abramoff – LobbyingItalia http://www.lobbyingitalia.com Blog dedicato al mondo delle lobbies in modo chiaro e trasparente Fri, 13 May 2016 14:04:46 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.4.2 Lobby, negli USA scandali a raffica ma è nel Dna del paese (Repubblica.it) http://www.lobbyingitalia.com/2015/03/lobby-negli-usa-scandali-a-raffica-ma-e-nel-dna-del-paese/ Mon, 16 Mar 2015 14:12:31 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2732 “Ero coinvolto profondamente in un sistema di corruzione. Corruzione quasi sempre legale”. Quando alla fine del 2010 – dopo aver scontato quattro anni di carcere e aver lavorato per sei mesi a 7,5 dollari l’ora in una pizzeria – Jack Abramoff chiuse i suoi conti con la giustizia, affidò a quelle poche parole il riassunto di cosa fosse il lobbyism negli Stati Uniti. Il pentimento (con relativo libro di denuncia) del più famoso lobbista americano degli ultimi venti anni – al centro di un altrettanto famoso scandalo che avrebbe coinvolto 21 potenti uomini della Washington politica (compresi un paio di funzionari della Casa Bianca di George W. Bush) – diede il via a feroci polemiche, accuse e contraccuse, editoriali indignati e (spesso) ipocriti, su una delle attività che più condizionano (nel bene e nel male) la vita politica e finanziaria del più potente paese del pianeta. Attività del tutto legittima e legale ma che ha offerto spazio, nei dettagli di regole complicate, anche ad azioni che hanno sfiorato la soglia della criminalità.

Negli Stati Uniti il lobbismo nasce insieme alla Costituzione e al free speech (protetto dal Primo Emendamento che tutela in generale la libertà di espressione e che vieta al Congresso di approvare leggi che limitino “il diritto che hanno i cittadini di inoltrare petizioni al governo”) ed è un lavoro (ben remunerato) a tempo pieno grazie al quale i cosiddetti ‘gruppi d’interesse’ (politici, religiosi, morali e soprattutto commerciali) fanno pressione sul Congresso per approvare questa o quella legge, per difendere posizioni acquisite, per condizionare una scelta piuttosto che un’altra. Dagli anni Settanta è un fenomeno in costante crescita e oggi a Washington ci sono oltre 13mila lobbisti registrati come tali, più diverse altre migliaia che lavorano sotto-traccia e fanno spesso il lavoro ‘sporco’ e più rischioso. Con un volume di affari che, nel corso degli ultimi decenni, è cresciuto in modo esponenziale e che nel 2010 ha raggiunto la cifra record di 3,5 miliardi di dollari. Un’attività, quella di lobbying, che è talmente connaturata al sistema politico-costituzionale degli Stati Uniti da essere scherzosamente definita  (con una tipica espressione slang) as American as apple pie, americana come la torta di mele.

Ma chi sono i lobbisti? In gran parte avvocati (o comunque persone uscite dalle Law School e dalle Business School dei migliori college degli Usa), assoldati da famose corporation (JP Morgan ha un team che costa oltre tre milioni di dollari all’anno), da grandi studi legali, sindacati e organizzazioni varie, ma soprattutto da società che nascono ed operano con l’unico scopo di fare lobbismo. La loro attività è riconosciuta da una legge bipartisan del 1995 (Lobbying Disclosure Act) – varata dopo una serie di scandali e azioni che vennero definite “poco chiare” – e i lobbisti (sulla carta tutti) devono registrarsi presso la Rules Committee, la commissione delle regole del Congresso, hanno un badge permanente che gli permette di girare tranquillamente negli uffici di deputati e senatori a Capitol Hill (può essere revocato in caso di violazioni di legge) e sono identificati come “gruppi portatori di interesse da tutelare”, un giro di parole che rende bene l’idea.

Un lavoro che ha come interlocutori membri del governo, parlamentari ed amministratori pubblici (a livello federale, statale e locale) e che è, o meglio dovrebbe essere, ben distinto da chi lavora in una campo contiguo come quello delle public relations. Ed è qui, quando questi due mondi si intersecano, che si trovano i confini tra il lobbismo ‘buono’ (e assolutamente legale) e il mondo ‘grigio’ del sottobosco politico-affaristico che, ogni tanto, sfocia in un grande scandalo come quello di Abramoff. Un sottobosco che (stando ad alcuni studi recenti) arriva ad impiegare una manodopera di quasi centomila persone e dove il cosiddetto metodo delle ‘tre B’ (booze, broads, bribes, ovvero alcol, donne e bustarelle) non è stato mai del tutto abbandonato.

