(Francesco Angelone) Seppur nato da un progetto del Ministero della Difesa Usa, internet – da quando è diventato di ampio accesso – è sempre stato considerato un baluardo della democrazia, un luogo dove non esistono caste e tutti sono in qualche modo uguali. Corollario di questo principio, oltre che sua pratica applicazione, è la net neutrality: tutto il traffico su Internet deve essere trattato allo stesso modo, senza corsie preferenziali.
Da diverso tempo, ormai, negli Usa si parlava di una possibile rivisitazione di questo principio, permettendo alle società che forniscono le connessioni online (i cosiddetti provider) di trattare in modo diverso i contenuti che circolano sulle loro reti e, conseguentemente, proporre offerte commerciali differenziate per il servizio prestato. Ora tutto questo è realtà. Giovedì 14 dicembre la Federal Communications Commission (FCC), agenzia governativa che ha il compito di vigilare sulle comunicazioni, ha votato (3 a 2) per porre fine alla net neutrality. L’agenzia è composta da 5 membri, 3 repubblicani (i favorevoli) e 2 democratici (i contrari) e il suo presidente, Ajit Pai, è stato nominato da Trump. Il piano approvato dalla FCC centra l’obiettivo di rimuovere i vincoli normativi posti durante l’amministrazione Obama e ‘ristabilire la libertà su internet’.
Ma la libertà di chi? Chi sostiene la bontà di questa decisione, infatti, crede che la rete fino al 2015 (quando la FCC di colore politico opposto intervenne a garantire la neutralità) non avesse problemi di alcun tipo circa la disparità di trattamento dei siti e dei servizi. Chi vi si oppone, invece, pare chiedersi soprattutto la libertà di chi questa decisione dell’agenzia federale vada a tutelare. Secondo questi, i provider - ovvero colossi industriali del calibro di AT&T, Verizon e Comcast - potranno controllare il traffico online e condizionare i loro clienti privilegiando alcuni contenuti su altri.
Come se non bastasse, negli Usa alcuni di questi fornitori di accesso a internet sono anche distributori di contenuti. Si pone, così, il problema di un potenziale conflitto di interessi, materia sulla quale dovrà esprimersi un’altra agenzia federale, la Federal Trade Commission. Contrappeso di questa liberalizzazione del sistema sarà la trasparenza che la FCC richiederà ai provider per tutelare i consumatori e permettere agli operatori più piccoli di aver accesso ad informazioni che possano promuovere l’innovazione delle infrastrutture di cui dispongono. Ma anche sull’effettivo e corretto funzionamento di questo meccanismo permangono dei dubbi.
E così per le conseguenze di questa decisione. Per i sostenitori della neutralità della rete, è stata proprio la parità nel trattamento dei contenuti a favorire il successo di Internet, la trasformazione di alcune imprese in colossi globali e allo stesso tempo a garantire la sopravvivenza dei ‘pesci più piccoli’. In qualche modo, quindi, il piano della FCC ucciderebbe la rete delle reti. Gli altri, tra cui lo stesso Pai, sostengono che le nuove regole consentiranno agli ISP (Internet Service Provider) di aumentare i ricavi, in modo da potere investire per rafforzare le reti e offrire servizi migliori ai clienti, anche nelle aree geografiche dove si guadagna meno.
La risoluzione dell’agenzia sulle comunicazioni arriva al termine di una quasi estenuante attività di pressione che entrambe le parti hanno condotto. Secondo il Center for Responsive Politics, organizzazione attentissima a queste questioni, negli ultimi dodici mesi la FCC ha ricevuto un totale di circa cento report sul tema. Imprese di telecomunicazioni, associazioni di categoria e gruppi di advocacy contrari alla neutralità della rete secondo queste stime hanno affrontato una spesa totale di circa 110 milioni di dollari. Inferiore, pari a circa 39 milioni di dollari, la spesa di coloro che hanno fatto pressione per mantenere in vigore le regole fissate nel 2015. Tra questi, imprese del settore tech e i colossi Amazon, Facebook e Twitter. Un flusso di denaro, quello elargito da entrambe le fazioni, che ha preso la direzione sia dei democratici che dei repubblicani. 495 su 535 sono, infatti, i membri del Congresso che hanno ricevuto fondi da questi gruppi, a dimostrazione di quanto il tema sia tenuto in considerazione tanto dagli operatori del settore che dai policy-maker.
Una curiosità: Ajit Pai, presidente della FCC, in precedenza ha lavorato per Verizon. Altra curiosità: una delle organizzazioni più attive contro la net neutrality è stata la no-profit American Commitment, che ha svolto un lavoro capillare per creare consenso sui social network e che ha beneficiato di fondi a gruppi di decine di migliaia di dollari da donatori perlopiù sconosciuti (essendo questo permesso dal suo particolare status giuridico). Il presidente di questa no-profit, Phil Kerpen, presiede la Internet Freedom Coalition, una federazione al cui interno siedono diverse associazioni di cui sono membri Verizon, Comcast, Sprint e AT&T.
E al di qua dell’oceano? Come ha riportato La Stampa, la presidente della Camera Laura Boldrini, tra le principali sostenitrici della Dichiarazione dei Diritti di Internet nel 2015, ha definito l’abolizione della net neutrality negli Stati Uniti come un fatto «grave», ricordando come non sia democratico privilegiare certi contenuti rispetto ad altri, discriminando e aumentando sensibilmente i costi per i consumatori. In Europa, il Parlamento ha invece votato un regolamento sulle telecomunicazioni che, oltre ad avere eliminato il roaming per la telefonia mobile nei Paesi dell’Unione, ha anche previsto più garanzie per la neutralità della rete. Con buona pace delle lobby degli operatori. Che sia questa “the next big thing” di cui discutere in un negoziato tra USA e UE per regole comuni sulla net neutrality?
(Gabriele Giuliani) La transparenza nelle relazioni è più utile che la legge sul lobby, dicono i professionisti dell’area.
Il Congresso Nazionale brasiliano deve approvare una legge per regolamentare l’attività delle relazioni istituzionali (lobbying). Ma deve fare molta attenzione per non trasformare la professione in una nuova corporazione. La cosa più importante, secondo i professionisti del settore, è garantire la trasparenza fra lo Stato ed il settore privato. A dicembre 2016, la Commissione della Costituzione e giustizia della Camera ha approvato la terza versione di un progetto che regolamenta la professione del lobbista. Il progetto è stato inviato alla Plenaria, ma fino ad oggi mai discusso.
Per i lobbisti che hanno partecipato al dibattito promosso dall’associazone IRELGOV lo scorso 9 novembre, più importante della legge sarebbe garantire all'opinione pubblica l’accesso alle informazioni. “Tutti i cittadini devono sapere chi ha incontrato il decisore pubbico e perchè”, ha commentato Christian Lohbauer, direttore relazioni istituzionali della Bayer in Brasile. L’incontro è avvenuto nella sede del prestigioso studio legale Tozzini Freire a San Paolo. “Sono a favore della regolamentazione. Ma ho paura che crei una nuova corporazione” ripete Lohbauer.
Per la responsabile delle relazioni istituzionali della banca Itaù, Luciana Nicolo, il miglior viatico sarebbe “ una legge semplice, senza preoccuparsi con tesserini. Se il processo legislativo limita spazi, allontana ancora di più la società dal dibattito pubblico”, ha detto.
Per la direttrice relazioni istituzionali della Nestlè Brasile, Helga Meuser, bisogna fare attenzione a non complicare ciò che è già complesso. “Deve esserci una regolamentazione, ma aumentare la complessità e isolando il pubblico non favorisce il dialogo, che è il nostro maggior strumento di lavoro”.
