honest leadership act – LobbyingItalia http://www.lobbyingitalia.com Blog dedicato al mondo delle lobbies in modo chiaro e trasparente Tue, 03 May 2016 17:24:01 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.4.2 The Unlobbyists – The New York Times http://www.lobbyingitalia.com/2014/01/the-unlobbyists-the-new-york-times/ Fri, 24 Jan 2014 21:00:28 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2057 La natura mutevole della politica ha rimodellato la lobbying, e non necessariamente verso scenari peggiori. I decisori de “l’industria dell’influenza” di Washington stanno perdendo terreno a favore di una nuova “specie”.

La figura del consulente strategico che non si sporca le mani, che prende le distanze dall’umile lavoro dei membri meno in luce del Senato e della Camera dei Rappresentanti, e dalla seccatura di ricordarsi a memoria i nomi dei presidenti delle commissioni, rappresenta una realtà emergente ed in crescita. E poco importano i fund-raiser “celati”.

Se diamo un’occhiata ai dati, potrebbe sembrare che la lobbying sia in declino, ma non è così; sta solo assumendo forme differenti. Ciò che una volta era lobbying palese e diretta è diventata, a tutti gli effetti, una vera e propria operazione di PR-advertising-social media a pieno servizio, della quale solo una piccola parte è coperta dalla regolamentazione federale.

In un settore colpito dal collasso economico del 2008, dalla stasi legislativa nelle aule del Campidoglio, dall’affermarsi di competitor nel settore high-tech e dall’approvazione del Honest Leadership and Open Government Act of 2007 (con il quale i lobbisti vengono imbrigliati in un rigido regime regolatorio che contempla anche la minaccia di sanzioni penali ed incarcerazione), questo spostamento nell’industria dell’influenza pone una questione più ampia. I lobbisti ruffiani ed opportunisti, che si aggirano con buste di assegni provenienti dai PAC e con proposte di emendamenti legislativi in favore dei propri clienti, hanno i giorni contati?

 

Carter Eskew, uno dei founding partner del Glover Park Group, che svolge attività di lobbying e fornisce un mucchio di altri servizi ai propri clienti, ha sollevato questa stessa questione durante un nostro dialogo. Con un occhio verso nuove fonti di ricavo, Eskew ha concluso che “il lobbying relazionale è morto, o quantomeno non è un settore in crescita”. Il lobbista tradizionale – afferma – non è più l’eminenza grigia che era in passato, ma si è ridotto, invece, a fungere da tramite, per ciò che concerne i contributi per le campagne, tra i PAC – per lo più appartenenti all’universo corporate e al mondo industriale – ed i candidati.

Il fulcro del discorso si è poi spostato sul significato del concetto che, tra gli addetti ai lavori, è noto con il nome di strategic advice: come mobilitare votanti ed élite d’opinione a supporto dell’agenda del cliente. A detta di Eskew “diversi anni fa, i membri del Congresso si sono resi conto che quello di cui dovevano realmente preoccuparsi erano i propri gruppi nei collegi elettorali ed i loro stessi elettori”.

Quindi, qual è esattamente il ruolo ricoperto dagli strategic adviser? Possono panificare completamente una campagna elettorale, o una campagna che influisca sull’implementazione di una regolamentazione, determinano con quali funzionari e con quali enti/agenzie interagire e propongono potenziali partner di coalizione.

Curiosamente, tutto ciò può essere fatto senza stabilire contatti diretti con i funzionali eletti, con gli assistenti dei parlamentari e con dipendenti e delegati di enti e dipartimenti principali. Questo tipo di approccio permette allo strategic adviser di aggirare l’obbligo di registrarsi come lobbista e di corrispondere i cosiddetti “reporting requirements”.

Ed Gillespie, ex presidente del Republican National Committee e uno dei consulenti più fidati di G.W. Bush, incarna l’arte del “camuffamento calibrato” proprio dei migliori strategic operative. Dal 2000 al 2007, in partnership con Jack Quinn – che fu a capo dello staff dell’ex Vicepresidente Al Gore – Gillespie ha gestito una delle società di lobbying di maggior successo di Washington, Quinn-Gillespie. Durante questo periodo, i ricavi della società sono più che raddoppiati, passando da 7.6 a 18 milioni di dollari.

Gillespie ha lasciato la società nel 2007 per entrare nello staff di Bush come consulente. Da quel momento in poi, Gillespie è scomparso dalle fila dei lobbisti registrati. Nel 2009 ha fondato la Ed Gillespie Strategies. La società afferma con orgoglio:

“Dopo 25 anni nel mondo della politica, del governo e del business, Ed Gillespie è emerso come uno dei migliori Communication Strategist d’America. Sa perfettamente quali sono le strategie migliori per veicolare le informazioni e rafforzare “l’immagine” nel caotico e turbolento ambiente mediatico di oggi. Dopo due decadi nel settore pubblico e privato, Ed Gillespie ha costruito e gestito con successo varie coalizioni impegnate nei settori di policy più disparati: dalle imposte sui consumi, alla riforma della crittazione, fino alla regolamentazione energetica. Gode dell’abilità manageriale necessaria a creare le infrastrutture, a gestire i meeting, a coordinare forti personalità, a veicolare informazioni e ad implementare accordi in merito a strategie e tattiche.”

