congresso – LobbyingItalia http://www.lobbyingitalia.com Blog dedicato al mondo delle lobbies in modo chiaro e trasparente Tue, 03 May 2016 17:24:01 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.4.2 Lobby, negli USA scandali a raffica ma è nel Dna del paese (Repubblica.it) http://www.lobbyingitalia.com/2015/03/lobby-negli-usa-scandali-a-raffica-ma-e-nel-dna-del-paese/ Mon, 16 Mar 2015 14:12:31 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2732 “Ero coinvolto profondamente in un sistema di corruzione. Corruzione quasi sempre legale”. Quando alla fine del 2010 – dopo aver scontato quattro anni di carcere e aver lavorato per sei mesi a 7,5 dollari l’ora in una pizzeria – Jack Abramoff chiuse i suoi conti con la giustizia, affidò a quelle poche parole il riassunto di cosa fosse il lobbyism negli Stati Uniti. Il pentimento (con relativo libro di denuncia) del più famoso lobbista americano degli ultimi venti anni – al centro di un altrettanto famoso scandalo che avrebbe coinvolto 21 potenti uomini della Washington politica (compresi un paio di funzionari della Casa Bianca di George W. Bush) – diede il via a feroci polemiche, accuse e contraccuse, editoriali indignati e (spesso) ipocriti, su una delle attività che più condizionano (nel bene e nel male) la vita politica e finanziaria del più potente paese del pianeta. Attività del tutto legittima e legale ma che ha offerto spazio, nei dettagli di regole complicate, anche ad azioni che hanno sfiorato la soglia della criminalità.

Negli Stati Uniti il lobbismo nasce insieme alla Costituzione e al free speech (protetto dal Primo Emendamento che tutela in generale la libertà di espressione e che vieta al Congresso di approvare leggi che limitino “il diritto che hanno i cittadini di inoltrare petizioni al governo”) ed è un lavoro (ben remunerato) a tempo pieno grazie al quale i cosiddetti ‘gruppi d’interesse’ (politici, religiosi, morali e soprattutto commerciali) fanno pressione sul Congresso per approvare questa o quella legge, per difendere posizioni acquisite, per condizionare una scelta piuttosto che un’altra. Dagli anni Settanta è un fenomeno in costante crescita e oggi a Washington ci sono oltre 13mila lobbisti registrati come tali, più diverse altre migliaia che lavorano sotto-traccia e fanno spesso il lavoro ‘sporco’ e più rischioso. Con un volume di affari che, nel corso degli ultimi decenni, è cresciuto in modo esponenziale e che nel 2010 ha raggiunto la cifra record di 3,5 miliardi di dollari. Un’attività, quella di lobbying, che è talmente connaturata al sistema politico-costituzionale degli Stati Uniti da essere scherzosamente definita  (con una tipica espressione slang) as American as apple pie, americana come la torta di mele.

Ma chi sono i lobbisti? In gran parte avvocati (o comunque persone uscite dalle Law School e dalle Business School dei migliori college degli Usa), assoldati da famose corporation (JP Morgan ha un team che costa oltre tre milioni di dollari all’anno), da grandi studi legali, sindacati e organizzazioni varie, ma soprattutto da società che nascono ed operano con l’unico scopo di fare lobbismo. La loro attività è riconosciuta da una legge bipartisan del 1995 (Lobbying Disclosure Act) – varata dopo una serie di scandali e azioni che vennero definite “poco chiare” – e i lobbisti (sulla carta tutti) devono registrarsi presso la Rules Committee, la commissione delle regole del Congresso, hanno un badge permanente che gli permette di girare tranquillamente negli uffici di deputati e senatori a Capitol Hill (può essere revocato in caso di violazioni di legge) e sono identificati come “gruppi portatori di interesse da tutelare”, un giro di parole che rende bene l’idea.

