LO STRANIERO E IL LOBBISTA
Cinque milioni di dollari dalla Norvegia per ottenere il raddoppio degli aiuti al paese, ad esempio. I think tank non rivelano il rapporto che sussiste con i loro finanziatori, né gli accordi che stringono con chi tira fuori i soldi. E questo, secondo il NYT, non basta: in realtà molti tendono a non essere registrati come finanziatori, sfuggendo così ad ogni controllo di massima. L’inchiesta parla dei maggiori think tank in azione a Washington, dal Brookings Institute all’Atlantic Council. Ognuno di essi prende denari per organizzare convegni, forum, incontri privati o lavorare a dati, presentazioni, tesi che interessano al committente. La maggior parte del denaro proviene da paesi orientali od asiatici, oppure da produttori di petrolio. Gli Emirati Arabi, uno dei maggiori finanziatori del Centro per gli studi strategici e internazionale, ha tirato fuori dalle saccocce la bella cifra di un milione di euro per costruire la nuova sede del think tank. Evidentemente devono essere soddisfatti del servizio. Il Qatar è arrivato a quattro milioni con Brookings, di cui ha finanziato la sede appena aperta nel paese. E c’è chi fa notare che tutto questo si riverbera sull’attendibilità dei lavori promossi dai vari think tank, nonostante in base a loro studi e dati si prendano decisioni che valgono poi per i cittadini americani. In questa infografica pubblicata dal NYT si possono ammirare i vari contributi dei governi stranieri a nove think tank “indipendenti”:
La versione originale si trova qui.
COSA C’È SCRITTO NEI CONTRATTI
Scrive il New York Times che spesso i governi sono piuttosto espliciti su quello che vogliono. «Per i rappresentanti diplomatici di piccoli paesi spesso è difficile anche soltanto riuscire ad arrivare a discutere con i rappresentanti delle istituzioni americane. I think tank organizzano anche questo», afferma un rapporto interno del governo norvegese. E in effetti, un’occasione di socializzazione con il nemico è imperdibile. Si lavora in due modi: o si pagano i think tank per spingere l’agenda del paese di riferimento, oppure li si sfrutta per ottenere dati, informazioni, studi e lavori che possano influenzare il dibattito politico. Dal 2011 almeno 64 tra governi stranieri o istituzioni estere ha pagato una tra le 28 entità che si occupano di lobbying a Washington, per un esborso complessivo di 92 miliardi di dollari in quattro anni: ma il conto, avverte il quotidiano, è necessariamente al ribasso visto che la maggior parte di questi finanziamenti non è registrabile o è registrata attraverso prestanome. Uno dei documenti sui finanziamenti ai think thank pubblicati dal Nyt:
La tabella completa dei finanziamenti è qui. Secondo il quotidiano gli accordi stretti tra i lobbisti e i governi stranieri potrebbero violare il Foreign Agent Registration Act del 1938, la legge federale che combatteva la propaganda nazista negli Stati Uniti. La legge obbliga chi paga per influenzare la politica Usa a registrarsi come “agente straniero”. E in effetti c’è chi lo ammette candidamente.
LA QUESTIONE COMPLETA
Massimo Gaggi sul Corriere della Sera ha commentato ieri i risultati delle analisi del NYT:
Con tanti miliardi di dollari e tanti personaggi di prestigio in circolazione, non c’è da stupirsi che a volte i confini tra le società di questi professionisti e centri di ricerca spesso guidati da economisti, ex diplomatici o personaggi di elevato rango politico, possano in qualche punto confondersi. Lo spettroagitato dal giornale americano è quello del«denaro straniero» ma Washington è pursempre la capitale di un impero, anche se indeclino, ed è abbastanza normale che Paesiche vogliono far sentire laloro voce al di là di quelloche possono fare le loro ambasciate,puntino anche suithink tank.
Serve agli arabi per premere sulla politicaenergetica Usa?
La Norvegia,come scrive il Times cerca difar cambiare idea al governosulle politiche per l’Articoattraverso la Brookings? Forse è così. Ma difficilmente il paper di qualche esperto farà cambiare rotta alla Casa bianca o al Congresso su questioni cruciali. Spesso quei soldi servono arisolvere problemi molto più terra-terra: trovareuna sede di prestigio nella quale il ministrostraniero in visita nella capitale dell’imperopossa lasciare un segno, parlandoin istituto davanti a un pubblico sussiegoso.
Fonte: Next Quotidiano
]]>“I soldi sono come l’acqua, anche se provi a imbrigliarli, trovano sempre la loro strada”, sa il fatto suo “the lobbyst”, il lobbista, come lo ha definito il Newsweek. Americano ma con nonni italiani di Chiavari.
La sua presenza in Italia per un importante confronto tra Italia e Stati Uniti. Podesta oltre ad essere un grande lobbista potrà offrire anche il suo punto di vista anche nella veste di fratello di John, ex capo di gabinetto di Bill Clinton e poi direttore del Transiton Team di Barack Obama. Parlando di Obama viene immediato il parallelismo con Renzi. “ Hanno molto in comune, sono più giovani dei loro predecessori, sono entrambi molto ambiziosi e pieni di energia. Renzi come Obama, vuole cambiare il sistema e renderlo più trasparente e stabile”. Così Podesta.