Nessuna di queste attività necessita ne della registrazione come lobbista, ne della predisposizione di una fee-disclosure.

In un faccia a faccia tenutosi il 30 di ottobre con degli studenti dell’Università di Chicago Gillespie, parlando della sua società, ha affermato quanto segue: “quello che facciamo è svolgere un attività di relazioni pubbliche, di consulenza strategica per la comunicazione e di assistenza per svariati clienti, associazioni di settore e aziende americane”.

Gillespie non è il solo strategic adviser a non essere registrato come lobbista. Lui e i suoi colleghi chiedono lauti compensi per lo fornitura di servizi simili. Newt Gringrich, ex speaker della Camera, è stato pagato 25.000 dollari al mese per svolgere attività di consulenza ed altre mansioni affini da Freddie Mac; Tom Daschle, ex leader della maggioranza democratica al Senato, è ora senior policy adviser presso la DLA Piper, “una delle maggiori società del mondo nel settore del diritto commerciale”; e Anita Dunn, ex direttore della comunicazione della Casa Bianca per Obama, è ora managing director di SKDKnickerbocker, dove aiuta organizzazioni non governative, associazioni di settore, società incluse nella lista Fortune 500, ed organizzazioni no-profit a sviluppare strategie di comunicazione efficaci”.

Molti lobbisti precedentemente registrati hanno deciso di cancellare la loro registrazione al fine di evitare di ricadere sotto i nuovi reporting requirements previsti dal Honest Leadership Act del 2007.

Tanto gli accademici quanto gli esperti in materia di policy affermano che queste riforme, adottate sulla scia  dello scandalo legato alle attività del lobbista Jack Abramoff, hanno fatto si che la maggioranza delle attività di manipolazione dei processi legislativi e regolatori vengano svolte in clandestinità.

Un’analisi portata a termine da Dan Auble, senior researcher presso il Center for Responsive Politics, “Lobbisti 2012: fuori dai giochi o sotto traccia?” asserisce che i lobbisti stiano intenzionalmente rivedendo il loro modus operandi:

“[…] buona parte del declino nell’attività di lobbying, in realtà, non è affatto tale, bensì costituisce solo un effetto collaterale della strategia posta in essere da lobbisti e società di lobbying, che sfruttano la peculiarità della legislazione vigente che gli consente di influenzare le politiche pubbliche operando da dietro le quinte. Lavorando come policy advisor o ricoprendo altre posizioni che potremmo definire unlobbyist positions, gli “ex lobbisti” possono mantenere il loro lavoro attuale sfuggendo alle implicazioni che derivano dall’essere registrati, portando insider e outsider del mondo della lobbying a pensare che tali conseguenze fungano da deterrente alla trasparenza”

Auble (vedere figure 1 e 2) delinea come segue il declino dei lobbisti operanti a Washington: dai 14.837 del 2007 ai 12.433 del 2012, evidenziando anche un declino dei loro compensi trasparentemente dichiarati dai 3.55 miliardi di dollari del 2010 ai 3.31 miliardi del 2012”.

“Resta comunque un ambiente competitivo” mi disse durante una conversazione telefonica Lawrence F. O’Brien III, lobbista registrato, “grazie alla grande recessione si è diffusa una percezione di malfunzionamento, di improduttività, d’assenza d’azione – al Campidoglio – che possa tradursi in una legislazione seria”.

E non è tutto. Alla fine del 2010, i repubblicani alla Camera dei Rappresentanti, sotto le pressioni del Tea Party, hanno adottato una normativa che ha abolito gli earmarks (Speciali disposizioni legislative, d’origine congressuale, che regolano i fondi assegnati a specifici progetti e/o specifici sgravi fiscali) – speciali disposizioni a favore di singoli membri che davano luogo a progetti locali per la costruzione di infrastrutture quali ponti, strade, dighe ed edifici federali.

A tal proposito, per esempio, la società di lobbying Cassidy & Associates ha pagato a caro prezzo la messa al bando degli embarks (vedere fig.3). Le sue entrate, infatti, sono diminuite dai 22.3 milioni di dollari del 2009 ai 15.5 del 2012. Tuttavi, i trend negativi delle entrate resocontate mascherano alcuni sviluppi meno visibili ma altamente profittevoli.

La battaglia legislativa che precedette l’attuazione, nel 2010, delle Dodd-Frank finance industry reforms e l’Affordable Care Act sono stati gli ultimi due affari d’oro per i lobbisti pubblicamente registrati. Da allora, tuttavia, si è registrato un flusso considerevole di spese non riferite relative al pagamento di avvocati di Washington, spesso descritti come “lobbisti ombra”, i quali non sono obbligati a registrarsi e a divulgare le proprie parcelle, ma operano ai fini di influenzare la stesura della regolamentazione che sottende il Dodd-Frank, condotta da agenzie quali la Securities and Exchange Commission e la Commodity Futures Trading Commission.