Un lavoro che ha come interlocutori membri del governo, parlamentari ed amministratori pubblici (a livello federale, statale e locale) e che è, o meglio dovrebbe essere, ben distinto da chi lavora in una campo contiguo come quello delle public relations. Ed è qui, quando questi due mondi si intersecano, che si trovano i confini tra il lobbismo ‘buono’ (e assolutamente legale) e il mondo ‘grigio’ del sottobosco politico-affaristico che, ogni tanto, sfocia in un grande scandalo come quello di Abramoff. Un sottobosco che (stando ad alcuni studi recenti) arriva ad impiegare una manodopera di quasi centomila persone e dove il cosiddetto metodo delle ‘tre B’ (booze, broads, bribes, ovvero alcol, donne e bustarelle) non è stato mai del tutto abbandonato.

Un mondo che è stato combattuto in epiche battaglie da uomini come Ralph Nader, lo scrittore-avvocato-attivista (e cinque volte candidato senza speranza alla Casa Bianca) diventato un simbolo della difesa dei consumatori e una decennale spina nel fianco delle lobby anche più potenti. Un mondo (e i critici non mancano mai di ricordarlo) che deve il suo nome all’atrio degli alberghi: un posto visibile a tutti ma che nasconde qualche inconfessabile segreto.

Fonte: Alberto Flores D’Arcais – Repubblica.it

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Addio a Thomas Boggs, il più grande. “Tutti hanno bisogno di un lobbista” http://www.lobbyingitalia.com/2014/09/addio-a-thomas-boggs-il-piu-grande-tutti-hanno-bisogno-di-un-lobbista/ Tue, 16 Sep 2014 22:16:48 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2435 Thomas Hale Boggs Jr., l’erede di una dinastia politica che ha costruito una delle più importanti law & lobby firm di Washington, è moro lunedì per un attacco di cuore. Aveva 73 anni.

Nel suo portafoglio clienti aveva società quali AT&T Corp., General Electric Co. e Goldman Sachs Group Inc., e dal 1998 la sua Patton Boggs ha fatturato un totale di $525 milioni solo per attività di lobbying, il 20% più della seconda in classifica, secondo i dati estratti dal Lobbying Register americano. La sua tariffa da “hired gun” era di $550 l’ora.

Ma la reputazione della But Patton Boggs dipendeva più dalla personalita di Thomas Boggs che dall’enormità del fatturato. La sua infatti era una storia di successo, e Boggs non si vergognava affatto di raccontare ai media i retroscena del potere.

Conosciuto col nickname di “Tommy,” Boggs è stato l’avangurdia dei lobbisti che hanno conquistato Washington nella parte finale del XX secolo. Boggs usò le sue relazioni e il suo know-how per fondare la Patton Boggs nel 1966, dando il suo imprinting ad una law firm costituita quattro anni prima da Jim Patton e George Blow. “Ho fatto dei colloqui con i più importanti studi di  Washington e ricevuto alcune offerte”, raccontò Boggs nel 2012. “Ma pensai fosse più divertente entrare in uno studio agli inizi, e si è dimostrata un’ottima decisione. Invece di diventare parte di un grande studio, abbiamo costruito un grande studio”. “Mio padre pensava fossi pazzo – raccontò al Washingtonian – ma mi piace la sfida di inizare qualcosa di nuovo”.

Al momento dell’avvio della sua attività, Boggs aveva appena lasciato l’amministrazione di Lyndon B. Johnson, doveva aveva lavorato a stretto contatto col presidente.

La Patton Boggs crebbe rapidamente, arrivando ad occupare un complesso immobiliare di Georgetown, che divenne il quartier generale internazionale della società, mettendosi in luce quando Boggs ottenne nel 1979 (amministrazione Carter, democratico…) un prestito federale da 1,5 miliardi di dollari per la Chrysler.

Ma il boom arrivò nel 1992, con l’elezione di Bill Clinton, che nominò uno dei soci di Patton Boggs – Ronald H. Brown – Segretario al Commercio, mentre un altro – Lanny J. Davis – fun nominato consigliere speciale del presiCon l’occupazione repubblicana del Congresso nel 1994 Boggs cambiò strategia, assumendo molti avvocati/lobbisti in arrivo da quel mondo, ed alcuni danno anche a lui parte della colpa per le leggi sulla finanza che hanno poi portato alla crisi del 2008.

