Transparency International Italia (Tii) ha messo per la prima volta un punto fermo su questa complessa problematica scegliendo una modalità poco appariscente. Ha riunito per mesi i maggiori esperti di lobbismo, per capire quanto davvero pesino i rappresentanti dei vari settori, che accesso abbiano alle informazioni necessarie, quali regole siano loro necessarie e quanto robusta sia la loro etica. Il tutto per sbarrare la strada a faccendieri di diverse carature e dalle fedine penali di varia lunghezza. Da questo lavoro, Transparency Italia ha tratto il report «Lobbying e democrazia» che sarà presentato e analizzato domani a Roma (in via della Mercede 55, alle ore 10,30) dai due fronti: professionisti del settore e politici.
Talmente sconosciuto è il mondo delle lobby italiane che ancora oggi l’unico riferimento resta il Registro europeo per la trasparenza che riporta 612 iscrizioni italiane. Sappiamo così che il gruppo più consistente è rappresentato da 138 Ong dalle finalità più varie, seguito dal pattuglione di 128 Associazioni di categoria e 76 tra imprese e gruppi. Suddividendo i settori in cui sono maggiormente attivi i lobbisti italiani a Bruxelles, in testa c’è l’Ambiente con 353 rappresentanti, anche se sommando quelli di Imprese (293) e Ricerca (290), risulta una falange di quasi 600 incaricati.
Esistesse nel nostro Paese un identico registro, sapremmo molto di più su come vengono costruite o modificate le leggi, mentre i media potrebbero raccontare correttamente il lavoro dei lobbisti. Un lavoro a volte paziente, che somma competenze vere a quelle non sempre rassicuranti dei politici (come nel caso dei “farmaci orfani”, salvati dai tagli ai fondi pubblici); ma anche fatto di incursioni fulminee, lanciate nottetempo, per stravolgere il senso di una norma con un comma aggiunto o cancellato (ad esempio la lobby dei taxisti).
È così che il 70% degli italiani finisce col ritenere che il governo sia guidato in larga misura, se non del tutto, da poche grandi organizzazioni che agiscono unicamente nel loro interesse (Barometro globale sulla corruzione di Transparency International, 2013). Naturalmente le cose non stanno così, anche se molte istituzioni – partiti in testa – e media a caccia di facili sensazionalismi nutrono quella percezione che spinge l’Italia in basso nelle classifiche mondiali, evitando ogni chiarezza nei rapporti tra politici, enti, burocrati, amministratori e gli interlocutori espressione di pezzi della società civile.
Persino i 5 stelle hanno tentato di mettere mano al tema, scoprendo la inafferrabilità del sistema di rilasci dei badge d’accesso alla Camera. Informazione peraltro inutile, visto che non c’è obbligo di registrare i nomi di chi partecipa agli incontri né su quali temi. Quella che scarseggia, alla fine, è la volontà di entrambe le parti di rendere trasparente il rapporto e così il Paese opaco brulica di discreti ristoranti e di salotti riservati oltre che politicamente trasversali. C’è da tremare, pensando al 2017, quando i partiti saranno a secco di fondi pubblici, mentre tardano le barriere che mettano fuori gioco i “facilitatori” dalla mazzetta facile.
Delle sette raccomandazioni firmate Transparency Italia per disciplinare il lobbismo, cinque si riferiscono ai passi normativi necessari, una invita gli operatori a darsi una efficace autoregolamentazione e l’ultima è un augurio di rinascita del giornalismo investigativo, oggi in stato d’abbandono. E il questionario fatto riempire da una ristretta e qualificatissima cerchia di esperti e professionisti attivi nel cuore del sistema legislativo e burocratico italiano, emergono i tre punti da migliorare – e di molto – per dare un futuro al settore: la trasparenza nell’azione, l’integrità di chi opera, la parità nell’accesso ai processi decisionali pubblici. Tra pochi mesi, questo lavoro di analisi verrà messo a confronto con studi analoghi svolti da Transparency in altre regioni europee, per aggiornare lo stato dell’arte.
«Il principale problema legato al lobbying è la mancanza di trasparenza – conferma Virginio Carnevali, da febbraio presidente di Transparency Italia – poiché resta difficile sapere chi influenza chi e su quali temi. Servono regole più chiare, come l’istituzione di un registro pubblico e obbligatorio, un maggior controllo degli accessi al Parlamento, la possibilità di tracciare gli incontri tra politici e lobbisti».
Fonte: [email protected]
]]>Negli ultimi mesi la rete di relazioni della trimurti si sta espandendo come una supernova, tanto che la supremazia della vecchia “ditta” (così veniva chiamato il sodalizio tra Gianni Letta e Luigi Bisignani, che ha patteggiato un anno e sette mesi per associazione a delinquere nell’ambito dell’inchiesta sulla P4) è ormai un lontano ricordo: la rottamazione della coppia che ha amministrato la cosa pubblica durante il regno di Silvio Berlusconi è (quasi) terminata. Così da febbraio lobbisti, consulenti d’azienda e battitori liberi si affannano per salire sul carro giusto. Telefonate, appuntamenti nei bar del centro storico di Roma, pressioni sui parlamentari di riferimento: entrare fin d’ora nelle grazie dei decisori è fondamentale, visto che chi resta fuori dai giochi mette a rischio non solo gli interessi della sua azienda, ma anche potere personale e lo stipendio.