Alla domanda: quanto i valgano i soldi in politica e se le regole attuali del finanziamento riescano realmente a contrastare l’influenza delle lobby, Tony sorride e poi commenta:
“Negli Usa siamo stati a lungo come il Far West, ma senza lo sceriffo. Ancora negli anni 70 il senatore democratico Herman Talmadge era solito mettere in una larga tasca del cappotto i soldi dei finanziatori”. Molte leggi, come quella del 74’, hanno provato a limitare le donazioni: “Ma quando i soldi incontrano la politica le buone intenzioni non bastano”.
Visione cinica ma molto realistica di come stanno le cose. Una recente sentenza della Corte Suprema ( il caso McCutcheon). Che toglie il tetto di spesa complessivo per le donazioni di privati. Aumentando l’appetito dei finanziatori ma anche della politica. “ Alcuni di noi non apprezzano. Era meglio un limite. Anche perché non potremo più rispondere a chi ci chiede altri soldi: mi dispiace ma non si può”.
Il pensiero va così al Watergate e il famoso “follow the money”, seguire il flusso dei soldi, fà capire molto. “L’unico modo per avere una reale competizione, è che ogni partito abbia lo stesso numero di ricchi a sostenerlo. Obama e Romney nell’ultima campagna hanno speso la stessa cifra circa un miliardo di dollari”. Poi c’è la “parte” dei lobbisti: “Conoscete i fratelli Koch? In due hanno speso 25 milioni di dollari per sconfiggere 7-8 candiati democratici al Senato. Davvero difficile conoscere i veri finanziatori. “ C’è un tetto solo per i finanziamenti ai candidati., ma non ci sono limiti a quanto si dà ai gruppi indipendenti, che poi finanziano i politici. E sono importi che non sono soggetti a rendicontazione”.
Ma allora la politica può mantenere la propria autonomia navigando fra miliardi di dollari?
“ Sì. Guardate quello che è successo nel 2008. Obama aveva grandi fondi da Wall Street. Poi ha fatto la riforma bancaria, la borsa si è ribellata e i fondi sono passati al repubblicano Romney. Però le elezioni le ha vinte lo stesso. Morale: non sempre i soldi controllano la politica.
In Italia parte ora il sistema della contribuzione volontaria e lo stop progressivo del finanziamento pubblico. Staremo a vedere. Anche negli States c’era un sistema di finanziamento pubblico: “Obama l’ha fatto fuori. Perché pensava di raccogliere molti più soldi dai privati, più dei 70 milioni pubblici previsti. Non l’ha fatto per motivi ideali: voleva vincere.
Davvero difficile pensare che gli italiani abbiano intenzione di dare soldi ai partiti, che non godono affatto di popolarità: “Non è che siano così amati neanche da noi. Ma la gente i soldi li dà a Obama, non al partito.” Il problema è che in Italia i lobbisti sono visti di cattivo occhio e spesso vengono etichettati come persone poco serie. “ Noi diamo solo informazioni e punti di vista. E siamo controllati: dobbiamo fare una relazione trimestrale sui nostri conti clienti e sull’oggetto della nostra attività. Da voi manca la trasparenza”.
Vogliamo pensare che sicuramente non esiste neanche a Washington la trasparenza assoluta. Siamo viziati dalla serie televisiva House Of Cards? O forse ci fa comodo pensarlo perché con regole chiare funzionerebbe anche in Italia?
Nel dubbio si potrebbe cominciare a pensare ad processo di regolamentazione di una professione che esiste a tutti gli effetti e alla quale bisognerebbe guardare con più attenzione ed apertura senza il solito sospetto “all’ italiana” sempre e comunque laddove i flussi di denaro sono più corposi.
Norme per ridurre le stazioni appaltanti, revisione del sistema di qualificazione di impresa, più trasparenza sui subappalti. Ma, a sorpresa, anche la legalizzazione delle lobby. Eccola la bozza del nuovo codice degli appalti, annunciato dal ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi come una delle contromisure che il governo intende adottare per evitare altri scandali Mose, la tangentopoli dell’impianto contro l’acqua alta a Venezia.
Liquidato dal premier Matteo Renzi il sindaco Giorgio Orsoni («È uno di noi? Ha sbagliato? Bene, a casa. E che serva da esempio anche agli altri» ha detto ieri il leader pd), ora si punta a varare in fretta misure che facciano archiviare questa vicenda. Ma con quali esiti? Dipenderà da cosa verrà inserito nei provvedimenti.