Negli ultimi anni Boggs era diventato chairman emeritus della Squire Patton Boggs, a seguito della fusione con la law firm internazionale Squire Sanders, e dopo un periodo tra qualche problema (relativo) passato per una revisione compelta della struttura, la società ha ripreso a gonfie vele, anche grazie all’attività di Boggs.

“Tutti hanno bisogno di un lobbista”, raccontò allo Washingtonian. “Tutti hanno bisogno di vedere i propri bisogni tradotti in ciò che i policymakers posso comprendere”.

Boggs era figlio di un deputato Thomas Hale Boggs (D-La.), che fu anche House majority leader nel 1971 e 1972. Suo padre e il deputato Nick Begich (D), padre dell’attuale senatore dell’Alaska Mark Begich (D), scomparvero durante un viaggio aereo in Alaska, e i loro corpi non furono mai trovati.

Dopo l’incidente, la madre di Boggs, Lindy, vinse le elezioni suppletive sostituendo il marito alla House of Representatives, e rimanendo in carica per quasi 20 anni.

Nel 2012 Tommy Boggs spiegò come la politica fosse parte della sua vita sin da giovane.

“La mia sorella più grande, Barbara, usava dire ‘Se andiamo a casa di amici vediamo antichità e meraviglie sulle pareti, ma a casa nostra la nostra specialità era vedere l’ex Speaker Sam Rayburn (D-Texas), Jack Kennedy, [ex Vice President] Hubert Humphrey. I politici di questa città erano la nostra collezione”. E infatti, Barbara divenne sindaco di Princeton (NJ), mentre la sorella più piccola Cokie fa la giornalista politica.

Il suo ex compagno di scuola, il Sen. Patrick Leahy (D-Vt.) ha ricordato come fosse il lobbista Boggs. “Veramente, veramente, efficiente. Con un attributo infallibile: ti diceva sempre la verità, anche se era qualcosa che non volevi sentire”.

Il leader della maggioranza democratica Harry Reid (D-Nev.) ha aperto la sessione parlamentare di lunedì con un tributo a Boggs.

“Tom Boggs era un’istituzione in questa città. Washington è un posto migliore perché Tommy Boggs è passato di qua”.

Un’altra qualità di Boggs era però certamente la sua capacità di raccogliere fondi per il Partito Democratico, anche se spesso interveniva per i Repubblicani. Ad esempio quando il suo collega lobbista Haley Barbour si candidò a governatore del Mississippi nel 2003, Boggs raccolse fondi per il Partito Repubblicano.

“Certamente supporto i democratici, ma quando vedo un repubblicano che penso sia davvero competente e bravo, un mio amico come Haley Barbour, tendo ad aiutarlo”, disse alla CNN nel 2003.

Boggs fu in prima fila lungo la crescita dell’industria dell’advocacy a Washington, iniziando la sua attività quando all’epoca nel DC c’erano sì e no solo 100 persone che identificano sé stesse come “lobbisti”.

Nel 1970 – aveva 29 anni – tentò momentaneamente di seguire le orme paterne in politica, ma la campagna elettorale in cui fu sconfitto lo cambiò, indirizzandolo verso quello che sarebbe diventato il suo percorso di successo.

“La cosa migliore che mi sia mai accaduta”, spiegò Boggs a Carl Bernstein (uno dei due giornalisti del Watergate) nel 2000, “fu essere battuto quando mi candidai per il Congresso”.

Fonti: The Hill, WSj, Washington Post

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Podesta: regolare il flusso di denaro per non annegare la democrazia (Ferpi) http://www.lobbyingitalia.com/2014/07/podesta-regolare-il-flusso-di-denaro-per-non-annegare-la-democrazia-ferpi/ Fri, 04 Jul 2014 15:00:55 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2446

Il modello americano di finanziamento alla politica contrapposto a quello italiano, l’importanza della trasparenza e il ruolo del lobbying. Una “lezione di democrazia” di Tony Podesta, keynote speaker dell’incontro organizzato da Ferpi in occasione dell’Assemblea romana.

di Tony Podesta – Scarica la versione pdf

Thank you for inviting me here at this extraordinary time for Italy and for Europe. Italy has a new government. Of course, Italy has had about a government a year since 1948.