Un mondo che è stato combattuto in epiche battaglie da uomini come Ralph Nader, lo scrittore-avvocato-attivista (e cinque volte candidato senza speranza alla Casa Bianca) diventato un simbolo della difesa dei consumatori e una decennale spina nel fianco delle lobby anche più potenti. Un mondo (e i critici non mancano mai di ricordarlo) che deve il suo nome all’atrio degli alberghi: un posto visibile a tutti ma che nasconde qualche inconfessabile segreto.

Fonte: Alberto Flores D’Arcais – Repubblica.it

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Perchè ai lobbisti interessa la prossima decisione della Corte Suprema sui finanziamenti ai partiti http://www.lobbyingitalia.com/2014/01/perche-ai-lobbisti-interessa-la-prossima-decisione-della-corte-suprema-sui-finanziamenti-ai-partiti/ Sun, 19 Jan 2014 20:21:54 +0000 http://lobbyingitalia.admin.comunicablog.it/?p=2128 Tipicamente la corruzione è considerata un fenomeno legato ai titolari di cariche istituzionali. Dal funzionario che prende la tangente per favorire un’impresa in una gara d’appalto fino al politico che compra voti. Il problema, per quanto diffuso e radicato fosse, era e rimaneva del corrotto e del corruttore.

Ora potrebbe cambiare tutto. La Corte Suprema sta valutando se la definizione di “corruzione” possa applicarsi non solo ai singoli individui, ma all’intero sistema istituzionale di cui fanno parte. Una decisione che, se arrivasse, chiuderebbe un dibattito lungo 15 anni. Il primo a sollevare il problema fu  McCain nel corso della campagna elettorale di oltre un decennio fa in New Hampshire. “The enormous sums of money given to both paties by just every special interest in the country, corrupts our political ideals” – sostenne McCain, proseguendo così: “All of our ideal are sacrificed. We are all corrupted“. Alla richiesta da parte degli avversari politici di precisare chi fossero questi corrotti, McCain precisò di nuovo che la corruzione non era necessariamente di Tizio o Caio. Era dell’intero sistema, e delle pressioni lobbistiche esercitate attraverso le donazioni in sede di campagna elettorale.

Fin qui normale dialettica politica. Ora che la Suprema Corte statunitense nel caso McCurtcheon vs F.E.C. si è trovata a dover stabilire se la parola corruzione – e il concetto che implica – si possa applicare anche al sistema, oltre che ai singoli individui, le cose sono diverse. Le conseguenze, in un caso o nell’altro, sarebbero tutt’altro che teoriche. Se a essere corrotti fossero considerati solamente gli individui non avrebbe più senso la crociata di tanti attivisti contro l’aumento esponenziale dei finanziamenti privati alla politica. In caso contrario, se cioè la Corte Suprema sposasse la definizione data dal EJ Safra Center for Ethics di “corruzione istituzionale“, allora avrebbero gioco facile quelli che chiedono limiti più severi agli importi erogati e al regime di trasparenza delle donazioni.

Non c’è solo la Corte che riflette sul tema. Anche il Congresso statunitense ha per le mani la patata bollente. Il famoso Anti-Corruption Act proposto al Congresso (tra gli altri da un celeberrimo lobbista ex-corrotto, Abramoff) e caldeggiato da diverse associazioni no profit, sostiene che si debba adottare un concetto di corruzione di sistema, necessario per poter approvare maggiori controlli e vincoli ai finanziamenti privati alla politica. In pratica: con un sistema corrotto il Congresso e il governo avrebbero gioco facile a intervenire per porre fine al fiume di finanziamenti privati.

Sono problemi con cui, prima di presto, anche l’Italia avrà a che fare. Da una parte c’è la riforma del finanziamento pubblico ai partiti. Riforma timida, che entrerà a regime nel corso dei prossimi anni, e che non esclude completamente il supporto pubblico. Ma di fatto apre all’intervento di privati benefattori disposti a finanziare i candidati in cui credono. Ecco perchè sarà un problema di lobbying, soprattutto in un sistema (involontariamente) de-regolato, com’è il nostro. Sarà un problema, l’ennesimo, della politica. E di chi la farà. O avrà gli sponsor giusti per farla.