GLI UOMINI NERI
Nella vulgata comune il lobbista è ancora sinonimo di intrallazzo. L’iconografia lo dipinge come un maneggione in blazer, come l’uomo nero che smista mazzette per velocizzare una pratica o spingere un emendamento. La cronaca giudiziaria non ha migliorato la loro “reputation”: la seconda Tangentopoli, la P4, gli scandali che stanno martoriando l’Eni e la Finmeccanica, i traffichini alla Valter Lavitola, le tangenti del Mose, tutto ha contribuito a rilanciare l’assioma “lobbista uguale faccendiere”. Un luogo comune che danneggia i professionisti degli affari istituzionali, che spesso e volentieri non solo difendono interessi legittimi (come fanno associazioni di categoria e sindacati), ma servirebbero al legislatore per avere dati e informazioni corrette su business cruciali. Non è un caso che la categoria, a Washington come a Bruxelles, sia da lustri rispettata e regolamentata.
L’Italia, anche in questo campo, è molto indietro. Sia per colpa del Parlamento, che da trent’anni annuncia una legge sulla trasparenza delle lobby che non ha mai visto la luce, sia perché i protagonisti della persuasione si comportano spesso come trent’anni fa, quando il costruttore Gaetano Caltagirone rivolgeva all’andreottiano Franco Evangelisti l’immortale «A Frà, che te serve?». Non è un caso che il dossieraggio per fregare i colleghi resta pratica assai diffusa, così come l’opacità nei rapporti con la politica e la “black propaganda” attraverso cui si tenta di distruggere l’immagine di un concorrente grazie a giornalisti ingenui o compiacenti.
I protagonisti della nuova leva renziana non sono stati coinvolti in indagini giudiziarie. Almeno nel penale. Partiamo da Carrai. Che insieme a Lotti, Bianchi e al ministro Maria Elena Boschi è nel ristretto board della Fondazione Open, cuore e cassa del meeting della Leopolda (vedi articolo a pagina 36). Nonostante le voci lo diano in uscita dal “giglio magico”, per il premier resta un punto di riferimento imprescindibile. Più riflessivo di Lotti, timido e mingherlino, rampollo di una famiglia di costruttori molto cattolica, nel 2009 ha deciso di lasciare la politica attiva diventando imprenditore. L’apparenza inganna, perché Carrai nel tempo libero continua a raccoglie fondi per le campagne elettorali del premier e tesse relazioni a tutto campo. Non solo con ambasciatori e politici americani e israeliani, come è noto, ma con tutti i banchieri del Paese: da Fabrizio Palenzona a Lorenzo Bini Smaghi, è a lui che i finanzieri devono fare riferimento.
Se Bisignani girava per Roma in un taxi che aveva affittato in regime di monopolio, Carrai va agli appuntamenti fiorentini a bordo di una vecchia Fiat Punto verde. Ufficialmete non ha incarichi di governo

Molti lobbisti della rete che sta mettendo in piedi il giovane Marco li ha invitati al suo matrimonio: a festeggiare lui e la consorte Francesca Campana Comparini c’erano anche alcuni emergenti, come Filippo Maria Grasso, Pasquale Salzano e la “lobbista del papa” Francesca Chaouqui. Tutti in carriera, e determinati a farne ancora di più: se Grasso, 35 anni, è da tempo nel cerchio magico di Tronchetti Provera in Pirelli, legatissimo a Pippo Corigliano dell’Opus Dei e pizzicato nelle intercettazioni della P4 per aver messo in contatto l’ex ministro Stefania Prestigiacomo e Luigi Bisignani (Grasso vanta relazioni internazionali di alto livello in paesi cruciali come Russia, Brasile e Turchia, nonché stretti rapporti con le forze di polizia), Pasquale Salzano, classe 1973, è il napoletano che ha preso da poco la guida delle relazioni istituzionali all’Eni, al posto di Leonardo Bellodi.
Scelto direttamente dal nuovo numero uno del colosso petrolifero Claudio Descalzi, Salzano è un diplomatico, ha lavorato con Romano Prodi e ha già capito che il suo sarà un compito difficile: a poche settimane dalla promozione il suo capo è stato subito indagato per corruzione internazionale dalla procura di Milano. Con il governo, però, per ora Salzano parla poco: Renzi e Descalzi si scrivono sms ogni due giorni, scavalcando ogni possibile intermediazione.
Al matrimonio di Carrai anche una delle facilitatrici più ambiziose del momento, la Chaouqui. Figlia di un egiziano che se n’è andato di casa quando era ancora bambina e di una insegnante calabrese di San Sosti, s’è trasferita qualche anno fa nella Capitale in una topaia di 15 metri quadri sopra un garage. Ha fatto la babysitter per pagarsi l’affitto e le tasse della Sapienza, poi ha scalato tutte le gerarchie della città in pochi anni. Grazie alle entrature della contessa Marisa Pinto Olori del Poggio (ambasciatrice di San Marino che l’ha praticamente adottata e presentata a decine di vescovi e cardinali), e a un rapporto personale con il cardinale George Pell, il segretario di Stato Pietro Parolin e Bergoglio in persona. Tra un pranzo per vip organizzato su una terrazza in San Pietro (tra gli invitati anche Carrai) e un appuntamento a Santa Marta, Chaouqui sta pure curando gli investimenti italiani di due multinazionali asiatiche.
L’EPURAZIONE
Scaltri e rapidi ad apprendere l’arte di Richelieu, Carrai Bianchi e Lotti non conoscono ancora le logiche e i riti dei vecchi potentati. Cresciuti tra le colline toscane, diffidano dei salotti alla Jep Gambardella dove «prima si magna e poi si intrallazza». Qualcuno, inoltre, ha loro segnalato che sarebbero state proprio quelle élite ad aver pompato a dismisura sui media il caso della casa fiorentina di Carrai in cui ha vissuto Renzi per qualche mese. Arrivati sotto il Colosseo i tre decidono dunque di guardarsi le spalle, di non frequentare i bar di via Veneto dove i lobbisti chiacchierano tra crodini e gin-tonic, e di annientare prima possibile la ragnatela costruita dai venerabili maestri della Seconda Repubblica.