La revisione del codice degli appalti è uno dei punti chiave. La bozza è già pronta. In questa settimana verrà presentata ai gruppi parlamentari, alle parti sociali, all’Ance e a Confindustria, per le ultime limature. Per poter poi approdare al Consiglio dei ministri entro luglio. E Riccardo Nencini, viceministro delle Infrastrutture e segretario nazionale del Psi, che ha avuto la delega a riguardo ancor prima che esplodessero i casi Mose ed Expo, e ci lavora da Aprile, ci anticipa i punti salienti. A partire da una norma destinata a far discutere: la regolarizzazione delle lobby.
Spiega Nencini: «Faremo in modo che i gruppi di pressione vengano alla luce del sole». Come? «Chiunque ricopra un ruolo istituzionale, se riceve un lobbista, dovrà annotare su un registro apposito tutto su quell’incontro: chi era, chi rappresentava e cosa chiedeva la persona ricevuta. Attualmente non c’è nessuna legge che regola questa attività, se si esclude quella della Toscana del 2001. Si tratta di mettere sulla stessa linea di partenza le aziende. Almeno dal punto di vista dell’informazione, ed evitare che chi è più vicino al governo possa trarne vantaggio». Ai dubbi se sia il caso di rendere la vita più facile alle lobby, il viceministro risponde così: «Lo fanno già ed è ipocrita non tenerlo presente. Gli Usa hanno deciso di renderli trasparenti».
Nel testo della bozza, oltre allo stop alle deroghe, e la revisione del sistema di qualificazione delle imprese, anche il débat public: il coinvolgimento dei cittadini sulle Grandi opere con campagne informative sul territorio. Esclusa la possibilità di dire «no»: «Il decisore alla fine resta lo stesso. Ma se ci fosse stata sui lavori Tav, non avremmo evitato i black-block, però la popolazione sarebbe stata informata in tempo utile sui pro e i contro per valutare da sola l’impatto», chiarisce il viceministro. Ci sarà anche una riduzione delle 36 mila stazioni appaltanti per il milione di appalti banditi ogni anno.
Ma non è tutto. Si punterà alla prevenzione dello sperpero con due diligence . A partire dal Mose. «Leggiamo di costi per sovrafatturazioni. Ma il ministero deve ancora erogare fondi. Bisogna capire se sono congrui, alla luce di quanto emerge, o se possono essere tagliati — conclude Nencini —. Io lo farei».
]]>Fabiana, dopo aver frequentato il liceo classico Socrate a Bari, si è trasferita a Roma per studiare all’università Luiss: laurea triennale in scienze politiche, poi la magistrale in relazioni internazionali. «Una settimana dopo aver preso la laurea triennale ho risposto a un annuncio per uno stage segnalato dalla Luiss. Ho cominciato così e in seguito sono entrata a far parte del gruppo», spiega. «All’inizio avevo una vaga idea su quale fosse il mondo delle relazioni pubbliche. Avevo soltanto conosciuto dei lobbisti a Bruxelles, durante una simulazione per l’università al Parlamento europeo. Ho poi imparato il mestiere sul campo».
E allora, cosa fa il lobbista? «Il nostro compito è modificare, introdurre o eliminare disposizioni che interessano i nostri clienti. Nel mio caso seguo l’iter legislativo. Leggo proposte e disegni di legge e capisco se possono interessare i nostri clienti, nel caso li avvisiamo e cerchiamo insieme di capire se ci sono possibilità di inserire, modificare o cancellare emendamenti, ovviamente solo se si tratta di proposte ragionevoli. Realizzo quindi una mappatura dei decision makers, ovvero le persone possono essere coinvolte nel processo decisionale, come i parlamentari o i sottosegretari. Dopo aver scritto il testo, il nostro capo contatta i decision makers». Un caso concreto? «Qualche tempo fa studiammo per conto di Smartbox (la società dei pacchetti turistici in regalo venduti anche nelle librerie, ndr) il Codice del turismo: abbiamo analizzato tutta la legislazione italiana e anche internazionale per capire quali modifiche andavano fatte per regolamentare il settore».
Insomma, il lobbista deve saper convincere i politici. E per fare questo ci vuole una certa dose di bravura: «bisogna saper spiegare in modo chiaro e abbastanza celere qual è il problema». Il modello sono gli americani. Sul sito della società, in apertura, c’è una frase di John F. Kennedy: «I lobbisti impiegano dieci minuti e tre pagine per farmi capire un problema. I miei assistenti hanno bisogno di tre giorni e di una tonnellata di cartacce». Certo, non tutti sono avvicinabili. Inutile parlare con il Movimento Cinque Stelle per esempio, che a fine dicembre denunciarono una classe politica schiava della «folla dei lobbisti che assedia il Parlamento». «Ma noi operiamo nella massima trasparenza e il nostro lavoro è basato sulla nostra preparazione. Di certo non diamo mazzette o facciamo regali che possano influenzare il decisore pubblico», spiega Fabiana.
Dicembre, tra l’altro, è il periodo peggiore per chi fa questo mestiere, perché viene discussa la Legge di stabilità, che contiene di solito migliaia di emendamenti diversi tra loro e messi alla rinfusa. «Abbiamo dovuto analizzare tremila emendamenti presentati al Senato e i tremila alla Camera, un incubo».