But this time is different. The Renzi government’s mandate can be summed up in one word: “change”. Remembering that President Obama’s campaign slogan in 2008 was “Hope and Change,” I know how powerful that word can be.

Change isn’t easy. Not in the United States. And not in Italy.

As you know, this isn’t the first time that the Italian people have demanded change, and the political system has tried to respond.

In the early ‘90s, the “Clean Hands” inquiries triggered a political upheaval. Traditional parties disappeared. The electoral system was overhauled. New leaders emerged. The “Second Republic” was born.

Since then, governments have lasted somewhat longer, and governance became more important than ideology.

While the political earthquake of the ‘90s was triggered by corruption, the central issue today is how effectively public money is spent. Inevitably, public financing of political campaigns is coming under fire. Why should the taxpayers be subsidizing political campaigns? But, if these campaigns depend completely on private donors, how can we keep the special interests from controlling politics and policymaking?

Americans have been struggling with these questions for four decades or more. I can’t offer easy answers. But I can share our experience with campaign finance reform.

Big Point

The American experience was summed up by two Justices of the US Supreme Court — Sandra Day O’Connor and John Paul Stevens. As they wrote in a decision upholding a campaign finance reform law: “Money, like water, will always find an outlet.”

In a modern, democratic country such as the United States – or Italy – the government makes important decisions. People and organizations of all kinds will try to spend money to elect the officials who make these decisions. And their money, like water, will always find an outlet.

Looking back over the last four decades, campaign finance reform has followed the same pattern, over and over again. When the American people believe that campaign funding and spending has become an intolerable scandal, reforms are enacted.

But then these reforms are, if you’ll forgive my using that word again, watered down. And then, there are new reasons for Congress to enact new reforms.

In short, campaign finance reform laws end up exemplifying another law: “the law of unintended consequences.” No initiative ever turns out as originally planned. This is something you should remember as you reform your political system. Good intentions do not necessarily translate into good results, especially when money meets politics.

Watergate and Reform

For most of American history, campaign finance was like the Wild West – without a sheriff. As recently as the 1960s and 70s, Herman Talmadge, a Democratic Senator from Georgia used to collect cash contributions from his supporters and keep the money in a large inside pocket of his overcoat. In 1979, the Senate Ethics Committee investigated his use of campaign money. In his memoirs, published in 1987, Talmadge wrote, “I wish I’d burned that damned overcoat.”

And then came Watergate. Watergate wasn’t just a burglary and a cover-up. It was a financing scandal. “Deep Throat” — the FBI official who gave the journalist Bob Woodward important tips to uncover the scandal – famously advised him, “Follow the money.” The money trail showed that the Watergate break-in and, later, the “hush money” were financed with secret campaign contributions.

In 1974, in the wake of Watergate, Congress passed amendments to bolster a relatively weak law enacted two years earlier.

The 1974 amendments were the strongest and widest-ranging campaign finance reforms in American history to that point. These amendments restricted the influence of wealthy individuals by limiting the dollar amounts for individual donations to candidates for President and Congress. And they provided public financing of presidential campaigns, together with spending limits for candidates accepting public financing;

Unintended Consequences: The Growth of PACs

But political money, like water, will find an outlet. By restricting the amount of money individuals could contribute directly to congressional campaigns, the campaign finance reform had an unintended consequence: the growth of the Political Action Committees. PACs pool campaign contributions from their members and donate these funds to campaigns.

Most PACs are sponsored by corporations, trade associations, and labor unions. Because PACs have higher contribution limits than individual donors, political money went to the PACs, not directly to the candidates.

Currently, about 4,000 PACs contribute money to campaigns for federal office and they account for about 23 percent of all contributions to candidates for the US House and Senate.

Equating Campaign Spending with Free Speech

Almost as soon as campaign finance reforms were put in place, they were challenged from the political right and left. New York Senator James Buckley, a conservative Republican, and former Minnesota Senator Eugene McCarthy, a liberal Democrat, filed a lawsuit claiming the law was unconstitutional.