L’epurazione parte a maggio. Cadono come birilli Stefano Lucchini, ras all’Eni da sempre fedele a Bisignani, e Leonardo Bellodi, l’uomo ombra di Paolo Scaroni, esperto di missioni a cavallo tra business e intelligence. Oggi Lucchini ha già trovato un nuovo ufficio a Banca Intesa, mentre sembra che Bellodi voglia aprire – insieme a Scaroni e l’ex ad di Siram Giuseppe Gotti – una sede italiana di un importante fondo di investimento Usa. Anche Gianluca Comin, ex capo delle relazioni istituzionali dell’Enel e ganglio cruciale del vecchio sistema, dopo aver perso la poltrona si è buttato nel privato: oggi ha una scrivania nella sede dello studio legale Orrick, e collabora per la multinazionale dei farmaci Novartis, finita nella bufera per una multa da 92 milioni comminata dall’Antitrust e bisognosa di lobbisti in grado di ridare smalto alla reputazione dell’azienda. Dei vecchi leoni solo Fabio Corsico e Giuliano Frosini possono vantare eccellenti rapporti con il nuovo establishment: il primo, da 10 anni factotum di Francesco Gaetano Caltagirone e manager di punta della Fondazione Crt, è stato messo nel board di Terna dalla Cassa depositi e prestiti; Frosini, un passato da bassoliniano, amico di Enrico Letta e Maurizio Lupi nonché foundraiser per Comunione e Liberazione, ha lasciato Terna per tornare a seguire gli interessi di Lottomatica, ma è stato piazzato dal governo Renzi nel nuovo cda di Trenitalia.
I lobbisti in cerca d’autore, invece, non si contano: se Franco Brescia della Telecom per ora è saldo al suo posto, Marco Forlani (figlio del democristiano Arnaldo) è uscito da Finmeccanica a luglio, mentre Paolo Messa (ex consigliere del ministro Corrado Clini, indagato per una vicenda di corruzione) sta tentando la fortuna bisbigliando suggerimenti al potente Gianni De Gennaro, presidente Finmeccanica ed ex capo della polizia. Costanza Esclapon, contrattualizzata dalla Rai e amica di Lucchini, sta invece difendendo con le unghie il suo capo Luigi Gubitosi dagli attacchi della stampa. Renzi sembra però aver già deciso le sorti del direttore generale di Viale Mazzini, che dovrà cambiare azienda alla scadenza della nomina, prevista per marzo. In pole per il suo posto il “giglio magico” si sta dividendo tra l’ex Mtv Antonio Campo Dall’Orto e il numero uno della compagnia telefonica H3G Vincenzo Novari, per cui tifano Luca Lotti ed Ernesto Carbone.
CHI SALE E CHI SCENDE
«Lobby» è una parola d’origine medioevale. Viene da “laubia”, cioè “loggia”, “portico”. Ma nell’immaginario significa clan, camarilla, combriccola che persegue i suoi interessi a scapito di quelli della collettività. L’azione dei gruppi di pressione in Parlamento, l’assenza di qualsiasi regola di condotta, i rapporti amicali e di scambio con i politici e i partiti, però, non sono un luogo comune. Perché definiscono il tipo di lobbismo che in Italia va da sempre per la maggiore. Se Bisignani (che ha cambiato ufficio, ora è in via Po, e tenta di dire la sua attraverso il buon rapporto con Denis Verdini e la famiglia Angelucci) è metafora negativa, i nuovi ciambellani di Renzi non hanno ancora del tutto cambiato verso, soprattutto nel modo di agire. «Nei ministeri non si fidano di nessuno, e gestiscono da soli tutti i dossier.
Così la trasparenza è un optional, e il rischio di caos e approssimazione è elevatissimo», racconta il numero due degli affari istituzionali di un’importante impresa di Stato. «Ai tempi di Enrico Letta potevamo coordinarci con l’ambasciatore Armando Varricchio e con il suo consigliere Fabrizio Pagani. Ora, invece c’è un vuoto assoluto»Per la cronaca, Varricchio è stato depotenziato a semplice burocrate, mentre Pagani è stato spedito a via XX Settembre, come capo della segreteria del ministro Pier Carlo Padoan. Era proprio Pagani uno dei commis di Stato più influenti: se ai consiglieri di Stato è stata messa la museruola, nei palazzi contano ancora molto Salvatore Nastasi, ex enfant prodige di Gianni Letta e potentissimo direttore del ministero della Cultura, e Antonio Agostini, un passato nei servizi segreti, ex direttore dei ministri Gelmini e Clini, diventato qualche settimana fa numero uno dell’Isin, l’authority per la sicurezza nucleare.
Il VECCHIO E IL GIOVANE
Quando Carrai ha qualche dubbio sul da farsi, telefona ad Alberto Bianchi. Sessant’anni, pistoiese, Bianchi è un riservato avvocato, esperto in diritto commerciale e fallimentare, con un grande studio a Firenze. Ma, soprattutto, è l’uomo che da 15 anni sussurra buoni consigli ai tre ragazzini di belle speranze, Renzi, Lotti e Carrai, che ha allevato intuendone ambizioni e capacità. Liberale convinto e anticomunista, un fratello (Francesco) stimato da Giovanni Bazoli e da poco piazzato alla Fondazione Maggio Fiorentino, lo “zio saggio” siede nel cda dell’Enel e ha un peso specifico notevole. Non solo nella fondazione Open di cui è presidente e di cui ha scritto lo statuto, ma su ogni nomina che conta: pare sia lui ad aver imposto Francesco Starace all’Enel. Dei tre tenori è l’unico che ha beccato una condanna (seppure in primo grado): secondo la Corte dei Conti Bianchi – quando era commissario straordinario dell’Efim spa (una delle holding delle vecchie Partecipazioni statali finita in bancarotta) – avrebbe causato un danno erariale di 4,7 milioni di euro.
