il governo con l’età media più alta, sia rispetto ai 58 governi che lo hanno preceduto, a partire dal 1948; sia rispetto ai 27 esecutivi europei in carica al momento in cui il Presidente dell’università Bocconi ha giurato di fronte al Capo dello Stato. Un altro celebre governo tecnico, quello guidato da Lamberto Dini, aveva un’età media di 62 anni. Peculiarità dei governi tecnici? Nient’affatto. Nemmeno i governi politici hanno mai brillato per la giovane età dei propri componenti. La media, dal dopoguerra a oggi, è di 56 anni. Ben 634, tra ministri e capi di governo, si collocano nella fascia d’età compresa tra i 50 e i 59 anni. Molto nutrita anche la componente dei sessantenni (311 in totale).

È questo il quadro desolante della classe dirigente. Che, del resto, non può essere la sola colpevole. L’età media degli italiani non va affatto meglio. Siamo fermi a 43 anni e mezzo, troppi per la popolazione della settima economia al mondo. Il nostro tasso di fertilità è ridicolo. In una classifica di 222 nazioni, ci piazziamo alla (poco entusiasmante) 201esima posizione. Il tutto tenendo sempre bene a mente che se non fosse per i flussi migratori in entrata, quelli di cinesi, indiani ed europei dell’est, questi numeri sarebbero di gran lunga peggiori.

di qui al secondo motivo, che riguarda la capacità di competere dei giovani. Le occasioni di sviluppo professionale esistono ancora. Ma spesso non sono valorizzate. Ogni giorno viene pubblicata una nuova ricerca che svela i lavori per cui si cercano risorse umane, e si fa difficoltà a trovarne. Vorrebbero essere tutti avvocati, medici, commercialisti o magari giornalisti. Mentre l’informatica, alcune branche dell’ingegneria, e l’agricoltura specializzata fanno fatica a trovare nuove leve. Nel 1993 l’industria italiana aveva bisogno di circa undici tecnici ogni cento laureati. Oggi avrebbe bisogno del doppio. Peccato che siano sempre meno i diplomati di istituti di formazione professionale.

E fa fatica, a modo suo, il lobbismo. A modo suo perché si tratta di un settore versatile, capace di valorizzare competenze diverse, in discreta espansione e con buoni margini di miglioramento. Insomma, un settore che se non soffre una mancanza endemica di lavoratori nemmeno li trova con facilità. Perché i nostri giovani ce la mettono tutta per non qualificarsi.

A cominciare dall’istruzione. Parlare della giungla formativa del lobbying e public affairs è argomento troppo lungo, ci tornerò. Bastano però i dati generali. In particolare quelli sul mediocre livello di alfabetizzazione rispetto agli altri Paesi europei. La media OCSE dei diplomati, spalmata su tutte le fasce d’età, è del 73%. In Italia la media scende paurosamente, arrivando a malapena al 54%. Significa che poco più della metà hanno un “pezzo di carta” in mano, gli altri si sono fermati alla scuola dell’obbligo. Le nuovissime generazioni – quelle che, per capirci, abbracciano la fascia d’età tra i 25 e i 34 anni – faticano a tenere il ritmo con i coetanei francesi, tedeschi, spagnoli, inglesi o nordamericani. Sono appena 7 su 10 i giovani italiani in possesso di un diploma di scuola media superiore. Vi basti pensare che in Germania sono l’85%, in Canada l’89%. Negli Stati Uniti raggiungono addirittura il 91%.

Chi completa gli studi, poi, non è detto che si interessi al “pane quotidiano” del lobbista. Non parlo dei Neet (il cui potenziale sprecato, per inciso, costa all’Italia oltre 27 miliardi di Euro l’anno, pari a circa l’1,7% del prodotto interno lordo) ma della poca abitudine a leggere un quotidiano (non parliamo di leggere più di un quotidiano) e della poca conoscenza delle istituzioni e delle figure istituzionali.