Tra i clienti della società ci sono organizzazioni ambientali (FareAmbiente), grosse società (Mistralair di Poste italiane) e anche Google Italia, società che nel 2013 ha speso solamente negli Stati Uniti oltre 10 milioni di dollari per attività di lobbying.
Per fare il lobbista c’è anche un corso di studi. Il mese prossimo partirà proprio alla Luiss la terza edizione del master di secondo livello in Relazioni istituzionali, lobby e comunicazione d’impresa (le iscrizioni scadono il 17 gennaio). Il condirettore e cofondatore è il manager barese Francesco Delzio.
«In Italia il termine lobbista – spiega Delzio – è vittima di una sorte cinica e bara. Viene considerata una professione oscura e condotta fuori dalla legge. Invece nel mondo anglosassone i lobbisti sono considerati professionisti a tutti gli effetti, che si muovono all’interno delle istituzioni nella massima trasparenza. In Italia, invece, la professione va ricostruita rispetto al modello Bisignani (coinvolto nell’inchiesta P4, ndr). Le materie fondamentali che insegniamo nel master – continua Delzio – sono tre: diritto, economia e comunicazione. Un lobbista può lavorare in un’agenzia, in una grande azienda, in un sindacato o in una organizzazione non governativa. Al momento c’è una grossa fetta di mercato aperta e ci sono diverse opportunità di lavoro in questo settore».
Il settore è in crescita, dunque, anche se restano i problemi. «La vera causa della concezione di lobbista come sterco del diavolo – continua Delzio – sta nella mancanza di regolamentazione. Non c’è un albo». Dal 1976 sono stati presentati oltre 40 disegni di legge per regolamentare la professione. L’Unione europea, invece, prevede un albo ufficiale (anche se non vincolante): è il Registro per la trasparenza, che contiene informazioni «su chi svolge attività tese a influenzare il processo decisionale dell’Ue», si legge sul sito. Sono iscritte oltre 5800 organizzazioni, di cui 503 italiane. E non sono soltanto società di lobbying. C’è di tutto: dalla Rai al Wwf, da Confindustria alla Federazione italiana hockey all’Ordine equestre Arcadia di Lecce. Infatti, conclude Delzio: «Chiunque è portatore di gruppi di interessi è un lobbista, anche i movimenti spontanei di cittadini che chiedono di parlare con le istituzioni».
Fonte: Corriere.it
]]>C’è anche questa mail fotocopia, inviata più volte a tutti i parlamentari, dietro la marcia indietro della Camera che ha cancellato il divieto di fumo per le sigarette elettroniche nei locali pubblici. Una delle tante mosse studiate da Anafe, l’associazione dei produttori del settore che aderisce a Confindustria Federvarie (sembra uno scherzo ma si chiama proprio così). E che ci riporta alla saga delle lobby in Parlamento, film che torna sui nostri schermi a cadenza regolare. Un evergreen dai tempi di Wilmo Ferrari detto «la clava», che si vantava di aver piazzato nella sua vita 7 mila emendamenti, e dei 22 dirigenti Coldiretti fatti deputati in un colpo solo nei favolosi anni 80. I tempi sono cambiati, ci mancherebbe: oggi alla Camera di coltivatore diretto ce n’è uno solo, Mino Taricco del Pd. In compenso abbiamo 72 avvocati e 30 giornalisti che fanno la loro parte. Ma se una pattuglia di interni ha sempre il suo perché, il lavoro vero si fa da fuori. E il caso sigarette elettroniche lo conferma.
«Ci siamo adoperati in maniera attiva e pro attiva veicolando le giuste informazioni», si gode il risultato Massimiliano Mancini, presidente dell’associazione dei produttori. Poi, forse sull’onda dell’entusiasmo, aggiunge: «Abbiamo fatto un grande sforzo di comunicazione, ma buona parte del lavoro si fa dietro le quinte». E qui bisogna fermarsi un attimo. Fra tasse e divieti anche la sigaretta elettronica è finita in recessione. E quando il gioco si fa duro… I produttori italiani si sono rivolti ad Open Gate Italia, società di public affairs tra le più conosciute, iscritta all’apposito albo sia della Commissione europea sia del nostro ministero delle Politiche agricole. «Nulla di segreto, tutto alla luce del sole» dice Franco Spicciariello, uno dei fondatori della società. Loro l’idea delle mail ai parlamentari, loro l’organizzazione di un grande convegno alla Camera che fa incassare la difesa di tre voci da tre partiti diversi: Ignazio Abrignani del Pdl, Fabio Lavagno di Sel, Aris Prodani del Movimento 5 stelle. Senza contare l’endorsement di Umberto Veronesi, sottolineato in ogni mail, in ogni incontro pubblico e anche privato. Di lì all’emendamento della marcia indietro il passo è breve. Ma non tutto è andato liscio. Poche settimane fa «la Voce del tabaccaio», magazine della federazione di settore, ha attaccato le sigarette elettroniche e le «società di consulenza che esercitano pressioni di ogni sorta».