Ma dei tre campioni di Renzi quello che i lobbisti sognano di agganciare per primi è Luca Lotti. Nato nel 1982, sottosegretario all’editoria a Palazzo Chigi, è delegato a tutti i rapporti informali del premier. Maestro nell’anticipare i desiderata del “principale” di cui esegue gli ordini senza discutere, ha messo il suo zampino in tutte le partite più delicate. Prima le nomine delle società pubbliche (il nuovo capo delle relazioni istituzionali di Poste, Giuseppe Coccon, a Lotti deve moltissimo), poi ha sfilato le deleghe del Cipe al ministero dell’Economia. Se prima i vescovi e i cardinali parlavano con Gianni Letta, ora devono incontrare lui. Dagli uomini d’affari che vogliono avere buone entrature con il governo, invece, Lotti manda due imprenditori di fede renziana come Andrea Conticini e Andrea Bacci. Tra una partita di calcetto alla Cecchignola e un appuntamento sotto la galleria “Alberto Sordi”, c’è solo un obiettivo che “lampadina” non è riuscito ancora a raggiungere: le deleghe ai servizi segreti. Per le barbe finte l’ex consigliere di Montelupo ha un chiodo fisso, e per strappare l’incarico al sottosegretario Marco Minniti farebbe follie. Per ora Renzi gli ha detto di no. Così, con gli 007 dell’Aisi e dell’Aise, Lotti si incontra nei bar dietro Piazza di Pietra. In incognito, ma neanche troppo.
In Italia tempi lunghi per la legge Banche, politica, leggi, costumi, perfino religione: da un po’ di tempo, in Italia, le lobby sembrano diventate il capro espiatorio di ogni problema. In realtà, le cose stanno esattamente al contrario. Primi a pretendere regole serie, come avviene negli Stati Uniti, dove l’attività di lobbying è garantita dalla costituzione perché permette ai gruppi e cittadini di far sentire la propria voce, i lobbisti mettono a frutto vaste relazioni e profonda conoscenza delle istituzioni, svolgendo un ruolo insostituibile nella mediazione fra interessi reali e luoghi decisionali. Del resto sarebbe impossibile il contrario. Nell’era dei social network, in cui ogni individuo è connesso virtualmente agli altri, e dove i reticolati delle relazioni comuni sono esplicitati online, ci si incontra e ci si riunisce per aver frequentato le stesse scuole, circoli, aziende, accademie. Un motivo in più, soprattutto in Italia, per finire con la demonizzazione e ridare dignità a una professione che può fornire un contributo positivo alla crescita della società. Panorama ha chiesto a un lobbista doc Luigi Bisignani, il suo parere.
Una grande legge per far chiarezza su lobby e lobbisti? Per una volta la strategia del rinvio del governo guidato da Enrico Letta, del decidere di non decidere, ci ha indovinato. Il provvedimento, in discussione nel Consiglio dei ministri del 5 luglio scorso, avrebbe imposto regole impossibili e anche un po’ ridicole. A farlo rinviare non sono stati i lobbisti, che pure la trasparenza e una regolamentazione la vorrebbero, ma un’improvvisata lobby degli stessi ministri. Si sono spaventati, fra l’altro, per l’obbligo di segnare in un apposito registro tutte le persone incontrate in un anno e per quale motivo; magari anche con un apposito modulo da mettere a disposizione di authority varie e, all’evenienza, anche di qualche pubblico ministero.
Nella speranza che in futuro un testo si prenderà in considerazione, esso dovrebbe basarsi sulla reciprocità dei doveri tra lobbisti e pubblici amministratori, per evitare quanto avvenuto con la riforma del processo
penale, in cui si è tentato di equiparare, senza riuscirci, i diritti dell’accusa con quelli della difesa. Negli Stati Uniti l’attività di lobbying è un diritto tutelato dalla costituzione: garantisce ai cittadini e ai gruppi organizzati la possibilità di far sentire la propria voce all’interno dei lavori del Congresso. Fare il lobbista, negli States, non è sinonimo di opacità; ed è del tutto naturale che politici e veterani dell’amministrazione americana una volta lasciata la propria attività originaria, dopo un periodo che chiamano «cooling off», di raffreddamento,
si dedichino a questo lavoro, mettendo a frutto le loro competenze, i loro contatti e la conoscenza della complessa macchina istituzionale. Sono una prassi a cui i palazzi istituzionali attingono per confrontarsi con il mondo esterno. È proprio per questo che John Kennedy poteva serenamente dire: «I lobbisti mi aiutano a capire un problema in tre minuti, i miei collaboratori in tre giorni». E a proposito di Stati Uniti, ne L’uomo che sussurra ai potenti, il libro edito dalla Chiarelettere che ho scritto con Paolo Madron, abbiamo tagliato, in fase di stesura, un episodio divertente che mi riguarda. Infatti contribuii a organizzare 1’11 giugno 1986, alle 12.30 in Vaticano, un incontro tra papa Karol Wojtyla e Frank Fahrenkopf, che è stato anche presidente del Partito repubblicano e uno dei più grandi lobbisti d’America che portò Ronald Reagan alla Casa Bianca.
Comunicai l’ora dell’udienza con pochissimo anticipo al lobbista italoamericano Enzo De Chiara, che lo accompagnava nella visita in Italia, mentre si trovava in un convegno presieduto dall’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti. E in quella udienza papa Wojtyla benedì il ruolo dei lobbisti americani, come
Fahrenkopf confessò a Giulio Andreotti. In seguito Fahrenkopf divenne presidente dell’Aga (American gaming association) contribuendo alla normalizzazione del gioco d’azzardo ed estromettendo di fatto la criminalità organizzata dai casinò. Così come divenne grande riferimento delle società farmaceutiche statunitensi perla sponsorizzazione delle loro istanze.