Fonte: I-Com

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Washington fa la nuova legge sul lobbying, Bruxelles cerca di fare un registro http://www.lobbyingitalia.com/2007/08/washington-fa-la-nuova-legge-sul-lobbying-bruxelles-cerca-di-fare-un-registro/ Thu, 30 Aug 2007 00:00:00 +0000 http://www.lobbyingitalia.com/2007/08/washington-fa-la-nuova-legge-sul-lobbying-bruxelles-cerca-di-fare-un-registro/ Al Congresso l’approvazione della nuova legge sull’attività di lobbying, grazie ad una iniziativa parlamentare bipartisan, è avvenuta in tempi brevi. È una risposta agli scandali recenti legati al lobbyista Jack Abramoff, che con le sue regalie per ottenere favori dai deputati ha travolto l’ex capogruppo repubblicano alla Camera, Tom DeLay, e ha fatto tornare di moda il detto che la politica si influenza con le tre “B” – bambole, bottiglie e bustarelle. C’è poi l’eterna polemica sui finanziamenti privati alla politica, sempre di attualità negli anni di campagna elettorale per le presidenziali.
L’“Honest Leadership Act” introduce nuove regole per i lobbyisti. I report sulle loro attività di relazioni istituzionali andranno inviati trimestralmente anziché ogni sei mesi, e saranno disponibili online. Già oggi i report delle società di lobbying, consultabili presso gli uffici del Congresso, contengono i nomi delle società clienti, le parcelle fatturate e le istituzioni coinvolte nell’attività di influenza. I media americani hanno dunque la possibilità di puntare la luce sulle campagne di lobbying più intense, come quella portata avanti dal fondo di private equity Blackstone, che nel primo semestre 2007 ha investito quasi quattro milioni di dollari per fare pressione sul Congresso contro la proposta di innalzare dal 15 al 35 per cento la tassazione sui capital gain. Il tutto alla luce del sole.
Ma la vera novità della legge è che le nuove disposizioni sono destinate soprattutto ai parlamentari. Si introduce l’obbligo per deputati e senatori di dichiarare il totale cumulato dei contributi elettorali ricevuti da lobbyisti e aziende, anche se spalmati tra finanziamenti diretti al politico, a fondazioni sue amiche, alla sezione locale del suo partito e simili. Si prevede che gli emendamenti a leggi di spesa siano pubblicati su Internet due giorni prima della votazione. Si fa divieto ai parlamentari, ai candidati e persino ai loro assistenti di accettare regali di qualsiasi tipo – inclusi pranzi e cene, viaggi della durata di più di un giorno, voli su aerei privati. Soprattutto, si impongono restrizioni al meccanismo della “porta girevole”, tanto criticato dall’opinione pubblica americana, per il quale un ex esponente del governo o parlamentare si fa assumere da una società di lobbying per influenzare quelli che fino a poco prima erano i suoi colleghi. I senatori non potranno diventare lobbyisti per almeno due anni dal termine del mandato, i loro collaboratori per un anno. Una volta oltrepassata la porta girevole, gli ex parlamentari perderanno il diritto d’accesso ai corridoi riservati del Congresso, ai ristoranti e al parcheggio. Inoltre in caso di condanna per reati contro la pubblica amministrazione, gli ex deputati e senatori perderanno la pensione parlamentare.
Con questa legge si allarga il baratro che separa Washington e Bruxelles in termini di trasparenza dell’attività di lobbying. Da qualche mese il commissario estone Siim Kallas ha lanciato la proposta di istituire un registro pubblico dei lobbyisti presso le istituzioni europee. L’adesione al registro sarebbe volontaria. Chi si registra avrebbe il dovere di comunicare il soggetto – azienda, associazione – per cui fa lobbying e le eventuali parcelle fatturate al cliente per questa attività. La Commissione europea vorrebbe che al registro si iscrivessero anche studi legali, fondazioni culturali, think-tank e Ong, il che ha destato prevedibili polemiche. Ma persino le società di lobbying di Bruxelles, tramite l’associazione di categoria Epaca, hanno comunicato che non intendono aderire a registri pubblici. Kallas ha risposto che, in mancanza di adesione volontaria al registro, valuterà di regolamentare in modo stretto l’attività di public affairs a Bruxelles. Ma, considerata la prassi del quartiere europeo della città, ci sono dubbi che Kallas riuscirà a tenere a bada gli stessi funzionari della Commissione, abituati a fuggire dai grigi palazzi della burocrazia per intrattenersi in pranzi e ricevimenti assai più stimolanti.
In Italia il dibattito sulla regolamentazione dell’attività di lobbying non è mai seriamente iniziato, nonostante alcune proposte di legge presentate alla Camera. Non sembra essere una priorità, anche se il ministro Giulio Santagata ha annunciato un disegno di legge sul tema. Negli scorsi anni si è lavorato per dare trasparenza al processo legislativo, ma non c’è ancora nessuna forma di pubblicità sull’attività di influenza. Forse perché si stenta a credere che sia nata una generazione di lobbyisti professionalizzati, che consentono a imprenditori e manager di avere armi più efficaci della leggendaria risposta di Francesco Gaetano Caltagirone a Evangelisti, “a Fra’ che te serve?”.

Paolo Zanetto – Il Foglio

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