Guerra fra lobby, proprio come ai tempi del decreto liberalizzazioni del governo Monti. All’epoca i sottobraccisti, a loro il temine non piace ma rende bene l’idea di come va agganciato l’onorevole di turno, vennero prima confinati dietro una transenna e poi rinchiusi in una stanza a parte. Mossa simbolica per contenere i suggerimenti (e le minacce) di farmacisti e tassisti, allora tra i più agguerriti. Ma in fondo inutile perché se un tempo i contatti giusti li avevano solo le grandi aziende, ormai il lobbying è democratico e ramificato. Si moltiplicano gli addetti ai lavori, con almeno 1.500 professionisti. E anche quei corsi dove si parte dalla «mappatura degli influenti» per arrivare al concetto di «coalizione di interessi», cioè l’obiettivo di una soluzione vantaggiosa per tutti senza spaccature fra pro e contro. Le larghe intese applicate al business. Il tutto senza una regola scritta che sia una.
Dal 1948 ad oggi abbiamo avuto in Italia 27 proposte di legge, tutte evaporate dopo un paio di titoli sui giornali. L’ultimo tentativo è del governo Letta, all’inizio dell’estate. «Non ci potete mettere la scatola nera» hanno protestato alcuni ministri contro l’idea di tenere un registro con tutti i loro incontri. La decisione è stata rinviata con la singolare scusa di un approfondimento delle altre normative europee, che in realtà era stato già fatto. Binario morto, la vittoria della lobby delle lobby. Nel frattempo, come diceva John Fitzgerald Kennedy, loro «continuano a spiegare in tre minuti quello che un mio collaboratore mi spiega in tre giorni».
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La finanziaria attira ancora grande interesse, ma il Parlamento non è più un astro così centrale nel firmamento del potere. Il vincolo di stabilità e la sentenza della Corte Costituzionale del 1996, che ha imposto l’omogeneità dei decreti legge, ha fatto venir meno la pratica dei decreti omnibus , che erano un buon terreno per i lobbisti. Le deleghe legislative comportano un lavoro a monte più importante, dove i contenuti sono sempre più complessi, fuori dalla portata dei faccendieri vecchio stampo. L’ondata delle privatizzazioni ha portato alla ribalta le esigenze di trasparenza del mercato.
Con la creazione di autorità indipendenti, si è aperto un nuovo fronte istituzionale, chiamato a regolare interessi molto rilevanti. E i primi passi del federalismo hanno ulteriormente moltiplicato gli interlocutori. Per i lobbisti italiani è un mal di testa dietro l’altro. Ma anche un’occasione di crescita. «Il pregiudizio nei confronti dell’attività di lobbying come forma di corruzione è duro a morire, anche perché manca in Italia una consapevolezza diffusa del ruolo sociale delle imprese. Ma questa consapevolezza sta crescendo e così anche il mestiere del lobbista.
Certo è importante che la tutela degli interessi delle imprese si svolga in un contesto istituzionale chiaro, che sia governata dalla trasparenza e dalla correttezza dei comportamenti e delle relazioni fra i decisori e i corpi sociali», spiega Massimo Romano, responsabile delle relazioni istituzionali di Enel dopo una lunga esperienza in Federacciai, Ilva e Lucchini. Romano fa parte di quella categoria di lobbisti «privilegiati», che possono permettersi di dedicarsi anima e corpo a una sola causa e di conseguenza conoscono fin nei minimi dettagli le esigenze che rappresentano. Si tratta di un gruppo piuttosto ristretto, composto da personaggi del calibro di Eugenio Palmieri di Eni (ex direttore dell’Agi), o Silvio Sircana di Ferrovie (già capo ufficio stampa dell’Iri e portavoce di Romano Prodi), Gina Nieri, capo delle relazioni istituzionali e consigliere d’amministrazione di Mediaset, o Giuseppe Sammartino di Farmindustria (già Tim e H3G).
Accanto a questa categoria di lobbisti «tradizionali» ne emerge un’altra, sempre più attiva: quella delle società di consulenza specializzate nelle relazioni istituzionali, che rappresentano di volta in volta interessi diversi, ma sempre con un approccio molto professionale. «Questo fiorire di professionisti rappresenta la novità più significativa degli ultimi anni, una novità che segnala un progresso della cultura d’impresa italiana verso una maggiore trasparenza», commenta Ruben Razzante, docente di Diritto europeo dell’informazione e della comunicazione all’Università Cattolica di Milano.