In its decision, the Supreme Court ruled that limiting spending by candidates, their committees and independent expenditures imposed “direct and substantial restraints on the quantity of political speech.”

This ruling established the idea that money equals speech, protected under our First Amendment. That idea that has since been used to weaken other restrictions on campaign contributions and spending.

Another Unintended Consequence: Soft Money = More Spending

After 1976, political campaigns became increasingly dependent on “soft money”: money without a specific purpose given to political parties. Because this money wasn’t directly used to support a specific federal candidate, it wasn’t regulated.

Overall, total presidential campaign spending increased from $66.9 million in 1976 to $343.1 million in 2000.

A New Campaign Finance Reform: McCain-Feingold

Once again, there was a growing public demand for campaign finance reform. The next major law co-sponsored by Sen. Russ Feingold, a Wisconsin Democrat, and Sen. John McCain, an Arizona Republican, was enacted in 2002.

The law, known as McCain-Feingold:

  • Banned national political party committees from soliciting or spending “soft money”; and
  • Barred issue ads mentioning a candidate’s name — known as electioneering — that were financed by corporate or union money within 60 days of a general election.

Once again, political money, like water, found an outlet. Activity in tax-exempt nonprofit groups outside the parties increased, because their spending wasn’t regulated.

Weakening Campaign Finance Reform: Citizens United and other Court Decisions

And, once again, the Supreme Court watered down campaign finance reform. In 2007, the Supreme Court struck down McCain-Feingold’s ban on issue ads that did not expressly support election or defeat of a candidate.

In 2010, in Citizens United v. FEC, the Supreme Court ruled that the First Amendment protected independent expenditures of corporations and unions and allowed them to advocate for or against candidates, such as funding political ads within 60 days of an election.

While still not allowed to contribute directly to federal candidates and national party committees, corporations can now fund political activity and advocacy from their treasuries.

Russ Feingold lost his Senate seat in 2010 to Republican Ron Johnson, who did not bind himself to the limits on campaign spending that Feingold imposed on himself. And John McCain lost the Republican presidential nomination in 2000 to George W. Bush and the presidency in 2008 to Barack Obama. Unlike McCain, Bush and Obama refused public financing and spending limits.

Unintended Consequence: The Growth of Super PACs

The Citizens United ruling gave rise to Super PACs. Super PACs can raise unlimited money from individuals, corporations or unions and can expressly advocate for a candidate.

While Super PACs aren’t supposed to coordinate with candidates or their campaigns, former campaign staff frequently run PACs that generally support that candidate.

Partly because of Super PACs, campaign spending in the 2012 presidential election reached unprecedented levels. Super PACs also extended the Republican primary season by keeping candidates such as former Speaker Newt Gingrich and former Pennsylvania Senator Rick Santorum in the race long after Mitt Romney had become the clear frontrunner.

Weakening Campaign Finance Reform: Wealthy Donors Can Give More Money

Meanwhile, it’s harder and harder to build barriers against political money.

On April 2, 2014, the Supreme Court struck down aggregate limits on how much an individual can contribute in a two-year period to all federal candidates, parties, and political action committees, combined.

While individuals are still limited in how much they can give to any single candidate or party directly for each election, now an individual can give the maximum allowed contribution amount to each and every candidate.

This decision was widely reported as benefiting large donors who can give more money than before. But some of us may not appreciate that we can no longer tell fundraisers, “Sorry, but I’m maxed out.”

Public Financing Declines

In the US as in Italy, public financing of political parties is declining. 2012 was the first presidential election since President Nixon’s re-election in 1972 when neither major party candidate accepted public financing and the spending limits that come with it. Instead, spending by the presidential campaigns topped $2 billion (Obama, $1.123 billion; Romney $1.019 billion). On top of that, Super PACS supporting Romney spent $292 million, and Super PACS supporting Obama spent $258 million.

With the growth of Super PACs – and with President Obama creating an independent apparatus — the formal party organizations are relatively less important. Instead, independent organizations are setting the agenda for the national debate.