Il presidente del IRELGOV, Erik Camarano, vice presidente relazioni istituzionali della General Eletric per l’America Latina, era dello stesso avviso. Recentemente ha organizzato un corso per gli associati IRELGOV a Bruxelles. Per prendere spunto dalla regolamentazione dell’Unione Europea, che si è occupata di lobbying in maniera più avanzata e matura.
(Francesco Angelone) Poche ore dopo la strage di Las Vegas dell’1 ottobre scorso, nella quale Stephen Paddock ha lasciato a terra 58 vittime e 546 feriti in quella che è la più grave sparatoria di massa nella storia degli Stati Uniti, il dibattito sul Secondo Emendamento della Costituzione era già in atto. Come dopo Littleton (Columbine High School), dopo Blacksburg (Virginia Tech), dopo Aurora, dopo Newtown (Sandy Hook), dopo San Bernardino e dopo Orlando, il Paese a stelle e strisce si è diviso: da una parte gun rights e dall’altra gun control.
Sarebbe troppo lungo, in questa sede, analizzare la natura del Secondo Emendamento o la storia della legislazione in materia di armi, ed è forse più interessante capire come stanno oggi le cose e partire dai dati. È complicato stabilire con esattezza quante armi ci siano nelle case degli americani, ma alcune stime riferiscono una cifra superiore ai 350 milioni (40 milioni in più dei 318 milioni di cittadini americani), altre parlano di cifre significativamente più basse (inferiori ai 300 milioni). Ovviamente, non tutti ne possiedono una e il 20% circa della popolazione detiene il 65% delle armi.
Negli ultimi anni gli introiti dei produttori di armi sono incrementati e sono più alti che mai. Si parla di ‘effetto Obama’, perché pare che i tentativi dell’ex Presidente di forzare la mano sul tema abbiano prodotto una sorta di ‘corsa all’armeria’, spronando i gun lovers ad acquistare armi prima di un eventuale ban alla vendita facile. Questo significa che ci sono più sparatorie? Sembrerebbe di no (anzi, pare esserci un drastico calo), elemento che rafforza le ragioni dei possessori di armi che non ritengono opportuna una correlazione tra numero di armi in circolazione e numero di omicidi.
Ma quanti sono i morti da arma da fuoco? Preso in valore assoluto, senza paragoni col passato, il dato è sconvolgente e pare quello di una epidemia: parliamo di oltre 30 mila morti l’anno (più di 2/3 per suicidio), quasi 90 al giorno, cui vanno aggiunti circa 80 mila feriti (i dati sono certificati da un completissimo rapporto OCSE). Dal 1968 (anno in cui furono uccisi, per citare due figure importanti della storia Usa, Martin Luther King e Robert Kennedy) i morti per arma da fuoco sono 1.5 milioni, circa 100 mila in più degli americani morti in guerra dalla Dichiarazione di Indipendenza del 1776.
Potrebbero bastare poche righe per fermare questa epidemia, ma la politica sceglie di non prendere contromisure. Il Congresso ha più volte fallito nel rendere più stringente i background checks (i controlli preliminari) per l’acquisto di armi e ha respinto gli ordini esecutivi presidenziali. Questo accade nonostante, secondo dati del Pew Research Center, l’84% degli americani (compresa quindi la maggioranza degli elettori repubblicani) veda favorevolmente un intervento restrittivo in materia. Il punto, quindi, è che schierarsi in favore di un gun control, costa elettoralmente.
Tuttavia, non sono mancate negli anni, e non mancano tutt’ora posizioni marcate in tal senso. Nella campagna per le presidenziali del 2016 Hillary Clinton è stata sicuramente la più convinta sostenitrice di una legislazione ‘di buon senso’ che tenesse conto della ‘cultura della sicurezza fai da te’ ma che puntasse principalmente a tutelare la sicurezza degli americani. Questo l’ha posta in contrasto perfino con Sanders, le cui posizioni erano più tiepide (votò 5 volte contro il Brady Bill del 1994), sia, soprattutto, con Donald Trump. A fine 2015 la potente, organizzata e famosissima NRA, la lobby delle armi, per nome del suo Presidente La Pierre promise di voler fare di tutto per impedire alla Clinton di mettere piede nello Studio Ovale. Una promessa che si è trasformata in milioni, precisamente 30.3 secondo Opensecrets.org destinati a tutte le piattaforme di sostegno a Trump e circa 1 milione per la sua campagna. Sempre Opensecrets.org stima che dal 1989 i fondi totali elargiti dai gun rights interests per le campagne elettorali siano 10 volte superiori ai gun control interests. Hillary Clinton nel suo libro di memorie, What Happened, sintetizza così la questione: l’NRA è diventata, in sostanza, una sussidiaria delle potenti industrie che producono e vendono armi. La loro ideologia perversa è che tutto ciò che conta, anche se questo costa migliaia di vite.
Quando si passa ad esaminare le spese per attività di lobbying a Washington la musica non cambia e la proporzione tra sostenitori del Secondo Emendamento e sostenitori di una riforma rimane pressoché la stessa. Viste le ragioni delle due parti in causa si assume che le posizioni siano inconciliabili. Lo sono a maggior ragione oggi, a fine 2017, in uno scenario di polarizzazione politica quasi mai così evidente nella storia degli Stati Uniti. Secondo i democratici come la Clinton, l’NRA è dalla parte sbagliata della storia, della giustizia e della human decency. Secondo gran parte degli elettori di Trump ogni tentativo di riforma è un attentato alla libertà e nasconde un piano di requisizione nazionale delle armi. I Repubblicani, fortemente pro gun rights, controllano il Congresso, i Democratici sono culturalmente divisi e inibiti a prendere posizioni palesemente pro gun control per non pregiudicare la propria carriera. Nel frattempo i soldi continuano ad affluire nelle tasche dei candidati e il sangue a scorrere nelle strade.
di Thomas T. Holyoke e Timothy M. LaPira, London School of Economics.
La gente non ama i lobbisti. Gli appartenenti alla categoria vengono rappresentati come trafficanti di influenze corrotti che manipolano i legislatori con donazioni alle loro campagne elettorali. Spesso persino i candidati che vorrebbero sfruttare la rabbia populista contro i lobbisti stessi sembrano non essere in grado di separarsene.
Un esempio? L’annuncio del Presidente Trump sul prosciugare la palude di Washington, anche se uno dei suoi collaboratori più vicini nonché ex consigliere per la sicurezza nazionale, Micheal Flynn, ha svolto attività di lobby per diversi governi stranieri senza nemmeno essere registrato. Oppure Corey Lewandowski, ex manager della campagna di Trump, che ha messo a disposizione il proprio network di relazioni per una società di lobby quasi immediatamente dopo l’elezione. Piuttosto che prosciugare la palude, sembra che essa si stia ampliando.
Sebbene l’attività di lobby sia molto diversa rispetto a come viene generalmente rappresentata, si ritiene ancora inopportuno influenzare la politica in nome e per conto di gruppi di interesse. Il problema delle connessioni illecite dei lobbisti non si presenta solo negli Stati Uniti, ovviamente: la retorica del “prosciugare la palude” impedisce di riconoscere appieno il contributo positivo che l’attività di rappresentanza di interessi apporta al processo democratico. Invece, dobbiamo “nutrire l’acquitrino”, così da distinguere gli aspetti positivi e negativi del lobbying e per far ciò abbiamo riunito un piccolo gruppo di scienziati politici a Porto Rico per un incontro sui problemi della rappresentanza di interessi nei regimi democratici, le cui conclusioni vengono presentate sul numero di Ottobre 2017 di Interest Groups & Advocacy da Thomas Holyoke e Timothy LaPira.