Scottate dal lobbismo alla Calisto Tanzi e dai guai dell’antico clientelismo, le imprese apprezzano sempre di più la possibilità di portare le proprie istanze all’attenzione dei decisori in maniera serena e documentata, alla luce del sole. «Il mestiere del lobbista non è più quello di un intermediario con le entrature giuste, ma del professionista che fornisce tutte le informazioni del caso a chi deve decidere», spiega Massimo Micucci, fondatore insieme a Claudio Velardi e Antonio Napoli di una delle società italiane più aggressive su questo fronte, Reti, che si occupa soprattutto di piccole e medie imprese, si muove in un mercato sempre più affollato: da Pms di Patrizio Maria Surace a Fb Communications di Fabio Bistoncini, da Barabino di Luca Barabino (che si occupa principalmente di comunicazione, ma ha anche qualche professionista a Roma e a Bruxelles impegnato sul fronte delle relazioni istituzionali), a Sec di Fiorenzo Tagliabue, la fioritura è rigogliosa. Nel loro sito, Micucci e compagni citano una frase di John Fitzgerald Kennedy: «I lobbisti mi fanno comprendere un problema in tre minuti, i miei collaboratori in tre giorni».
Dalla mediazione all’informazione, quindi. «Chi fa le leggi – insiste Licia Soncini, ex Montedison, fondatrice di Nomos, una società particolarmente attiva sui temi dell’energia e dell’ambiente – non può essere onnisciente. Il compito del lobbista è appunto di spiegare nei dettagli le ricadute di un provvedimento, chiarendo preventivamente quali interessi rappresenta». L’attività di documentazione e la conoscenza approfondita delle procedure sono due punti chiave di questo lavoro. «I nuovi lobbisti – chiarisce Razzante – si studiano i dossier, approfondiscono gli aspetti critici, si presentano con una conoscenza delle regole e con una capacità d’intrecciare rapporti nel rispetto di codici etici ben precisi, tipici dei sistemi economici maturi».
Non a caso a questa categoria in forte crescita appartengono anche le grandi società anglosassoni che dominano il settore, come l’americana Weber Shandwick (del gruppo Interpublic), la più grande società di pubbliche relazioni del mondo, o Burson-Marsteller (del gruppo britannico Wpp, che schiera anche Hill & Knowlton), sempre più attive in Italia. «La necessità d’intrattenere anche un dialogo con Bruxelles, dove hanno origine le linee guida più importanti per quasi tutti i settori, porta molte aziende a scegliere una multinazionale come la nostra, che nella capitale europea ha un ufficio dove sono rappresentate 21 nazionalità diverse», spiega Eric Gerritsen (ex Procter & Gamble e Armando Testa), l’olandese ormai italianizzato che guida Burson Marsteller Italia. «Ma sempre più spesso il nostro ruolo è complementare a quello di chi si occupa di relazioni istituzionali all’interno delle imprese, che ci affida dei progetti specifici o delle aree più difficili da coprire», precisa Furio Garbagnati, amministratore delegato di Weber Shandwick.
La crescente complessità del panorama decisionale, la perdita di peso di centri di lobbismo istituzionale – come i sindacati o le associazioni di categoria – e la moltiplicazione dei nuovi gruppi di pressione, insomma, creano esigenze sempre più articolate di rappresentanza anche nel tessuto economico del Paese. «Non mi stupirei – sogna Razzante – di veder sorgere ben presto anche qui delle scuole di specialità, simili alle grandi scuole del mondo anglosassone».
Elena Comelli – Corriere della Sera
]]>Tra gli obiettivi della Pivetti quello di regolamentare l’attività di lobby, in nome della chiarezza e della trasparenza «così come sta facendo l’Irlanda e sull’onda di quanto avviene già a Bruxelles, dove operano 2.600 società di questo tipo». Questa mattina il Parlamento riaprirà i cancelli dopo la lunga pausa estiva, la Pivetti tornerà alla carica per vedere a che punto è la proposta formalizzata a suo tempo al presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini. L’idea è quella di creare un registro al quale si iscrivono i lobbisti in modo da non dover richiedere ogni volta il «passi» all’onorevole di riferimento, senza il quale non è possibile muoversi all’interno di Palazzo Montecitorio. L’intento è quello di ottenere per i lobbisti un accesso palese e non occulto nei palazzi del potere politico e «di essere ascoltati dalle commissioni quando si discutono questioni che coinvolgono imprese o materie che loro rappresentano».
Questa proposta, della «lobby trasparente» un po’ all’americana, è nata nel maggio scorso all’interno di un gruppo ristretto di esperti del calibro di Maurizio Beretta (all’epoca responsabile delle relazioni istituzionali del Gruppo Fiat, oggi direttore generale di Confindustria), Gina Nieri, direttore affari istituzionali di Mediaset, Riccardo Perissich, direttore public & economics affairs di Telecom Italia, e Massimo Romano, direttore affari istituzionali e regolamentari dell’Enel. «Al più presto dovremo incontrarci con il questore della Camera – afferma Irene Pivetti – per mettere a punto la nostra proposta».
Intanto l’attenzione di Reti verso il mondo delle lobbies prosegue su altri livelli. Come i corsi di approfondimento e di specializzazione per i professionisti che intendono approfondire le conoscenze in questo settore, e che saranno riservati a piccoli e selezionati gruppi. Il primo dei corsi a prendere il via – nella sede romana di via del Plebiscito – avrà per tema la «Dinamica del potere all’interno delle reti». .