Quei pochi che superano tutti gli ostacoli, e cioè completano un percorso formativo adeguato (e possibilmente nei tempi), conoscono almeno una lingua oltre a quella di appartenenza, si informano e hanno sviluppato la capacità critica necessaria per svolgere il mestiere, non solo vanno incontro a stipendi più che discreti, ma hanno anche l’imbarazzo della scelta. A Bruxelles si inizia intorno ai 2500 lordi, per arrivare a prenderne il triplo (qui un reportage de Gli Euros).

E in Italia? I conti li ha fatti Franco Spicciariello, (vai alla presentazione coi numeri sul lobbying) lobbista e organizzatore del primo master in relazioni istituzionali presso l’università privata Lumsa. In sintesi “Se negli Stati Uniti la spesa totale in attività di lobbying è passata da 1,44 miliardi di dollari del 1998 a 2,2 miliardi nel 2005, quella europea si aggira oggi tra 750 milioni e 1 miliardo di euro l’anno.In Italia mancano dati ufficiali,ma credo che per il lobbying in senso stretto possiamo stimare un valore intorno al 10% di quello europeo». Tradotto significa che, a seconda del ruolo, si guadagnano tra i 35mila e i 350mila euro annui.

Un mestiere d’oro. Se ci fossero le qualifiche.

 

Fonte: Formiche.net

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Le mie arance a un lobbista di rango http://www.lobbyingitalia.com/2011/06/le-mie-arance-a-un-lobbista-di-rango/ Fri, 17 Jun 2011 12:11:40 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2009 Se c’è, il reato di Bisignani sta nell’avvisare una persona corretta come Letta che magistrati disinvolti vogliono incastrarlo nel quadro del solito attacco al giro del Cav. I raider virtuisti non hanno nulla da insegnare

Faccendiere è lo spregiativo per lobbista,che già di per sé non suona onorevole in un clima di ipocrisia perbenista. Sta di fatto che il potere italiano, per funzionare, sta da sempre con un piede nelle regole e con un piede fuori. E la società italiana, sempre per poter funzionare, fa lo stesso. Luigi Bisignani è da molti anni un lobbista di rango. Ha una robusta rete di relazioni in ogni ambiente sociale e politico e imprenditoriale. Combina rapporti d’affari, maneggia le informazioni economiche e politiche riservate, è un esperto conoscitore delle burocrazie e del management pubblico, briga per le nomine dei potenti di stato, garantisce tutti con la sua riservatezza (o almeno garantiva un tempo i suoi interlocutori con quell’azione sottotraccia che è la specifica competenza di chi fa il suo mestieraccio).

Sono legioni quelli come lui, Prodi ha i suoi informatori riservati, i suoi amici di banchieri e di manager pubblici, i suoi ometti per la politica estera, e per mille relazioni speciali sottopelle, e così li hanno i D’Alema e i Casini e i Fini e i Bersani e tutti gli altri politici di peso, per non parlare degli imprenditori. Qualcosina di simile succede anche in Europa, nelle democrazie nordiche, in America. Qualche volta quel tipo di lobbista molto avventuroso e trasversale che è Bisignani ha lavorato per facilitare i contatti e la conoscenza di causa (riservata) di alcuni di loro, i puri di cuore.

L’accusa di associazione per delinquere elevata contro di lui da un Henry John Woodcock, la solita P seguita da un numero progressivo, è caduta alla prima verifica di un giudice terzo, è rimasto il “favoreggiamento personale” che lo ha portato, evidente esagerazione, ai domiciliari. Bisignani ha asserito di aver informato alcuni suoi amici politici, tra i quali Gianni Letta, di intrighi giudiziari a carico loro e di loro colleghi, tra questi il nostro Denis Verdini.

Siccome ho cercato di capire come stanno le cose nel caso di Letta e Verdini, quello relativo agli appalti post terremoto, posso dire che, se sia stato compiuto, il reato consiste nell’avvisare una persona corretta come Letta che magistrati disinvolti stanno cercando di incastrarlo nel quadro del solito attacco mediatico-giudiziario a un politico influente del giro di Berlusconi, oltre che a un vecchio protagonista del potere romano dalla Prima Repubblica ad oggi, ciò che in effetti è avvenuto. Mi pare un comportamento benemerito, nell’Italia di oggi, così com’è. E se lo condannassero per favoreggiamento personale (ma il processo è il fango sui giornali, quello giudiziario finisce quasi sempre in burla), a Bisignani porterò le arance.