Qualche dato:
Il numero dei lobbisti è in crescita;
I sistemi democratici variano enormemente tra di loro nel regolamentare l’attività di lobby, in particolare con riguardo alle informazioni che devono essere rese pubbliche;
Le leggi sulla rappresentanza di interessi vengono approvate spesso immediatamente dopo degli scandali, ma quasi mai vengono aggiornate;
I legislatori che beneficiano del lavoro dei lobbisti sono riluttanti ad emanare riforme;
Persino le imprese che si avvalgono della consulenza dei lobbisti non sempre conoscono precisamente quali attività vengano svolte;
La definizione stessa di “attività di lobbying” andrebbe espansa;
Con maggiori dati a disposizione del pubblico sarebbe più facile chiarire su quale interlocutore viene effettuata pressione.
Entrambi gli studiosi convengono che l’alta domanda di servizi forniti dai lobbisti incoraggia sempre più rappresentanti a sfruttare le “revolving door”, mettendo a frutto le loro reti di relazioni e competenze in ambito di policy per costituire grandi società. Inoltre riconoscono che molti lobbisti si avvantaggiano della definizione di “lobbista” che viene data dalle leggi federali in materia di trasparenza per evitare di registrarsi o di esplicitare le loro spese, creando così un vasto esercito di “lobbisti-ombra”. Problemi simili esistono nelle democrazie europee: Michele Crepaz ha indagato sulle origini delle leggi sul lobbying, scoprendo che la maggioranza dei Paesi OCSE le ha approvate approssimativamente nello stesso periodo del ventunesimo secolo.
Gli scandali legati all’attività di lobby spesso costringono i governi a regolamentare la rappresentanza di interessi, anche sulla base di quanto raccomandato dall’Unione Europea e da altre organizzazioni internazionali, ma molti stati ancora non si sono mossi in questa direzione. Jana Vargovčíková ha analizzato approfonditamente le proposte vagliate da Polonia e Repubblica Ceca, concludendo che la scarsa regolamentazione, unita spesso alla mancanza di reale interesse ad agire da parte dei rappresentanti eletti, porta a serie difficoltà nel condurre un processo di riforma.
Quindi come si combatte la minaccia del lobbying senza freni? Mettendo sempre più informazioni a disposizione di sempre più persone. Lee Drutman e Christine Mahoney concordano che i lobbisti devono essere obbligati a render noto per conto di chi, come e perché stanno svolgendo la loro attività in dichiarazioni pubbliche. Queste dichiarazioni potrebbero essere utilizzate anche dai legislatori per assicurarsi che vengano ascoltati e protetti quanti più interessi concorrenti possibile: in un’ottica di database aperti online, queste comunicazioni informative potrebbero essere consultate da chiunque, dal grande pubblico come dai giornalisti e persino dagli altri lobbisti. Inoltre Tom Holyoke sottolinea come spesso anche chi si serve della consulenza dei lobbisti non conosce precisamente le attività che vengono svolte: il lobbying può essere tutelato dalla legge solo se i rappresentati conoscono e approvano ciò che i loro rappresentanti svolgono.
Questi rimedi generali basati sui fatti non risolveranno tutti i problemi della rappresentanza di interessi particolari nei governi democratici: la verità è che il lobbying è parte naturale di ogni democrazia. Riteniamo però che la miglior forma di regolamentazione sia aumentare il numero di informazioni pubblicate. I lobbisti stessi potrebbero trarne vantaggio, coinvolgendo le persone che rappresentano in un processo trasparente di lobby giorno per giorno.
Questa è la ricetta per una democrazia in salute.
Traduzione a cura di Paolo Pugliese
(Gabriele Giuliani) L’attività di lobbying in Brasile spesso è stata associata al giro di denaro e favori indebiti tipici della politica carioca. Un'analisi del numero di Agosto della rivista PODER segnala tutti i progetti di legge che tendono a disciplinare questa attività, già regolamentata in diversi Paesi.
Il lobbying coinvolge la politica e i politici in vari momenti, dal finanziamento della campagna elettorale, sia durante il mandato, quando gruppi più o meno organizzati fanno pressioni per farsi ascoltare da governanti o legislatori.
Per l’avvocato Walfrido Warde Júnior, presidente del'Instituto para a Reforma das Relações entre Estado e Empresa (Iree), occorre proseguire nella discussione di questo tema a Brasilia. “Il finanziamento pubblico pre-elettorale deve essere regolamentato. Dovrebbe esistere una regola meritocratica per ricevere i finanziamenti fra i candidati di ogni partito”. Già durante il percorso legislativo, Warde Junior vede rischi nella formazione di gruppi parlamentari, presenti con varie formazioni al Congresso e influenzabili dal peso delle lobby. “Questi gruppi multipartitici si organizzano secondo i temi di interesse di certi settori. Quindi, gruppi con meno capacità associativa e disponibilità finanziaria possono rimanere più vulnerabili”, spiega.
Secondo i due avvocati Larissa Wachholz, vice-presidente dell'Instituto de Relações Governamentais (Irelgov), e Bruno Perman, dello Studio legale Pinheiro Neto, di São Paulo, è imprescindibile disciplinare il lobbying come attività e quella del lobbista come professione. Un progetto di legge con questo fine è stato presentato alla Camera dieci anni fa e solamente ora andrà discusso; un altro progetto è al Senato. “Stabilire regole permette la trasparenza” dice Perman, ottimista che entro la fine dell’anno venga approvata la legge sul lobbying. Perman afferma infine che “è fondamentale non confondere il lobbying con le pratiche commerciali”.
Per Larissa Wacholz, inoltre, esiste una asimetria fra le necessità dei grandi gruppi industriali e la società civile. “L’eccesso di burocrazia e i costi dei processi allontano chi ha più bisogno di essere ascoltato”, racconta. Larissa ricorda come le azioni di lobby sono sfociate in progetti utili, come il packaging degli alimenti o il porre limiti alla pubblicità infantile.
Ad ogni modo, il Brasile avrà un lungo cammino da percorrere se vuole arrivare ad un livello di trasparenza degno dei Paesi scandinavi. “In Svezia non è necessario regolamentare il lobbying, dato che tutti hanno accesso ai governanti”.
(Fonte immagine: Expedia)
(Francesco Angelone) Uno studio del 2013 condotto da Sunlight Foundation stimava in circa 10mila il numero dei lobbisti registrati a Washington e in almeno altrettanti quelli non registrati, definendoli shadow lobbyists. Non è, quindi, una novità che il Registro di Washington comprenda solo una parte delle persone che effettivamente lavorano per influenzare i decisori pubblici a stelle e strisce.