Disclosure Requirements for Lobbyists

Now you may be wondering, what about lobbyists?

Unlike campaign finance, where the water has to find a new outlet, there are no limits on the amount spent on lobbying. Corporations, organizations, and individuals can spend as much—or as little, unfortunately — as they want on lobbying activities.

Total spending on lobbying has more than doubled in the past 15 years, from $1.46 billion in 1998 to $3.23 billion in 2013—-and that’s down from $3.55 billion in 2010.

Lobbying Disclosure Act

As with campaign finance, lobbyists must register and must disclose their spending and activities. For many years, lobbying registration was lax and infrequently observed. In 1995, Congress passed the Lobbying Disclosure Act, requiring lobbyists to file reports twice a year to be disclosed publicly and with the Congress. These include:

  • Estimates of their income and spending;
  • The names of individuals, agencies and houses of Congress lobbied;
  • And issues lobbied to be disclosed publicly with the Congress.

As we’ve seen before, scandal begets reform. After the Jack Abramoff lobbying scandals of 2006, Congress strengthened the Lobbying Disclosure Act to require disclosure every three months, also including:

  • Previous government positions;
  • Federal campaign contributions and donations benefiting government officials
  • And more stringent criminal penalties for noncompliance.

Foreign Agents Registration Act

For lobbyists representing foreign governments, the disclosure requirements are even more stringent.

Enacted in 1937 to combat Nazi sympathizers, the Foreign Agents Registration Act requires private individuals advising or representing a foreign government or political party before the US government or public to register with the US Department of Justice.

“Agents” must disclose their home address, year of birth, country of citizenship, all political contributions, the US officials or media they contacted and the topics they discussed, as well as how much they earned and how much they spent on behalf of a foreign client. Also, any “informational materials” disseminated broadly must be submitted to the Department of Justice within 2 days.

Lessons for Italy

So what does this all mean for Italy? Here in Italy, the strongest demand for change comes from the people themselves. The combination of top-down awareness and bottom-up expectations creates a rare opportunity.

The inevitable nexus between politics and money – which Rome has known for 2,500 years – is coming under strict scrutiny. People want to know: where the money comes from; who gets the money; and how they spend it.

Regulation of campaign financing should be clear, understandable and, above all, enforceable. It should create a system of transparency and accountability, not rigid limitations that would not be respected anyway.

Otherwise – and this is the lesson to be drawn from the American experience – the law of unintended consequences will inexorably kick in.

Political money, like water, will find an outlet. But we need to regulate the flow of funds so they do not drown our democracies.

Fonte: Ferpi

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Per fare il lobbista è utile avere amici a Palazzo (Linkiesta) http://www.lobbyingitalia.com/2014/06/per-fare-il-lobbista-e-utile-avere-amici-a-palazzo-linkiesta/ Sun, 01 Jun 2014 20:20:20 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2350 (Riccardo Puglisi) In Usa i lobbisti che hanno lavorato per un senatore guadagnano più di chi non ha tali connessioni

Questo pezzo è dedicato con affetto a tutti i complottisti di ogni fede e appartenenza. I complottisti sono convinti che le scelte politiche non sono tanto il frutto del meccanismo democratico di rappresentanza (voto per un partito e/o un candidato, vedo che cosa combina, decido se rieleggerlo), quanto di accordi sottobanco tra i politici e le famigerate “lobby”, cioè individui che rappresentano gli interessi di specifici gruppi di individui, imprese e/o associazioni. L’interpretazione benigna dell’attività di lobbying è che i lobbisti sono abili individui capaci di fornire informazioni necessarie ai politici che devono decidere: questo trasferimento di informazioni migliora la qualità delle decisioni prese. Tanto per fare un esempio: il lobbista del settore X conosce per bene come funziona il settore suddetto, e dunque –fornendo informazioni ai politici che devono decidere come eventualmente regolamentarlo – ottiene l’effetto di evitare disastri normativi, cioè regole stupide e/o controproducenti.