Roberto Bagnoli – Corriere della Sera
]]>La difficile situazione dei conti pubblici aveva già messo in tensione alcune di queste lobby. A causa dell’alto livello della spesa sanitaria, le industrie farmaceutiche sono da tempo nel mirino del Tesoro. Gli enti locali, Comuni e Regioni, sono le vittime designate del taglio dei trasferimenti dal centro alla periferia. E come sempre, anche questa volta si opporranno.
La Confindustria si sta già preparando ad assorbire con minori traumi possibili la trasformazione degli incentivi industriali da contributi a fondo perduto in prestiti agevolati. Non a caso il suo direttore generale, Maurizio Beretta, ha invocato una riduzione generalizzata dell’Irap. Molte categorie di imprese si preparano quindi a fronteggiare imprevedibili sorprese che la prossima manovra di bilancio potrebbe contenere. Per esempio le imprese di costruzione, che chiedono fondi per il programma delle grandi infrastrutture e certamente non vogliono rinunciare agli sgravi per le ristrutturazioni. Oppure le assicurazioni, le banche e le fondazioni bancarie, tutto un mondo nel quale da tempo si respira aria di un bel giro di vite. Per non parlare delle cooperative, che stavolta potrebbero pagare il prezzo che già gli era stato promesso dal predecessore di Siniscalco, Giulio Tremonti.
Magari qualcuno riuscirà anche ad approfittare della situazione (e dell’inevitabile confusione), per ottenere qualche cosa. Ma saranno briciole. Certamente, in questo contesto, il metodo del comprehensive spending review potrebbe rappresentare un segno di demarcazione con il passato. Ponendo un limite a quella che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha qualche settimana fa definito una «prassi famigerata», quando l’arrivo della Finanziaria in Parlamento «scatena tutte le lobby possibili e immaginabili e tutti gli interessi dei singoli deputati». Ma certamente non può essere considerata la cura radicale per una situazione che non è mai stata affrontata. Come è invece avvenuto nei Paesi anglosassoni, dove le lobby sono molto più potenti, e i relativi interessi ancora più pervasivi, ma almeno c’è qualche obbligo di trasparenza.
Negli Stati Uniti la professione dei lobbisti è regolata per legge. Nei giorni scorsi il candidato democratico alla Casa Bianca John Kerry, accusando il suo rivale repubblicano George W. Bush di non dare dovuta pubblicità ai p opri rapporti con il mondo degli affari, ha rivelato di aver avuto negli ultimi 15 anni 200 incontri con esponenti delle lobby. Nell’ordinamento statunitense esiste una legge che impone di rendere note le spese per attività lobbistiche: un calcolo ormai datato (1996), ma certamente significativo, aveva dato a questo investimento una dimensione di 100 milioni di euro al mese soltanto per gli Usa. In testa, all’epoca, c’era la Philip Morris, seguita da American Medical association e General Motors. Negli St ati Uniti, inoltre, alcune lobby hanno scelto la strada della massima evidenza mediatica. Per sei anni la potentissima National Rifle association, la lobby delle armi leggere, è stata presieduta addirittura dall’attore Charlton Eston. In Italia i tentativi di regolamentare l’attività lobbistica non sono mancati. Nessuno di questi ha però mai avuto successo. In primo luogo per l’efficace lavoro di contrasto delle lobby esterne al Parlamento, ma anche per l’opposizione di molti parlamentari, che sono esponenti di quei gruppi di pressione. Francesco Giavazzi ha ricordato sul Corriere che i professionisti iscritti ad albi rappresentano il 31,4% del Parlamento italiano, contro il 16,4% del Parlamento inglese. Più in dettaglio, il 41% dei parlamentari del centrodestra sono professionisti iscritti ad albi, contro il 15% per parlamentari conservatori dell’epoca di Margaret Thatcher. Nel 1988 fu il Partito liberale italiano a chiedere una legge per regolamentare l’attività delle lobby. Ma non se ne fece nulla.
Quattro anni più tardi il presidente della Camera, Giorgio Napolitano, attaccò violentemente il lobbismo in Parlamento, ammonendo che «l’attività parlamentare» si doveva «svolgere in modo più libero e limpido». Erano gli anni di Tangentopoli e l’argomento era particolarmente sentito. Ma solo formalmente. Durante il governo dell’Ulivo vennero presentate alcune proposte di legge, come quella del Verde Luigi Manconi, che chiedeva di creare un registro dei lobbisti e di rendere noto l’elenco dei regali ricevuti dai parlamentari. Il problema approdò anche nella commissione Anticorruzione, ma senza esito.
Più recentemente, l’ex presidente della Camera, Irene Pivetti, ha avanzato una proposta di regolamentazione (vedi articolo a pagina 3, ndr ). Mentre, esattamente tre anni fa, il deputato della Margherita Pino Pisicchio ha presentato un progetto di legge di sei articoli: era il 13 settembre del 2001 e da allora la sua iniziativa non ha fatto un passo. E questo nonostante lo stesso presidente della Camera, Pierferdinando Casini, abbia dichiarato pubblicamente, il 6 maggio scorso, la necessità «di passare a una disciplina esplicita e formale» del rapporto «fra istituzioni e organizzazioni portatrici di interessi». Ma evidentemente c’è ancora molta strada da fare.