Il lobbista arrestato era nelle liste della P2 prima di avere compiuto trent’anni, il che non è segno di abominio sebbene denoti una certa disinvoltura, che a quel bel tipo spiccio, intelligente, veloce, non è d’altra parte mai mancata. Fu un mio eroe quando in televisione negò spavaldamente davanti a un furbo procuratore in crociata, Antonio Di Pietro, di aver fatto quello che poi fu condannato in giudizio per aver fatto, la messa in sicurezza nelle casse del Vaticano di una parte della tangente Enimont destinata ai partiti politici di governo. Ai miei occhi il sostituto procuratore e futuro capo partito che lo interrogava stava scassando con mezzi abnormi una vecchia democrazia marcita che doveva essere rinnovata nella e dalla politica, non da una campagna forcaiola, tendenziosa, a senso unico; e il suo imputato era uno dei tanti brasseur d’affaires o power broker che nel sottobosco delle istituzioni e dell’economia italiana (da Agnelli a Gardini) si erano resi utili al funzionamento materiale di un paese semilegale, e ora con la sua impudenza difendeva una certa dignità del suo lavoro (dicono gli americani: è un lavoro sporco, a dirty job, ma qualcuno dovrà pur farlo).

Avevo conosciuto Bisignani una decina d’anni prima di quello spettacolo processuale fantastico, che fu poi replicato con la stessa spavalderia da un altro mio vecchio amico, Primo Greganti, il compagno G. Lavorava all’Ansa e Lino Jannuzzi mi diede il suo numero di telefono per avere informazioni politiche riservate, da raccontare ai lettori di un giornale radical-socialista di breve vita che si chiamava Reporter, dove feci come notista politico una parte del mio praticantato giornalistico, e allora le informazioni riservate non erano reato. Fu abbastanza utile, e qualche tempo dopo presentai volentieri un suo libro al teatro Eliseo con Giulio Andreotti. Era un libro di spionaggio, un romanzo, gradevole ma niente di speciale. Non definii Bisignani “il Ken Follet italiano”, come ha scritto Alberto Statera ieri su Repubblica, quella dizione era la fascetta editoriale del libro, non una mia banalità. Dice Statera che Bisignani mi avrebbe introdotto in Vaticano, come una tangente qualsiasi, per darmi arie da ateo devoto, ma anche questo è falso: ho più entrature nei bordelli di Macao che nella Santa Sede, e le mie guerre culturali me le sono sempre fatte in proprio e con pochi amici. Comunque le amicizie o le frequentazioni amichevoli, per natura disinteressate, non si rinnegano nella grazia e nella disgrazia. Il lobbista che lavora sui gruppi di interesse non è un modello etico, ma censurarlo con argomenti virtuisti su un giornale edito da un rispettabile raider con la residenza in Svizzera mi sembra il colmo.

Quel che impressiona i moralisti veri, che guardano le cose con malinconico attaccamento alla loro infinitamente triste verità, è che i giullari del perbenismo, gli uomini che si dicono liberi e inconcussi, integerrimi datori di lezioni, non hanno alcun interesse a correggere questo andazzo. Diffidano delle libertà politiche e di mercato che sono la cura, insieme con un vero stato di diritto, dei mali che denunciano. Osannano il carisma rigeneratore di una casta giudiziaria che li tutela finché può e prende parte alla lotta politica negando la giustizia. Si fingono un mondo ideale inesistente e così impediscono al mondo reale di esprimere la sua vera eticità, che è sempre ambivalente, precaria, reversibile, storta, ma ha la sua radice nel demone personale di ciascuno e nelle scelte pubbliche e politiche di tutti, non nella morale delle lobby pro tempore vincenti.

 

Fonte: Giuliana Ferrara – Il Foglio

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