Stando ai dati raccolti dal Centre for Responsive Politics, ormai specializzato in ricerche di questa natura, quasi 2.100 lobbisti attivi nel 2016 a livello federale non hanno segnalato di aver svolto attività di lobbying nel primo trimestre del 2017. Di questi, circa 1.200 hanno continuato addirittura a lavorare per lo stesso datore. In passato abbiamo già sottolineato, ancora una volta ricorrendo a OpenSecrets.org, come a questa diminuzione di lobbisti registrati non corrisponda una diminuzione delle spese in lobbying. I dati confermano, quindi, come i lobbisti più semplicemente continuino a lavorare off the record con buona pace del controllo pubblico generalmente reso possibile dal sistema di divulgazione delle informazioni. L
’inasprimento delle norme sul lobbying sotto l’amministrazione Obama e i mantra elettorali di Trump hanno avuto, fino ad ora, l’apparente conseguenza di rendere più opaco il lobbying a Washington. Il fenomeno del ritiro nell’ombra, inoltre, riguarda sia i lobbisti in-house che i dipendenti di società di lobbying. Ad esempio, Squire Patton Boggs e Covington & Burling, due tra le più grandi società di lobbying, hanno visto finire fuori dalle liste più del 15% dei loro dipendenti. Similmente hanno agito trade groups e aziende.
Se è vero, poi, che per alcuni la scomparsa dal Registro o la mancata segnalazione di aver svolto attività di pressione è diretta conseguenza di un cambio di dipartimento all’interno della stessa azienda, per altri casi si apre la questione delle revolving doors. Più di 100 iscritti al registro sono passati a lavorare per il settore pubblico (quasi tutti per il Governo federale), dove probabilmente i loro ex colleghi troveranno punti di riferimento affidabili. Un esempio è quello di Justin Mikolay, ex lobbista di Palantir, società che fornisce analisi di dati per agenzie di intelligence, e che ora riveste il ruolo di assistente del Segretario alla Difesa James Mattis. Secondo quanto riportato da Buzzfeed il fondatore di Palantir, Peter Thiel, avrebbe elargito donazioni nei confronti di Donald Trump per un valore complessivo superiore al milione di dollari.
Quello delle donazioni è altro tema interessante messo in evidenza dalla ricerca del Centre for Responsive Politics. Risulta che quasi la metà dei lobbisti non registrati nel primo trimestre del 2017 non ha compiuto una donazione di oltre 200 dollari nel ciclo elettorale del 2016. La maggior parte, poi, di coloro che ha compiuto donazioni di oltre 200 dollari non lo ha fatto direttamente a dei candidati ma ai Political Action Committees non palesemente schierati costituiti dalle società per cui lavorano. Lo studio ha anche reso possibile stabilire l’affiliazione politica dei lobbisti donatori definendo democratico o repubblicano quello che ha donato più del 70% della cifra totale donata per candidati dell’uno o dell’altro partito.
E così, molti più lobbisti ‘repubblicani’ hanno disattivato il loro nome dal Registro per trasferirsi presso il Governo federale mentre più lobbisti ‘democratici’ non compaiono più nel Registro pur lavorando per lo stesso datore o avendo preferito abbandonare il mondo del lobbying. Va generalmente tenuto conto del fatto che i lobbisti tendono a donare a membri di entrambi i partiti maggiori, presumibilmente cercando di assicurarsi porte aperte su entrambi i lati del corridoio.
(Foto via Twitter)
(Paolo Pugliese) Il mese scorso è stata presentata alla Camera dei Deputati argentina una proposta di legge per la rappresentanza di interessi: fino ad ora l’attività di lobby era scarnamente regolata all’interno della disciplina sull’accesso alle informazioni pubbliche.
Il Centro Culturale Kirchner ha avuto un grande peso nel supportare questa iniziativa: sin dal 2016 ha promosso dibattiti, workshop, conferenze e occasioni di confronto. L’articolo 1 del progetto di legge fissa l’ambizioso obiettivo di regolare l’attività e la pubblicità della rappresentanza di interessi, partendo dalla definizione di “rappresentanza di interessi”, spesso passaggio estremamente complesso per la complessità della materia: la proposta la descrive come l’attività intesa ad influenzare il processo di decision-making in favore di un interesse rappresentato personalmente o per contro d’altri, remunerata o offerta gratuitamente, svolto in forma abituale o occasionale, pianificato o incidentale.
Il principale obiettivo della nuova regolamentazione è pubblicare gli incontri tra lobbisti e funzionari con maggiore trasparenza, garantire uguaglianza di trattamento per tutte le parti coinvolte e dare la possibilità ai cittadini di avere accesso alle informazioni relative agli atti del governo; viene previsto un registro delle udienze con indicazione obbligatoria dei partecipanti e sintesi degli incontri.
La legge prevede anche un vasto sistema di enforcement: per chi non si uniformerà alla nuova regolazione sono previste sia sanzioni amministrative che responsabilità penale personale in caso di reati particolarmente gravi quali la corruzione.
Gustavo Castagnino, presidente del Circulo de directivos de comunicacion (DirComs), associazione che riunisce numerosi manager della comunicazione delle più grandi aziende del paese, sottolinea come ogni iniziativa per promuovere la trasparenza sia da supportare, senza cadere in eccessive burocratizzazioni: il riferimento è alle proposte in materia presentate nei vicini Peru e Cile, ritenute troppo complesse per essere applicate: viene infatti previsto un registro pubblico dei lobbisti, snodo spesso cruciale della disciplina che è estraneo invece alla proposta argentina.
Il registro non pare però aver riscosso particolare successo presso i professionisti del lobbying: risultano iscritti infatti solo una manciata di soggetti.
Fernando Cinalli, fondatore della società di consulenza S+R, invece, spinge per ulteriori passi avanti: [la bozza presentata] è un grande passo avanti a livello istituzionale, ma è il primo anello di una catena più lunga che coinvolge anche la legge sul conflitto di interessi.
Le proposte di legge per la regolamentazione della rappresentanza di interessi nei paesi del Sud America, spesso modellate sull’archetipo statunitense, rappresentano un enorme passo avanti verso una maggiore trasparenza e democratizzazione del processo di lobbying, nell’ottica di una maggiore chiarezza e responsabilità delle autorità politiche rispetto alle decisioni approvate, vera volano per una normalizzazione di un’attività che, purtroppo, viene ancora spesso demonizzata.
Non è mai stato così basso il numero di lobbisti registrati a Washington, secondo i dati riportati dal Centre for Responsive Politics. Al termine del primo trimestre dell’anno corrente erano 9175 (al 24 aprile sono 9190) a fronte dei 10225 dello scorso anno.
(Francesco Angelone) Seppure in calo progressivo da ormai diversi anni, è nel paragone con il 2016 che si registra il calo più drastico (- 10,3%). Ci sono almeno due buone ragioni per credere che questo dato sia collegabile all’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, che in campagna elettorale le aveva minacciosamente promesse ai lobbisti. Per prima cosa alcuni lobbisti hanno letteralmente cancellato il proprio nome dal registro per avere una chance di essere assunti nello staff di Trump, sia nel transition team che nell’amministrazione vera e propria. In secondo luogo, la retorica della campagna elettorale può aver convinto molti a de-registrarsi per mettere in salvo le proprie possibilità di incontrare membri dello staff cui era stato imposto il divieto di non incontrare lobbisti registrati.
Tuttavia, a una diminuzione del numero di rappresentanti di interessi iscritti presso il Senate Office of Public Records, non è corrisposta una diminuzione delle spese in attività di lobbying. La cifra di 838.4 milioni di dollari spesa al 31 marzo 2017, infatti, è la più alta dal 2013. A detta di Caleb Burns, partner dell’ufficio legale Willy Rein, il mondo dell’impresa non è mai stato così in subbuglio come nei primi 100 giorni della presidenza Trump e la gran parte degli sforzi sono stati profusi in una attività di lobbying ‘difensiva’, tesa a che la legislazione rimanesse così com’è.