Certamente i paesi anglosassoni hanno una cultura storica che permette questo tipo di operatività. Mentre di Bruxelles, grande crocevia di lobbisti di tutto il mondo, seconda si dice soltanto alla capitale statunitense, si è
detto e scritto anche troppo. Nei singoli stati membri, la situazione conosce non poche diversità. In alcuni paesi, per esempio, l’accesso dei gruppi di pressione ai luoghi decisionali è oggetto di specifica legislazione, in cui sono indicati tassativamente obblighi e diritti: avviene così in Canada, Stati Uniti, Israele, Germania, Svizzera e Austria.
In altri ordinamenti prevalgono le procedure consuetudinarie o i codici di condotta e di deontologia professionale: è il caso di Gran Bretagna e Francia. In Italia siamo ancora lontani, ma all’Università di Georgetown a Washington insegnano che la trama delle relazioni interpersonali è ormai troppo densa per riuscire a imbrigliare un fenomeno come quello della rappresentanza di interessi. Tutto è lobby: abbondano i duplici cappelli della professione di appartenenza e del lobbying di convenienza. Nell’era dei social network, in cui ogni individuo è connesso virtualmente al prossimo e i reticolati delle relazioni e degli interessi comuni sono esplicitati online, tutti si incontrano da anni. Politici, banchieri, giornalisti e industriali hanno fatto spesso le stesse scuole, frequentato le medesime accademie, gli stessi circoli sportivi e non, tipo Bilderberg e Trilateral, con molta probabilità hanno anche servito sotto insegne identiche. All’estero sono i pargoli di Eton, gli allievi dell’Ena francese, le matricole di West Point, le banche d’affari di Londra e di New York, come la Goldman Sachs, le società di consulenza, come la McKinsey, in Italia la Bocconi o la Normale di Pisa, per fare qualche esempio: il giro è comunque angusto ed è relativamente facile sapere chi agisce per conto di terzi. Se i partiti politici o i sindacati esercitano influenza e pressioni anche al di fuori delle sedi deputate alla propria attività, agiscono in veste di partito o in qualità di lobbisti? Se un avvocato propone bozze di modifica a un provvedimento, lo fa in veste di professionista del diritto o come lobbista? Se un grande giornale perora con vigore una causa, lo fa per fare informazione o per fare lobbying? Che dire del tintinnio di manette a volte anche in grado di orientare comportamenti in una fase storica? E per questo che ritengo sicuramente opportuno e necessario disciplinare l’attività di lobbying in Italia così come lo è già da tempo per i colleghi stranieri (a Bruxelles si stimano circa 15 mila addetti), dando dignità a una professione che può fornire un contributo positivo alla crescita della società, se si fonda su informazioni trasparenti che costituiscono un contributo di valore per chi ha la responsabilità di assumere decisioni pubbliche.
Luigi Bisignani (foto), 59 anni, è stato un giornalista dell’agenzia Ansa e fin da giovanissimo ha frequentato il potere essendo stato, appena ventitreenne, capoufficio stampa di Gaetano Stammati al Tesoro e ai Lavori pubblici. Manager del gruppo Ferruzzi negli anni Novanta, ha patteggiato una condanna a due anni e mezzo per la maxitangente Enimont. La sua ragnatela di potere è fatta di contatti a livelli altissimi nei palazzi della politica in quelli del Vaticano e fino alle stanze dei servizi segreti. Arrestato nel 2011 per l’inchiesta P4, ha scritto con il giornalista Paolo Madron “L’uomo che sussurra ai potenti” (Chiarelettere, 324 pagine, 13 euro), che è già un bestseller.
]]>Ospite ieri a Bersaglio mobile di Mentana, LB ha assistito (più che dare vita) a una gran puntata. Ed è stato anche fortunato. Ci si sono messi Ferrara e Mentana a litigare (qualcuno dice volutamente, io non credo, conoscendo la presenza scenica “ingombrante” di Ferrara). Il video del loro diverbio è cliccatissimo su youtube (guarda qui e leggi il breve commento di Formiche qui).
La trasmissione integrale la potete vedere qui. C’è poco da dire. LB – “il battitore libero senza padroni ne padrini“, come si definisce lui, ma poi vira sui più confortevoli giornalista e consulente – appare in forma. Dispensa consigli istituzionali su come dovrebbe comportarsi un Presidente del Consiglio, racconta (Andreotti, Sindona, Craxi, Lima) facendo capire di sapere molto di più. Non reagisce mai alle tante provocazioni degli ospiti. Anzi, ne incassa il riconoscimento, soprattutto di Ferrara, che lo chiama “inquilino prestigioso dei Palazzi e figura indispensabile della nostra democrazia“. Quando è proprio costretto a difendersi lo fa evadendo con eleganza (“le idee sono meglio del potere“). Addirittura oggi ottiene una menzione (implicita) sul blog di Beppe Grillo.
La conferma della buona riuscita della comparsata tv ce la dà Twitter che, come sempre, si rivela ottimo termometro delle reazioni del pubblico (di un certo tipo, almeno, quello a cui piace informarsi). Quelle che hanno accompagnato la trasmissione di ieri oscillano tra l’ironico, lo scettico e l’interessato. Nessuna offesa o presa di distanze plateale. “Il sorriso di Bisignani mi ricorda quello enigmatico e beffardo dei ritratti dei fiamminghi”, scrive nomfup, seguito a breve distanza da Goffredo De Marchis “Montezemolo, Santanchè, Andreotti e Berlusconi. I punti di riferimento di Bisignani sembrano una barzelletta“. Poche ore prima una gongolante casa editrice (Chiarelettere) scriveva si aver raggiunto le 50mila copie del libro, aggiungendo ironicamente “Fino a stasera basteranno?“ Definitivo, infine, Paolo Madron, che commenta così la trasmissione “mai come ieri sera si è visto che twitter è il cameriere che spia la tivù dal buco della serratura. Per poi parlarne” male”.