In un report di novembre per la Sunlight Foundation, Tim LaPira, politologo della James Madison University, ha stimato che per ogni lobbista registrato vi è almeno un lobbista ombra che viene pagato per influenzare i processi di public policy senza dichiarare clienti o parcelle alcune. LaPira ha poi individuato il rapporto tra lobbisti ombra e lobbisti registrati in un intervallo numerico che oscilla tra il 52.3 e il 47.7.

LaPira, in via ipotetica, assume che i lobbisti ombra incassino lo stesso ammontare dei lobbisti registrati – per una media annuale di 270.000 dollari a persona. Utilizzando il ragionamento di LaPira, la spesa totale, per il 2012, destinata all’attività d’influenza della legislazione e della regolamentazione passa da 3.1 a ben 6.7 miliardi di dollari.

Un qualcosa che esula completamente dall’ambito della regolamentazione è ciò che è conosciuto come grass-roots/AstroTurf lobbying: mobilitare gli stockholder, i fornitori, le associazioni di settore, e i membri di ogni costituency “amica” affinchè scrivano lettere, chiamino i loro uomini al Congresso e mandino e-mail. Questa tattica viene praticata da decenni, ma ogni anno assume una sofisticazione tecnica via via maggiore.

Per esempio, a marzo scorso, Kate Ackley del Roll Call ha riportato che il DCI Group – che supporta le aziende di tutto il mondo nella risoluzione dei relativi problemi politici, legislativi e regolatori – ha programmato “centinaia di meeting al Campidoglio e ha dato il la a più di 31.500 constituent call agli uffici congressuali” per conto della Retail Industry Leaders Association, oltre ad orchestrare “1606 contatti personalizzati con uffici chiave del Campidoglio da parte di piccoli commercianti” che, secondo un case study, la DCI ha utilizzato per convincere potenziali clienti ad ingaggiare la società.

Non ci siamo nemmeno avvicinati a varcare la soglia del lobbying”, ha dichiarato il portavoce della DCI al Roll Call. “Siamo molto diligenti nell’onorare appieno e nella loro interezza tutte le norme e le regolamentazioni espresse dal Congresso”.

Ed Rogers, che ha lavorato alle campagne presidenziali di Ronald Reagan e George H.W. Bush, è attualmente un lobbista registrato e presidente del BGR Group (precedentemente Barbour Griffith & Rogers). La BGR, oltre all’ attività di lobbying trasparente e diretta, si compone anche di una web-based practice e di una divisione che si occupa di relazioni pubbliche. Rogers in un’intervista ha fatto notare che internet sta cambiando la natura del lobbying. Ora “è essenziale gestire il cosiddetto “Google hole”, ovvero le informazioni che google ha su di te; è opportuno iniettare contenuti, incrementando le informazioni positive e diluendo quelle negative”. Rogers afferma anche che lo stesso approccio assertivo è da adottarsi per ciò che concerne i video su Youtube e i contenuti di Wikipedia.

Mai lasciare questioni con un potenziale negativo senza le opportune contromisure, se sul web vi è qualcosa di potenzialmente dannoso, questo deve essere necessariamente abbinato al relativo antidoto. In internet notizie e fatti hanno una vita decisamente più lunga di quanto non avvenisse con i soli giornali cartacei e, quindi, è opportuno agire di conseguenza” mi disse Rogers.

Nell’ambito di una descrizione dei servizi da loro offerti, dall’Eskew’s Glover Park Group mostrano come “l’industria dell’influenza” si sia spinta ben oltre il mero lobbying tradizionale:

Le tradizionali frontiere tra il settore pubblico e quello privato, tra giornalisti e “civili”, tra agitatori di piazza e power brokers si stanno assottigliando. La GPG fu concepita per aiutare le organizzazioni ad attraversare questo panorama instabile e mutevole. Combiniamo la comprensione sostanziale di issue complesse con la realizzazione di campagne d’influenza mirate, volte a plasmare la maniera in cui i pubblici critici concepiscono i nostri clienti e i loro obiettivi”.

A tal proposito, il confluire del lobbying in un contenitore più ampio ed inclusivo si esemplifica nella tendenza ad unire lobbying ed altre attività d’influenza sotto il medesimo “cappello” aziendale. L’esempio più significativo a riguardo è la WPP, una società operante nel settore dell’advertising, del marketing e dei public affairs che si articola in più di 350 sussidiarie in tutto il mondo.

L’elenco delle imprese legate alla WPP che operano a Washington è in costante aumento ed include, tra le altre, Blue State Digital, Burson-Marsteller, Direct Impact, Hill+Knowlton Strategies, Dewey Square Group, Penn Schoen Berland, PBN Hill+Knowlton Strategies, Prime Policy Group, QGA Public Affairs, Palisades Media Ventures, The Glover Park Group e Wexler & Walker Public Policy Associates.

Quando il lobbying viene fatto confluire in un colosso di questa portata, di fatto, non è più realmente tale. È divenuto parte integrante di un più ampio sistema d’influenza e controllo aziendale, un sistema che si è lasciato alle spalle la regolamentazione federale di questa nuova stirpe di strateghi dell’influenza.

Fonte: Thomas P. Edsall – New York Times

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