Nello specifico, i settori che hanno speso di più sono il sanitario (150 mln $), il manifatturiero/chimico/ristorazione (129 mln $) e il finanziario/immobiliare (126 mln $). Le industrie che hanno fatto registrare un incremento maggiore di spese in attività di pressione rispetto al primo trimestre del 2016 sono quelle farmaceutiche (+ 10 mln $ e una spesa complessiva di 78 mln $) e l’oil & gas (+ 4,7 mln $ per un totale di 36,1 mln $). Per quanto riguarda le industrie del tech si registra il trimestre con la maggiore spesa dal 2009, da quando cioè è iscritta al registro, per Facebook che si è concentrata molto sulla legislazione in materia di cybersecurity, accordi di libero scambio e visti per i lavoratori altamente qualificati. Anche Apple ha fatto registrare un record di spesa per autovetture autonome e questioni legate a salute nell’utilizzo di dispositivi mobili. Top spender del settore resta Google (che pure ha speso poco meno dello scorso anno), particolarmente attiva su pubblicità online e diffusione di materiale controverso (probabilmente anche fake news). Hanno fatto registrare il maggior incremento percentuale rispetto allo scorso anno Chevron (+77%), Teva Pharmaceutical Industries (+115%) e la National Rifle Association, la lobby delle armi, che ha praticamente triplicato la cifra spesa nel primo trimestre 2016.
Per quanto concerne le società di consulenza e lobbying, gli introiti maggiori nel primo trimestre del 2017 sono quelli di Akin, Gump et al. (9.2 mln $). A seguire Brownstein, Hyatt et al. (6.5 mln $), Squire Patton Boggs (5.8 mln $) e Podesta Group (5.5 mln $).
(Francesco Angelone) E' l’incertezza a regnare sovrana tra i lobbisti americani in questi ormai primi due mesi di amministrazione Trump alla Casa Bianca. Ad oggi, secondo quanto riporta The Hill, l’amministrazione pare in netto ritardo rispetto alle precedenti per quanto riguarda la tabella di marcia delle nomine di funzionari, con circa un terzo di quelle già effettuate che attendono di essere confermate dal Senato.
Per i lobbisti tutto questo si traduce nella impossibilità materiale di individuare l’interlocutore per i dossier sui quali sono al lavoro. Alcuni di loro hanno confidato a The Hill di essere stati letteralmente rimbalzati da un ufficio all’altro prima di poter avere accesso al decision-maker appropriato. Superato questo scoglio, però, altri hanno sottolineato come l’approccio originale di alcuni officials permetta contatti più informali e maggiore apertura agli input offerti loro. Insomma, il fatto che le caselle del Governo non siano ancora tutte occupate non scoraggia i professionisti del settore.
D’altronde, sfruttando il cospicuo reclutamento di uomini d’affari nelle fila dell’amministrazione, numerose aziende (un esempio è la Holland & Knight) stanno assumendo persone che hanno lavorato per la campagna di Trump o nel transition team. Sembra evidente, quindi, come a dispetto delle promesse e delle proposte (come un irrigidimento della regolamentazione anti revolving doors), il confine tra interessi particolari e amministrazione non sia così netto.
L’inizio del nuovo anno è anche il momento nel quale si fanno i bilanci di quello appena terminato. Così, il Centre for Responsive Politics, primo centro di ricerca statunitense in tema di lobbying e finanziamento della politica, ha stilato la classifica delle 50 società e gruppi industriali che hanno speso di più in attività di pressione a Washington nell’anno solare 2016. Lo scorso anno la spesa complessiva di questi gruppi ha toccato quota 716 milioni di dollari (1 milione in più rispetto al 2015) pari a circa un quarto di quanto tutti i gruppi industriali e le aziende hanno speso negli Stati Uniti per influenzare le politiche federali.
Ai primi 5 posti troviamo la Camera di Commercio degli Stati Uniti, l’Associazione Nazionale degli Agenti immobiliari, Blue Cross Blue Shield (federazione di 36 compagnie di assicurazioni sanitarie), la American Hospital Association (associazione di professionisti del settore sanitario) e la Pharmaceutical Research and Manufacturers of America che rappresenta le principali compagnie americane della ricerca farmaceutica. Nella top 10 troviamo Boeing, la compagnia telefonica AT&T e l’Associazione Nazionale delle emittenti radiotelevisive.
Come già segnalato, l’attività di influenza del decisore pubblico a Washington è tenuta in grande considerazione presso i gruppi industriali statunitensi che si spingono ad assumere lobbisti per delineare l’agenda politica. Ma è anche vero che allo stesso tempo l’opinione pubblica non ha la medesima considerazione dei cosiddetti special interests che rendono torbido il policymaking. Il successo della campagna elettorale del Presidente Trump con l’efficace slogan ‘Prosciughiamo la palude’ (Drain the swamp) ne è la plastica dimostrazione. Le prime misure della nuova amministrazione, compreso il giro di vite sul fenomeno delle revolving doors, sembrano confermare la linea dura di Trump ma, probabilmente, solo all’apparenza.
Alla base di una così massiccia spesa in attività di pressione vi sono le battaglie legate ai temi caldi dell’agenda politica americana (Amazon ha speso il 20% in più rispetto al 2015) ma anche, ovviamente, le elezioni presidenziali. La Camera di Commercio degli Stati Uniti e l’Associazione Nazionale degli Agenti immobiliari, per citare le prime due della classifica, hanno incluso nei loro lobbying reports anche le spese legate alla campagna elettorale, quelle per le campagne pubblicitarie ad esempio, e hanno sborsato per tali attività rispettivamente 104 e 65 milioni di dollari.
Non sono pochi, ovviamente, i casi di gruppi che nel 2016 hanno speso meno per influenzare Washington. Tra questi l’Associazione Nazionale degli industriali della manifattura che nel 2015 è stata particolarmente attiva nel favorire l’approvazione del TPP e che nel 2016 non ha avuto la medesima necessità. Hanno speso meno del 2015 anche Qualcomm, American Petroleum Institute, America’s Health Insurance Plans. Spicca la diminuzione dell’esborso per attività di lobbying fatta registrare dall’azienda farmaceutica CVS Health (-60%) e da General Electric (dal 6° posto al 53°). Notevoli balzi in avanti, invece, per T-Mobile (dal 66° posto del 2015 al 42°) e AbbVie (dall’88° posto al 50°).
Qui la top 50 delle spese per attività di lobbying
(Paolo Pugliese) Il 2016 è stato un anno di grande crescita per moltissime startup e società innovative che si affacciano sempre di più ad un mercato sempre più globale. L'espansione delle proprie quote di mercato a livello internazionale, però, spesso viene accompagnata da una crescente difficoltà delle imprese a interfacciarsi con i legislatori, causando inefficienze e danni d'immagine di enorme portata.
Possiamo quindi aspettarci un aumento dell'attività di relazioni istituzionali da parte delle startup nel 2017, fino al punto di considerare il lobbying una competenza fondamentale per imprenditori e società di venture capital. La professoressa Elizabeth Pollman, esperta di business law e startup della Loyola Law School1, ritiene che questo mutamento sia dovuto a due distinti fattori: in primis le startup non sono più limitate e “libere” nel cyberspazio, come poteva esserlo Google durante gli anni '90, ma svolgono attività sempre più connesse alle nostre vite quotidiane, come nel caso di Uber o Airbnb, che fin dalla loro nascita si sono dovute confrontare con realtà produttive già esistenti e fortemente regolamentate. Le nuove imprese sperano di modificare lo status quo legale penetrando a fondo nella nostra quotidianità, rendendo quindi impossibile per i legislatori di tutto il mondo ignorarne il potenziale di sviluppo: cambiare la legislazione vigente è una parte fondamentale del business plan di queste società.