Ma ecco l’interpretazione maligna: il lobbista ottiene buoni risultati semplicemente in quanto conosce le persone giuste, cioè i rappresentanti parlamentari che si occupano del tema. Anzi: capita spesso che il lobbista abbia lavorato per un certo deputato e senatore, e che a un certo punto si sia buttato nel settore privato diventando un lobbista. Negli Usa la facilità del passaggio dal lavoro politico al lavoro di lobby -e viceversa- viene descritto con il termine piuttosto efficace di “porte girevoli” (revolving doors). Finché il tuo ex-principale rimane senatore o deputato e fa parte di commissioni parlamentari importanti, tutto bene.

Che succede invece quando il tuo ex-principale per varie ragioni smette di essere parlamentare? Se vale l’interpretazione benigna dell’attività di lobbying, il lobbista in questione non dovrebbe risentirne granché, mentre sono volatili per diabetici (prendendo a prestito un’efficace -seppur colorita- espressione di Lino Banfi) se il meccanismo in gioco è il secondo.

Un bell’articolo di Blanes i Vidal e coautori consiste in un’analisi empirica della faccenda, focalizzata sui membri del Congresso Usa. Il risultato principale è che i lobbisti che hanno lavorato nello staff di un senatore guadagnano sistematicamente di più di chi non ha questo tipo di connessioni, specialmente se il il senatore in questione è membro dei comitati più importanti.

Ma il risultato principale ottenuto dai tre autori è un altro: quando il senatore si ritira o non viene rieletto o passa a miglior vita, i ricavi del lobbista connesso a quel senatore calano di un quarto, cioè intorno a 182.000 dollari in meno. E valgono risultati simili per i membri della Camera dei Rappresentanti.

Parafrasando Andreotti: a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Coi dati ci si azzecca di più e si pecca di meno.

Ringrazio l’amico Francesco Trebbi per avermi suggerito questo pezzo per #unpapertiralaltro

Per chi vuole saperne di più:

Jordi Blanes i Vidal, Mirko Draca e Christian Fons-Rosen [2012]. “Revolving Door Lobbyists” American Economic Review, 102: 3731-3748. Disponibile qui

Fonte: Linkiesta

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La carica dei nuovi lobbisti (Sole 24 Ore) http://www.lobbyingitalia.com/2009/01/la-carica-dei-nuovi-lobbisti-sole-24-ore/ Tue, 20 Jan 2009 15:13:19 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2454 (Mario Platero) Eventi pubblici e feste private seguono il passaggio di consegne. Ecco come cambia la mappa del potere a Washington con Obama

Change? Cambiamento? Sulla carta è totale: per la prima volta oggi un afroamericano giurerà fedeltà alla Costituzione ai piedi del Campidoglio e andrà alla Casa Bianca. Escono i repubblicani ed entrano i democratici. Per la prima volta in otto anni a Washington cambia la mappa del potere esecutivo. E dunque cambia il “networking”, cambiano gli equilibri del potere, i punti di riferimento. Da tre giorni Washington è travolta da feste, mondanità private, eventi ufficiali il cui unico obiettivo è quello del passaggio informale delle consegne fra le eminenze grigie, gli intermediari del potere, i lobbisti, che l’ultimo censimento informale ha contato in 22mila.

Sono loro al centro di una cinghia di trasmissione che produrrà migliaia di nomine, ambasciatori, consiglieri legali della Sec, vicesegretari, assistenti del ministro: «I ministri e le persone chiave attorno a Obama li conosciamo. Ma gli altri soffrono. Sono queste le giornate decisive in cui un incontro, un contatto giusto, può tradursi in una nomina», dice Douglas Maguire, del Meridian International Center, un ente non profit molto vicino ai democratici.