E tutto questo fa riflettere sul fatto che le lobby si confermano argomento più mediatico che tecnico. Qualcuno sostiene sia colpa della mancanza di regole. Per esempio Claudio Velardi su ItaliaOggi (Velardi dice tante altre cose interessanti, l’intervista vale la pena di essere letta. La trovate Qui). Vero. Forse. A me pare che il richiamo della parola lobby sia talmente forte che, soprattutto in un Paese di retroscenisti come il nostro, non riusciamo proprio a collocarla entro un contesto sobrio e, appunto, tecnico. Continuiamo a dirci che dovrebbe stare lì, tra le cose serie, salvo poi constatare che attira attenzioni legittime, ma di tutt’altro tipo. Vedremo se il nascituro DDL governativo sulle lobbies cambierà le carte in tavola.
Per ora invece le carte parlano chiaro, pure troppo se alla fine della fiera il messaggio è che conviene essere Bisignani. Anzi, “super-Bisignani”, come Ferrara definisce il premier.
]]>Lobby di dio, lobby dei grembiulini, lobby della pubblica amministrazione, lobby degli enti locali, degli avvocati, dei farmacisti, dei medici,dell’energia, del tabacco e delle multinazionali del fumo, dell’editoria, dei rifiuti. La lista è lunghissima. E poi grandi e piccoli faccendieri, tanti Bisignani, Lavitola, Tarantini e amici di amici di amici.
È un pianeta a due emisferi, uno oscuro e intricato che si oppone a ogni tentativo di regolamentazione, l’altro trasparente e professionale che invoca codici etici e registri, quello di quanti, in nome dei propri gruppi di interesse, cercano di esercitare la loro influenza sui centri nevraligici decisori del nostro paese: governo e parlamento. Ombre e luci di una galassia intricatissima e nebbiosa per la quale comunque potrebbe cominciare da oggi un’era nuova, si spera all’insegna di una maggiore trasparenza dopo l’approvazione definitiva della Legge anticorruzione.
Il bene vincerà sul male? Se lo augurano quelli che si definiscono lobbisti veri, 1.500 professionisti secondo alcune stime, che da tempo si battono per normare la loro attività e non essere confusi con i tanti maneggioni, che conoscono tutte le debolezze della casta e sanno bene come utilizzarle per trarne vantaggio.
Se lo augurano i grandi studi professionali e se lo augura la lobby del settore da sempre in prima linea nel segno della glasnost, quella che si riconosce nell’associazione il Chiostro, che, anche da un punto di vista terminologico, si propone come alternativa etica alla parola lobby (che deriva da lobia, latino medievale, che vuol dire loggia, ma anche passaggio,corridoio).
«Siamo d’accordo con l’introduzione del reato di traffico illecito di influenze – dice il presidente del Chiostro, Giuseppe Mazzei – la formulazione è stata migliorata anche grazie alle nostre critiche costruttive. Ma non ci stancheremo mai di ripetere che c’è bisogno di una legge ad hoc o almeno di un registro nazionale». E poi: «la legge sulla corruzione bastava di per sé – sostiene Carlo Buttaroni dell’Istituto di ricerca e comunicazione pubblica Tecnè – questo articolo non risolve niente. È necessaria una normativa che regolamenti tutta quanta l’azione di lobbing, rendendola tracciabile. Altro non serve. Dipende esclusivamente dal termometro morale del decisore».
Notevoli perplessità nutre il giurista Antonino Battiati. «Il reato di traffico illecito di influenze –sottolinea – così come è formulato, mi suona in contrasto con i principi costituzionali e mi pare che sacrifichi completamente la figura del lobbista, che non ha spazio di intervento. Insomma: senza una regolamentazione, una legge specifica, non mi sembra che regga».
«Questo nuovo reato rende ancor più ambigua la situazione. E più urgente che mai a questo punto – spiega un lobbista – l’introduzione di un registro che documenti le nostre attività. Regolamentarci porterebbe enormi vantaggi al nostro sistema economico. Se fossero garantite a tutti i gruppi di pressione pari opportunità il meccanismo della concorrenza ne trarrebbe vantaggio con conseguenze sul Pil che potrebbe addirittura aumentare di un punto». Chi rema contro? «Naturalmente faccendieri, ex parlamentari e amici degli amici».
Un primo registro comunque c’è già. Ed è stato istituito presso il Ministero dell’Agricoltura. Assicurano che sarà presto consultabile e che i documenti prodotti dalle lobby dovranno essere consegnati all’Unità per la Trasparenza. Più avanti in questa direzione, le Regioni, capofila la Toscana, che ha una legge sulle lobby dal 2002. Molise e Basilicata sembrano intenzionate a seguirne l’esempio.
Ma tutti questi paletti funzioneranno? Ammette disincantato un deputato, che vuole conservare l’anonimato che «non si può credere di regolamentare le relazioni umane». «Ci sono tantissime proposte di legge sulla materia – spiega – abbiamo anche studiato vari modelli. Nessuna va davvero al nocciolo della questione, che è la modalità dell’azione di lobbing. Qui è il punto. Non si può prescindere da amicizie, da conoscenze. Come si fa a parlare di traffico illecito di influenze? Per fare un esempio. Se un mio amico, lobbista o traffichino, incontrato a una cena o a una partita a tennis, in due minuti mi spiega come aggiustare un provvedimento sull’energia pulita o sui rifiuti o sui farmaci, che faccio non lo sto a sentire? E se finirà per influenzarmi, com’è che verrà stanato? Devo essere io a tenerlo a bada. Devo essere io a chiedergli di ufficializzare la sua proposta. Quindi il problema è a monte. La barriera la dovremmo innalzare noi parlamentari. O coloro che hanno potere di decidere».