D'altro canto le recenti battaglie intentate da Google con la FCC (Federal Communications Commission, l'autorità indipendente americana in tema di telecomunicazioni) ad esempio nell'ambito della net neutrality dimostrano come i giganti tech siano sempre più consapevoli dell'influenza che possono esercitare sui regolatori, con l'appoggio di community che contano milioni di partecipanti e dei massimi esperti di policymaking, che apportano competenze e network professionali di enorme valore. L'approccio ai legislatori dell'UE, però, risulta differente: le startup americane che escono dalla Silicon Valley per affacciarsi al Vecchio Continente affrontano un quadro normativo più complesso e a volte l'ostilità dei partner, come si nota dalle violente proteste contro Uber in Francia e Airbnb in Germania e Olanda.
Le giovani imprese europee, invece, non stanno ancora investendo molto nelle relazioni istituzionali: le dimensioni ancora ridotte, almeno rispetto alle controparti USA, incanalano le attività aziendali verso il raggiungimento di una soglia quantitativa di profitto prima di effettuare investimenti in public policies; non è da escludere, inoltre, che le stesse startup ritengano di non essere in grado di influenzare il dibattito pubblico o di poterne fare a meno per il prossimo futuro. Preme sottolineare però come la creazione di un ecosistema giuridico-regolatorio favorevole diventi una priorità assoluta in una fase successiva dello sviluppo imprenditoriale, al momento dell'inevitabile confronto con i legislatori comunitari.
Alcuni autori hanno collegato la mancanza di attenzione verso l'attività di rappresentanza di interessi con le difficoltà legate alla creazione del Digital Single Market, vero e proprio mercato unico tramite il quale si possa procedere all'armonizzazione delle regole dei vari stati membri dell'Unione in ambito digitale. Nonostante il DSM fosse stato inserito dalla Commissione Juncker tra le proprie 10 priorità più stringenti, i risultati sono ancora parziali e tale circostanza sicuramente sta ponendo dei limiti alla crescita del settore da questo lato dell'Oceano.
In questo caso emergono due approcci completamente differenti rispetto all'attività di compliance legislativa: quello americano, alimentato dalla cultura “disruptive” di rendite e posizioni di mercato stabili della Silicon Valley, che punta all'aggiramento della regolamentazione o alla sua modifica strutturale sulla base del presupposto che la legge sarà sempre inevitabilmente in ritardo rispetto alla realtà fattuale, e quello europeo, che invece mira ad un'espansione lenta dell'impresa, magari Stato per Stato, affrontando singolarmente le singole sfide regolatorie quando dovessero emergere.
Risulta evidente come i vantaggi del primo approccio, fatto di proattività e confronto continuo, vadano valutati anche alla luce dei danni reputazionali che tale metodologia potrebbe comportare di fronte ad un pubblico straniero, arrivando a causare a volte l'esplicita avversione dei settori produttivi maggiormente colpiti dall'innovazione americana e che invece le imprese europee sembrano tutelare maggiormente.
Nota: 1 Di grande ispirazione per la stesura del presente lavoro è stato l'articolo The Rise of Regulatory Affairs in Innovative Startups, consultabile al seguente link https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2880818, di prossima pubblicazione sul “Handbook of law and enterpreunership in the United States”.
(Francesco Angelone) Tutto pronto ormai a Washington per il giuramento del Presidente Trump e per il suo insediamento alla Casa Bianca. Dal giorno della sua elezione Trump ha smussato alcuni spigoli della campagna elettorale ma non ha mai mollato la presa sui “grandi interessi” che hanno, a suo dire, impaludato il Paese. Il transition team di cui si è circondato ha compiuto numerosi sforzi per mettere da parte i lobbisti ma pare che questi abbiano comunque trovato un modo per inserirsi nelle posizioni che contano. Addirittura, secondo un’indagine condotta da Politico, avrebbero offerto consulenza politica e contributi economici allo staff del neo Presidente.
Charlie Black, presidente di Prime Policy Group - una nota società di lobbying che ha tra i propri clienti Google, At&T e la casa farmaceutica GlaxoSmithKline - ha giudicato “serie” le intenzioni di Trump circa l’emarginazione degli interessi particolari dal processo legislativo, ma ha anche sottolineato come il tycoon sia consapevole di “come vadano le cose”. Infatti, secondo Politico, lo stesso Black avrebbe “girato” allo staff di Trump alcuni curriculum per delle posizioni di rilievo. Pare, infatti, che le regole dettate da Trump contengano dei vuoti importanti e permettano ai lobbisti di incontrare i membri del transition team fuori dalle stanze del potere. Qualcosa che è ormai universalmente considerato sinonimo di scarsa trasparenza se è vero che anche in Italia si pensa di istituire la “stanza dei lobbisti” presso le assemblee legislative.
Non solo, dunque, numerosi lobbisti sono entrati nel tranistion team e top manager sono stati scelti a guidare dipartimento di rilievo ma Trump ha anche permesso, in qualche modo, che ormai ex lobbisti potessero continuare a lavorare su dossier e questioni per cui avevano precedentemente svolto attività di lobbying. Il bando dei lobbisti dalla Casa Bianca sarebbe piuttosto una mossa pubblicitaria secondo Paul Miller, presidente del National Institute for Lobbying & Ethics. Secondo la testimonianza di altri top lobbyists come Mike Korens, non sarebbe stato vietato inviare position paper e commenti su questioni per le quali le compagnie che rappresentano svolgono normalmente attività di pressione, cosa che si è puntualmente verificata.
Tutta la fase precedente all’insediamento di Trump ha sollevato una serie di questioni sull’osservanza di norme circa la trasparenza, come quelle raccolte da Public Citizen in una lettera aperta, domande che restano irrisolte e che potranno avere una risposta solo durante l’amministrazione. Certamente, dalla promessa di prosciugare la palude alla possibilità di annegarci dentro, come ha preconizzato il vice Presidente uscente Joe Biden riferendosi ai conflitti d’interesse dello stesso Trump, il passo potrebbe non essere così troppo lungo.
(Francesco Angelone) Ci sono numerose questioni rilevanti per la nostra vita quotidiana che non dipendono esclusivamente dalle decisioni politiche prese nel nostro Paese ma che, invece, riguardano il pianeta intero. Si tratta di problemi globali di un mondo globalizzato che richiedono soluzioni e norme transnazionali. In un articolo, la Sunlight Foundation, organizzazione no profit statunitense impegnata nel rendere più trasparente l’attività di Washington, ha posto sotto la lente di ingrandimento la dimensione internazionale, troppo spesso trascurata, dell’attività di lobbying.
Attualmente, 22 Paesi e l’Unione Europea disciplinano l’attività di lobbying, tuttavia non sempre sono disponibili online un registro dei lobbisti e in alcuni casi poche informazioni sono accessibili. Il sistema americano, pur criticato perché permette il pieno esercizio dell’attività di influenza senza necessariamente essere registrati, è sicuramente all’avanguardia se paragonato a quello vigente altrove. Il Lobbying Disclosure Act impone l’indicazione di quali sono le questioni su cui i lobbisti hanno fatto pressioni, quanto sono stati pagati per farlo e i nomi dei funzionari governativi che hanno contattato per conto del loro cliente.