Sergio Rizzo – Corriere della Sera
]]>Qual è l’obiettivo minimo che vorrebbe raggiungere?
«È importante almeno avvicinare l’Europa agli standard Usa. Già nella passata legislatura ho realizzato un rapporto che puntava a far introdurre regole di trasparenza almeno simili a quelle imposte nel Congresso di Washington. Ma la mia proposta non è passata. Così oggi il tanto criticato rapporto dei lobbisti con i parlamentari statunitensi risulta più trasparente rispetto a quanto avviene nell’Europarlamento».
Si possono quantificare le dimensioni del problema?
«I più qualificati osservatori ammettono che circa l’80% delle decisioni rilevanti per le politiche economiche nell’Ue vengono prese a Bruxelles. Di conseguenza le tre istituzioni, Consiglio, Commissione e Parlamento, hanno assunto grande importanza. Le lobby imprenditoriali e le grandi società hanno agito di conseguenza. Ben 2.600 gruppi d’interesse hanno sede a Bruxelles. La Commissione ha stimato che impieghino circa 10 mila persone. Tra i lobbisti e gli eurodeputati si verificano circa 70 mila contatti individuali all’anno».
Quali sono le lobby più potenti?
«Varie ricerche segnalano che le più efficaci sono quelle attive nei settori economici in cui c’è meno concorrenza. In generale le lobby più influenti sono quelle delle grandi imprese perché sono rappresentate due volte a Bruxelles, singolarmente e tramite l’organismo di categoria, dove assumono i ruoli più autorevoli. Gli interessi delle piccole e medie aziende risultano molto meno tutelati».
Meno tutelato di tutti appare il comune cittadino…
«Certo. Se si fa eccezione per le lobby ambientaliste, come Greenpeace o Wwf, il cittadino e la società civile non sono rappresentati a livello Ue da organismi davvero influenti. Molti provvedimenti comunitari riflettono questa sproporzione anche quando nascono per tutelare i consumatori».
Qual è l’istituzione più influenzata dalle lobby?
«L’Europarlamento è ritenuto più accessibile rispetto alla Commissione e al Consiglio. Molti eurodeputati sono considerati molto sensibili all’influenza delle lobby e non appartengono solo alla destra. Ma perfino il centinaio di gruppi di lavoro del Consiglio, formati da diplomatici spesso giovani, costituiscono un obiettivo dei lobbisti. Nella Commissione il condizionamento si realizza già nei libri bianchi e verdi, prima che vengano scritti e molto prima che la Commissione annunci l’argomento al pubblico».
Il potere delle lobby è in ascesa o stabile?
«Nella Commissione l’influenza dei lobbisti appare aumentata sotto la presidenza di Romano Prodi. Secondo alcuni funzionari, proposte di direttive sono state segnalate direttamente dalle lobby industriali. Nell’Europarlamento si parla di rapporti interni fatti scrivere a funzionari della Commissione. E spesso degli eurodeputati presentano emendamenti alle proposte legislative formulati "parola per parola" dalle industrie».
Esistono corruzione e conflitto di interessi?
«Problemi collegati all’accettazione di doni sono stati discussi in numerose occasioni. Ma c’è ancora troppo poca attenzione ai coinvolgimenti individuali negli interessi delle industrie. La sistematica attività di lobbying nelle istituzioni Ue di ex commissari ed ex eurodeputati è spesso sottovalutata. Il commissario Martin Bangemann è passato direttamente nelle telecomunicazioni alla fine del mandato. Leon Brittan si è messo a curare gli interessi di Londra come centro finanziario».
Come si può intervenire?
«Nessuno si aspetta che le lobby forniscano analisi indipendenti di un problema che coinvolge i loro interessi particolari. Ma basterebbe consentire ai parlamentari di essere meglio informati sull’argomento in discussione. Inoltre non è sufficiente che gli eurodeputati si limitino a dichiarare i loro personali interessi finanziari. È indispensabile introdurre maggiore trasparenza e regole di comportamento più efficaci».
Chi è
Hans-Peter Martin (47 anni, nella foto) è un ex giornalista investigativo austriaco eletto nell’Europarlamento con il Pse nella scorsa legislatura. Ha assunto fama internazionale riprendendo in segreto con una videocamera i suoi colleghi eurodeputati responsabili di sprechi di denaro pubblico o di «fare la cresta» sui già molto generosi rimborsi-spese. Non ha risparmiato nemmeno i colleghi socialisti ed è stato espulso dal Pse. Ricandidatosi nel giugno scorso con una sua lista indipendente ha ottenuto un clamoroso successo elettorale con il 14% dei voti.
Ivo Caizzi – Corriere della Sera
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