Sì, perché troppo spesso tutto avviene in privato, one to one. Il relatore di un disegno di legge viene contattato dai singoli lobbisti. E per un deputato o un senatore è un’opportunità: non solo perché il lobbista fa risparmiare figuracce, conoscendo meglio la materia tecnicamente, ma anche e soprattutto per la relazione di do ut des informale e inevitabile che si stabilisce. E c’è dell’altro: «Ci sono certi lobbisti, più vicini in questo caso ai faccendieri, che si rivolgono non direttamente a noi, ma ad altre figure». Di solito «il grande rito si consuma nei salotti romani o nelle sale riservate dei grandi ristoranti, protagonisti emissari poco riconoscibili. È proprio questo che va impedito». Cosa fare? Intanto vediamo che frutti darà l’introduzione di questo nuovo reato.
Fonte: Linkiesta
]]>E’ inutile girarci attorno: nessuna istituzione è impermeabile alle influenze oppure alle pressioni esterne. E fare lobbying significa influenzare chi matura decisioni a rilevanza pubblica, confrontarsi con lui, rappresentandogli le proprie po-sizioni e le proprie argomentazioni. Fare lobbying serve tanto alle impre-se quanto alle istituzioni. E non ci sono «casi Bisignani » che possano rimuovere, se non ipocritamente, questa esigenza sociale. L’interesse del mondo economico a fare lobbying è cosa nota.
In un mondo in cui il peso dello Stato ín economia è forte e crescente, capire le istituzioni e dialogarvi è necessario. Francesco Cossiga, che di queste cose capiva parecchio, ripeteva che il maggior Paese a socialismo reale fuori dal mondo dichiaratamente comunista è l’Italia. L’esigenza di fare lobbying è particolarmente forte per chi opera in mercati regolati nella struttura di prezzo (utilities, trasporti, comunicazioni) o nella condotta e nella stabilità (mercati finanziari). Per diversi osservatori la presenza delle lobby è considerata la causa di molti mali di questo Paese. Comunque la si pensi, non è possibile rinunciare a fare lobbying. Se non lo fai tu. lo farà il tuo concorrente, con il rischio che sia lui, e non tu, a influenzare le nuove regole. Ma attenzione: non bisogna credere che il lobbying serva solamente alle (grandi) aziende.
A beneficiarne sono anche le istituzioni, e non poco. L’interazione con la società civile ha una funzione informativa e serve a evitare regole che sulla carta stanno in piedi ma nella realtà servono a poco o fanno addirittura danni. Si tratta di un principio di buon senso, che negli Stati Uniti d’America è tutelato dalla Costituzione: cittadini e gruppi organizzati hanno il diritto di far sentire la propria voce all’interno del Congresso.
Ma c’è dell’altro. Il dialogo tra la società civile e il decisore pubblico serve a legittimare quest’ultimo: figura capace di ascoltare e interpretare il mondo esterno, pur mantenendo la identità e indipendenza istituzionale. Proprio per questo motivo, anche in Italia, sono diverse le autorità indipendenti che fanno ricorso alle consultazioni pubbliche. Per la Banca d’Italia, la Consob, la commissione nazionale per le società e la Borsa, l’Isvap, l’istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private, e la Covip, la commissione di vigilanza sui fondi pensione, questa prassi addirittura è prevista dalla legge sul risparmio.
Ma non solo. Il dialogo tra società civile e decisore pubblico può portare al miglioramento della qualità della normativa. Questo è un elemento fondamentale della Europe 2020 Strategy, confermato da una recente analisi dell’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica (Oecd): con regole più efficaci la produttività italiana potrebbe crescere del 14% in un decennio.
In Italia il lobbying esiste, e in varia forma lo esercitano un po’ tutti: lobbisti di professione, consulenti di ogni genere, think tank, partiti, sindacati, media. Sembra la taverna di Star Wars, dove mancano regole non giova a nessuno, figuriamoci a chi fa lobbying seriamente. In Italia il dato antropologico è che contano l’economia relazionale, il peso di partiti e sindacati gestori e la morsa d’acciaio del mondo corporativo. Se si vogliono fare regole certe per il lobbying è impossibile non tenerne conto.
La prima sfida è quella di evitare discipline asimmetriche, dove alcuni soggetti sono molto regolati mentre altri fanno i comodacci loro pur facendo lo stesso mestiere. Meglio cominciare dalle regole che disciplinano l’accesso fisico alle se-di istituzionali, la partecipazione dei portatori di interesse a indagini conoscitive in Parlamento, i giri di consultazione. Serve a fare lobbying seriamente e nelle sedi appropriate, a lasciare traccia dei confronti tecnici e a evitare opacità. Anche a costo di fare lavorare un po’ di meno i ristoranti romani.
]]>Faccendiere è lo spregiativo per lobbista,che già di per sé non suona onorevole in un clima di ipocrisia perbenista. Sta di fatto che il potere italiano, per funzionare, sta da sempre con un piede nelle regole e con un piede fuori. E la società italiana, sempre per poter funzionare, fa lo stesso. Luigi Bisignani è da molti anni un lobbista di rango. Ha una robusta rete di relazioni in ogni ambiente sociale e politico e imprenditoriale. Combina rapporti d’affari, maneggia le informazioni economiche e politiche riservate, è un esperto conoscitore delle burocrazie e del management pubblico, briga per le nomine dei potenti di stato, garantisce tutti con la sua riservatezza (o almeno garantiva un tempo i suoi interlocutori con quell’azione sottotraccia che è la specifica competenza di chi fa il suo mestieraccio).