Con una tale asimmetria di informazioni, come può un cittadino americano informarsi circa le attività di lobbying condotte all’estero da una multinazionale americana? Come si può capire quali governi ha approcciato, quanto successo ha avuto o quanto ha speso? Ebbene, secondo quanto scrive la Sunlight Foundation, accedere a queste informazioni è veramente difficile. Secondo Daniel Freund di Transparency International, sarebbe interessante capire, per monitorare l’influenza, anche quali attività di coalition building o di grassroots e top-roots lobbying sono state messe in piedi.
Sunlight Foundation e Transparency Int’l hanno dunque stilato, dopo aver osservato i registri delle 23 realtà in cui questi sono in vigore, una lista di informazioni che dovrebbero servire a tracciare le attività di pressione delle aziende americane all’estero. Ovviamente, in primis troviamo i nomi dei lobbisti attivi e come contattarli, un’informazione presente in tutti i registi analizzati. Seconda informazione riguarda l’identità dei clienti dei lobbisti che, invece, troppo spesso è rivelata solo in parte e senza particolari vincoli normativi. Un buon registro dovrebbe anche contenere dettagli su quali ufficiali sono stati incontrati, elettivi, non elettivi e funzionari, e per quali argomenti li si è contattati. Questo tipo di informazioni sono più dettagliate nel registro esistente in Cile che in quello degli Stati Uniti. Infine, ma importantissimo, è ciò che concerne le spese in attività di lobbying tenendo conto che, spesso, una maggiore spesa comporta un maggior numero di lobbisti impiegati, di ricerche, di tempo impiegato. Qui molti registri presentano lacune significative.
Pochi Stati che adottano un registro nazionale, diversi di questi con informazioni incomplete, sono elementi che rendono difficile per i cittadini avere un quadro chiaro.
Tratto dal n. 4 di Innovazione&Riforme, la rivista scientifica del think tank Cultura Democratica. A cura di Giacomo Pistelli
In base a recenti studi, sono oggi 23 i Paesi al mondo dotati di leggi che regolamentano in modo organico il fenomeno lobbistico[1]. Tra questi, 11 appartengono all’Unione Europea. L’Italia non rientra in tale lista.
Obiettivo di questo lavoro è quello di proporre un’analisi degli strumenti normativi introdotti negli Stati Uniti d’America per disciplinare l’attività di lobbying, instaurando peraltro un paragone con il panorama italiano in modo da evidenziare le lacune che tuttora affliggono in questo ambito il nostro sistema legislativo.
La scelta del modello statunitense è da attribuirsi al fatto che non solo tale democrazia può a buon diritto fregiarsi a livello mondiale del titolo di patria del fenomeno lobbistico, ma rappresenta al contempo uno degli esempi più efficaci di normazione della materia.
VV., Lobby. La rappresentanza di interessi, in Paper No. 2014-13, Università Commerciale Luigi Bocconi, 2014
La legislazione statunitense sulla rappresentanza di interessi particolari
E’ interessante evidenziare subito come l’attività di lobbying sia a tal punto connaturata alla forma di governo statunitense e parte integrante del suo sistema socio-politico da essere espressamente tutelata dalla Costituzione stessa di questo paese[2].
Il Primo Emendamento al testo costituzionale del 1787 parla, non a caso, di un “right to petition to the Government”, concetto non traducibile letteralmente, che potremmo comunque riassumere nella perifrasi “diritto di poter influenzare il decisore pubblico”[3].
Prima di proseguire nella trattazione, occorre a questo punto compiere un necessario passo indietro, al fine di chiarire cosa si intenda esattamente con il termine “lobbying”.
Il vocabolo inglese “lobby” ha origini molto antiche. Deriva dalla parola latino-medievale “laubia”[4], utilizzata per la prima volta intorno alla metà del 1500, prevalentemente in ambienti monastici. La traduzione letterale in lingua italiana è “loggia” o “vestibolo” e fa riferimento ad un luogo coperto al di sotto del quale è possibile camminare e dialogare. Nel linguaggio politico-istituzionale, invece, il termine “lobby” fa la sua prima apparizione alla House of Commons di Londra, dove viene utilizzato per intendere la grande sala d’ingresso dell’edificio, luogo aperto al pubblico e sede di confronto e discussione tra parlamentari e soggetti portatori di interessi di vario genere.
E’ tuttavia negli Stati Uniti d’America, a partire dai primi anni del 1800, che il termine assume il significato attuale. In particolare, nel 1832, l’appellativo di “lobby-agents” venne attribuito a tutti coloro che cercavano di esercitare attività di pressione nei confronti dei membri del Congresso di Albany, in quell’epoca capitale dello Stato di New York. Una versione alternativa[5], probabilmente più romanzata che reale, vuole che il vocabolo divenne noto all’interno del linguaggio dei media e di uso comune durante il mandato dell’amministrazione Grant, Presidente degli Stati Uniti tra il 1869 ed il 1877. Egli soggiornava spesso nel celebre Willard Hotel di Washington, strategicamente situato in prossimità della Casa Bianca e del Congresso. Proprio nella “hall” o “lobby” di questo albergo era solito concedere udienze a portatori di interessi particolari, che in virtù di tale motivo presero ad essere chiamati “lobbisti”.
“Fare lobbying”, pertanto, sta ad indicare l’insieme delle attività e delle strategie messe in atto da parte di un gruppo d’interesse o gruppo di pressione al fine di influenzare il decisore pubblico per trarne un vantaggio, di carattere non necessariamente economico[6].
Come opportunamente sottolineato da Giuseppe Mazzei, presidente de Il Chiostro[7], “la dinamica degli interessi particolari che cercano di influire sulle decisioni pubbliche” - al fine di vedere le proprie istanze tutelate - “è una realtà esistita in tutte le epoche e in tutti i regimi” e “trova la sua espressione più coerente nelle democrazie pluralistiche”. E’ dunque soltanto l’assenza di un’opportuna regolamentazione del fenomeno in Italia - prosegue Mazzei - unita alla carente trasparenza che ne deriva, ad aver trasformato il termine “lobby” da “pilastro della democrazia” a “parolaccia” sinonimo di opacità e, talvolta, di corruzione[8].
Proprio per garantire opportuni livelli di trasparenza all’interno dei processi decisionali e fornire all’attività lobbistica la legittimità che le compete, il Congresso degli Stati Uniti approvò già nel 1946 una prima legge organica della materia, il “Federal Regulation of Lobbying Act”.
Il testo in questione prevedeva che chiunque “individualmente, o attraverso un loro agente o impiegato o altre persone di qualunque tipo, direttamente o indirettamente sollecita, raccoglie o riceve denaro o altre cose di valore da usare principalmente per aiutare, o il cui fine principale è di aiutare l’approvazione o la bocciatura di qualsiasi legge da parte del Congresso degli Stati Uniti”[9] dovesse registrarsi in uno specifico Albo e fornire, sotto giuramento, determinate informazioni al Segretario del Senato e a quello della Camera dei Rappresentanti. I lobbisti dovevano, in particolare, esplicitare chi fosse il loro datore di lavoro, quali fossero gli interessi che andavano a tutelare, quale la loro remunerazione per i servizi forniti e quale, infine, l’ammontare di denaro speso nello svolgimento del proprio lavoro. Erano inoltre tenuti a redigere un rapporto quadrimestrale con informazioni dettagliate in merito alle loro attività. Tutte queste dichiarazioni venivano poi raccolte nel “Congressional Record”, il Registro del Congresso[10], al fine di individuare eventuali omissioni o trasgressioni del regolamento, per le quali erano previste sanzioni che potevano giungere, nei casi più gravi, perfino alla carcerazione. Sebbene tale legge rappresenti un passo in avanti di assoluta rilevanza nella regolamentazione del fenomeno lobbistico, l’assenza di una chiara definizione di chi fosse effettivamente chiamato ad iscriversi all’Albo, così come la mancanza di un organismo volto a controllare la veridicità delle informazioni contenute nel Registro del Congresso, inficiarono considerevolmente la concreta efficacia della suddetta norma.