Ci sono dunque gli eventi pubblici e ufficiali, come le tre diverse cene di ieri sera per Colin Powell, per il senatore Joe Biden, per il senatore John McCain, alle quali ha fatto un’apparizione Barack Obama. E ci sono gli eventi privati: come la festa di domenica a casa di Maureen Dowd, l’editorialista del New York Times che ha contribuito non poco alla svolta di Obama in apertura delle primarie. Il suo party è strettamente “networking”. Talmente ricercato e affollato che l’attore Tom Hanks resta fuori. La caratterizzazione del party della Dowd riguarda i media e Hollywood: il glamour che si riflette sul “business”. George Lucas, produttore e regista, Susan Rice prossimo ambasciatore alle Nazioni Unite, Arianna Huffington, editore dell’Huffington Post, Andrea Mitchell della Nbc (con il marito Alan Greenspan), Margaret Warner, anchor della Pbs, George Stephanopoulos (ex Clinton oggi Abc) David Gregory, la nuova star del programma “Meet the Press” (anche lui resta fuori). C’è anche David Geffen, produttore massimo a Hollywood. È lui che per primo, in un momento delicatissimo delle primarie, ha spaccato Hollywood organizzando una rivolta contro Hillary Clinton. Il suo è stato il primo segnale, lanciato dalle colonne della Dowd, che le cose potevano davvero cambiare. Che davanti a Obama la macchina del potere dei Clinton non era granitica: «Momenti gloriosi: primarie e campagna di fuoco. Mi basta gustare questa vittoria» dice Geffen.

Ma chi lo conosce osserva che «l’onore di qualche riconoscimento» non gli dispiacerebbe affatto, «ma scommetto che alla fine non avrà nulla», ripete l’anonimo informato. Da Jane Hartley, invece, nella sala privata del ristorante Nora, ci sono i banchieri. La Hartley, presidente dell’Observatory Group, un gruppo di consulenti politici a New York, riceve con il marito, Ralph Schlosstein, grande finanziere. Rifiuta l’etichetta della lobbista. Nell’epoca Obama il cambiamento è la parola chiave. E il presidente eletto ha detto chiaramente che i lobbisti sono “out”, che non avrà bisogno di loro e del loro aiuto per raccogliere fondi. Ma la Hartley ha raccolto quasi 2 milioni di dollari per la campagna democratica. A qualcosa è servito: da lei, domenica sera, per la delizia dei banchieri c’è Christopher Dodd, il potente presidente della commissione bancaria del Senato. Intorno a lui, per la categoria “finanzieri privati” ci sono i banchieri Joe Perella, Vincent May e Roger Altman, ma anche finanzieri afroamericani della nuova generazione: Raymond McGuire, il nuovo capo di Investment Banking a Citigroup e Ronald Blaylock di GenNx360, amico di Obama da vent’anni.

Su tutte, vince la battuta che Perella recita a Dodd: «Sa che differenza c’è tra Madoff e i grandi capi delle istituzioni a Wall Street? Madoff sapeva benissimo quel che stava facendo. Gli altri no». Dalla Hartley c’è anche Dick Holbrooke: ci conferma che andrà come inviato speciale per il conflitto in Afghanistan. Farò del mio meglio. Il networking funziona anche per lui, apprende da uno dei presenti un dettaglio importante sugli equilibri di potere in Pakistan. C’è un’altra primizia in questa inaugurazione: i “Dotcom” fanno networking anche loro. Larry Summers, capo consigliere economico di Obama, è andato soltanto al party di Christopher Hitchens per Slate.com per cui lavora. Non aveva l’aria allegra, in compenso non c’erano banchieri. Ieri notte il più conteso è stato il party dell’Huffington Post, al Newseum, con concerto di Sting. E i lobbisti che non si nascondono dietro il dito della semantica? Ieri notte c’è stato il party di Vernon Jordan, avvocato, afroamericano e capitano di lungo corso dei corridoi del potere.

Ma c’è già chi scommette che al primo posto dei lobbisti nell’era Obama salirà Tony Podesta, il fratello di John, il capo della transizione di Obama, la persona cui è toccata la responsabilità di suggerire nomi e gestire il processo di nomine. Tony, con la moglie Heather, potrà chiamare chiunque nella nuova amministrazione. La lista dei suoi clienti è già diversificata. I più importanti: la Bp, Lockheed Martin, Novartis, Amgen, Sunoco e persino Wal-Mart, che rifiuta la sindacalizzazione. Forse anche Tony sta pensando, in nome di Obama, a presentarsi non come lobbista, ma come… “facilitator”, perché tutto cambi restando come prima.

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