Sono legioni quelli come lui, Prodi ha i suoi informatori riservati, i suoi amici di banchieri e di manager pubblici, i suoi ometti per la politica estera, e per mille relazioni speciali sottopelle, e così li hanno i D’Alema e i Casini e i Fini e i Bersani e tutti gli altri politici di peso, per non parlare degli imprenditori. Qualcosina di simile succede anche in Europa, nelle democrazie nordiche, in America. Qualche volta quel tipo di lobbista molto avventuroso e trasversale che è Bisignani ha lavorato per facilitare i contatti e la conoscenza di causa (riservata) di alcuni di loro, i puri di cuore.
L’accusa di associazione per delinquere elevata contro di lui da un Henry John Woodcock, la solita P seguita da un numero progressivo, è caduta alla prima verifica di un giudice terzo, è rimasto il “favoreggiamento personale” che lo ha portato, evidente esagerazione, ai domiciliari. Bisignani ha asserito di aver informato alcuni suoi amici politici, tra i quali Gianni Letta, di intrighi giudiziari a carico loro e di loro colleghi, tra questi il nostro Denis Verdini.
Siccome ho cercato di capire come stanno le cose nel caso di Letta e Verdini, quello relativo agli appalti post terremoto, posso dire che, se sia stato compiuto, il reato consiste nell’avvisare una persona corretta come Letta che magistrati disinvolti stanno cercando di incastrarlo nel quadro del solito attacco mediatico-giudiziario a un politico influente del giro di Berlusconi, oltre che a un vecchio protagonista del potere romano dalla Prima Repubblica ad oggi, ciò che in effetti è avvenuto. Mi pare un comportamento benemerito, nell’Italia di oggi, così com’è. E se lo condannassero per favoreggiamento personale (ma il processo è il fango sui giornali, quello giudiziario finisce quasi sempre in burla), a Bisignani porterò le arance.
Il lobbista arrestato era nelle liste della P2 prima di avere compiuto trent’anni, il che non è segno di abominio sebbene denoti una certa disinvoltura, che a quel bel tipo spiccio, intelligente, veloce, non è d’altra parte mai mancata. Fu un mio eroe quando in televisione negò spavaldamente davanti a un furbo procuratore in crociata, Antonio Di Pietro, di aver fatto quello che poi fu condannato in giudizio per aver fatto, la messa in sicurezza nelle casse del Vaticano di una parte della tangente Enimont destinata ai partiti politici di governo. Ai miei occhi il sostituto procuratore e futuro capo partito che lo interrogava stava scassando con mezzi abnormi una vecchia democrazia marcita che doveva essere rinnovata nella e dalla politica, non da una campagna forcaiola, tendenziosa, a senso unico; e il suo imputato era uno dei tanti brasseur d’affaires o power broker che nel sottobosco delle istituzioni e dell’economia italiana (da Agnelli a Gardini) si erano resi utili al funzionamento materiale di un paese semilegale, e ora con la sua impudenza difendeva una certa dignità del suo lavoro (dicono gli americani: è un lavoro sporco, a dirty job, ma qualcuno dovrà pur farlo).
Avevo conosciuto Bisignani una decina d’anni prima di quello spettacolo processuale fantastico, che fu poi replicato con la stessa spavalderia da un altro mio vecchio amico, Primo Greganti, il compagno G. Lavorava all’Ansa e Lino Jannuzzi mi diede il suo numero di telefono per avere informazioni politiche riservate, da raccontare ai lettori di un giornale radical-socialista di breve vita che si chiamava Reporter, dove feci come notista politico una parte del mio praticantato giornalistico, e allora le informazioni riservate non erano reato. Fu abbastanza utile, e qualche tempo dopo presentai volentieri un suo libro al teatro Eliseo con Giulio Andreotti. Era un libro di spionaggio, un romanzo, gradevole ma niente di speciale. Non definii Bisignani “il Ken Follet italiano”, come ha scritto Alberto Statera ieri su Repubblica, quella dizione era la fascetta editoriale del libro, non una mia banalità. Dice Statera che Bisignani mi avrebbe introdotto in Vaticano, come una tangente qualsiasi, per darmi arie da ateo devoto, ma anche questo è falso: ho più entrature nei bordelli di Macao che nella Santa Sede, e le mie guerre culturali me le sono sempre fatte in proprio e con pochi amici. Comunque le amicizie o le frequentazioni amichevoli, per natura disinteressate, non si rinnegano nella grazia e nella disgrazia. Il lobbista che lavora sui gruppi di interesse non è un modello etico, ma censurarlo con argomenti virtuisti su un giornale edito da un rispettabile raider con la residenza in Svizzera mi sembra il colmo.
Quel che impressiona i moralisti veri, che guardano le cose con malinconico attaccamento alla loro infinitamente triste verità, è che i giullari del perbenismo, gli uomini che si dicono liberi e inconcussi, integerrimi datori di lezioni, non hanno alcun interesse a correggere questo andazzo. Diffidano delle libertà politiche e di mercato che sono la cura, insieme con un vero stato di diritto, dei mali che denunciano. Osannano il carisma rigeneratore di una casta giudiziaria che li tutela finché può e prende parte alla lotta politica negando la giustizia. Si fingono un mondo ideale inesistente e così impediscono al mondo reale di esprimere la sua vera eticità, che è sempre ambivalente, precaria, reversibile, storta, ma ha la sua radice nel demone personale di ciascuno e nelle scelte pubbliche e politiche di tutti, non nella morale delle lobby pro tempore vincenti.
Fonte: Giuliana Ferrara – Il Foglio
]]>