Prima di vedere emanata una normativa che tentasse di colmare le lacune appena evidenziate, si dovette attendere sino al 1995, anno in cui il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton introdusse il “Lobbying Disclosure Act”, norma ancora in vigore sebbene sia stata oggetto di successive modifiche, apportate in particolare dal Presidente Barack Obama a partire dal 2009. Il testo in questione ha il merito di tratteggiare con maggior precisione la figura del lobbista, da considerarsi ora come ogni individuo “impiegato o stipendiato tramite compensi finanziari o non per servizi che includano più di un contatto lobbistico”[11], laddove per “contatto lobbistico” si intende “ogni comunicazione orale o scritta, comprese le comunicazioni elettroniche, comunque indirizzate a un pubblico ufficiale appartenente a un ufficio esecutivo o legislativo, svolta per conto di un cliente, e riguardante la formulazione, la modifica, l’adozione di leggi federali; la formulazione, la modifica, l’adozione di una norma federale, di un regolamento, di un Executive Order ministeriale, o di un qualsiasi altro programma, o qualsiasi presa di posizione del Governo degli Stati Uniti; l’amministrazione e/o l’esecuzione di un programma federale (compresa la negoziazione, la sovvenzione, la stipula e l’amministrazione di un contratto federale, di un prestito, di un permesso, di una licenza); la nomina o la conferma di una persona a un incarico soggetto al parere o alla ratifica del Senato Federale”[12]. Ad essere esclusi dalle disposizioni contenute nel testo normativo erano invece tutti quei soggetti per i quali l’attività di lobbying costituiva meno del 20% del totale di ore lavorative dedicate a un singolo cliente per un periodo complessivo di 6 mesi[13].
Nel 2007, a seguito del celebre “scandalo Abramoff”[14], l’amministrazione dell’allora Presidente George W. Bush decise di introdurre norme più stringenti in materia tramite l’“Honest Leadership and Open Government Act”. La peculiarità del testo risiede nel fatto che non solo dispose controlli più severi nei riguardi dei lobbisti, i quali da allora furono obbligati a presentare rapporto in merito alle proprie attività con cadenza trimestrale, ma inserì anche precise disposizioni riguardo gli stessi decisori pubblici. Fu infatti previsto che tutti i membri del Congresso dovessero dichiarare il totale dei contributi elettorali ricevuti singolarmente sia da privati che da aziende, “anche se spalmati tra finanziamenti diretti al politico, a fondazioni sue amiche, alla sezione locale del suo partito e simili”[15]. Venne inoltre disposto per i medesimi il divieto assoluto di accettare regali di qualsivoglia genere da parte di lobbisti o società che avessero tra i propri dipendenti personale iscritto al succitato Registro[16]. Inoltre, particolarmente significative furono le disposizioni inserite per arginare il complesso fenomeno del “revolving door”, ossia il passaggio dalla carriera politica a quella lobbistica e viceversa, con la creazione di evidenti conflitti d’interesse. Si stabilì pertanto il divieto per i membri del Congresso d’intraprendere la professione lobbistica prima del decorrere di 2 anni dal termine del proprio mandato. Il divieto venne esteso anche ai collaboratori e componenti dello staff dei rappresentanti politici, con vincolo ridotto in quest’ultimo caso ad 1 anno[17].
Come in parte già ricordato, con l’avvento di Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008, nuovi provvedimenti sono stati approvati per una più efficace regolamentazione dell’attività di lobbying, primo fra tutti l’“Ethics Committments by Executive Branch Personnel”. Quest’ultimo incentra la propria azione riformatrice non tanto sulle lobbies, quanto piuttosto sui decisori pubblici, i quali, più di altri, risultano destinatari di attività di pressione. L’Ordine Esecutivo oggetto della presente riflessione[18], prevede al suo interno la predisposizione di un “Ethics Pledge”, un vero e proprio documento di natura contrattuale che ogni dipendente assunto o politico nominato in qualsiasi ente governativo è chiamato a firmare. In base ad esso, i sopracitati soggetti hanno l’obbligo di compilare - a seguito di ogni contatto avvenuto con un lobbista registrato all’Albo - il “Disclosure of Lobbying Activities”, testo in cui devono essere esplicitate l’identità della persona incontrata e la finalità della conversazione avuta. L’insieme di questi dati viene in seguito raccolto dall’“Office of Government Ethics” (OGE), che li utilizza allo scopo di redigere annualmente un resoconto consultabile su internet, rendendo in tal modo possibile un monitoraggio costante dell’attività di lobbying nei confronti del Governo e garantire una maggiore trasparenza nei confronti dei cittadini.
Norme verso i portatori d’interessi particolari e norme verso i decisori pubblici rappresentano tuttavia soltanto 2 dei 3 pilastri su cui si basa un’efficace regolamentazione dell’attività di lobbying[19]. Le disposizioni finora elencate risulterebbero infatti vane senza il contraltare di una normativa che disciplini accuratamente il finanziamento alla politica e a tutti i candidati a cariche pubbliche. E’ proprio in quest’ottica che nel 1971 negli Stati Uniti venne redatto il “Federal Election Campaign Act” (FECA), legge ancora in vigore, la quale attibuisce ad ogni cittadino o associazione la facoltà di costituire “Political Action Committees” (PACs), comitati volti alla raccolta fondi per il finanziamento di candidati disposti a tutelare uno specifico interesse. Si tratta delle “cassaforti elettorali dei gruppi di pressione”[20], grazie alle quali questi ultimi sono in grado di arrivare ad influenzare gli stessi programmi politici dei partiti. Tutto ciò avviene nella massima trasparenza grazie al ruolo esercitato dalla “Federal Election Commission” (FEC), agenzia dotata di carattere indipendente, il cui compito è di vigilare sull’effettivo rispetto delle norme in materia e di pubblicare online tutti i dati relativi ad ogni singolo PAC. Tramite uno specifico sito internet[21], il cittadino è messo così nelle condizioni di sapere da quali gruppi di pressione ciascun candidato abbia ricevuto finanziamento (e per quale ammontare), acquisendo di conseguenza coscienza degli interessi che questi andrà a tutelare nel corso del suo eventuale mandato. L’assoluta trasparenza del procedimento favorisce, pertanto, una maggiore consapevolezza nell’espressione del voto alle urne.
Il contesto italiano
Una volta esplicata la disciplina normativa vigente negli Stati Uniti d’America, é opportuno rivolgere l’attenzione sull’analisi della legislazione italiana in materia di rappresentanza degli interessi particolari, al fine di fornire maggiori elementi di ricerca alla comparazione che si vuole illustrare.
In Italia la situazione è notevolmente diversa, in considerazione di una legge sul finanziamento dei privati ai partiti non altrettanto incisiva e della totale assenza di una legge organica che a livello nazionale regolamenti l’attività di lobbying.
Per quel che riguarda la legislazione italiana in materia di finanziamento della politica, nell’impossibilità in questa sede di darne un’esaustiva trattazione, vengono proposte soltanto alcune specifiche riflessioni.
La recente legge n. 13/2014, avente ad oggetto “Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore”, introduce 3 disposizioni di particolare rilievo attinenti il finanziamento da parte di soggetti privati ai partiti politici. Innanzitutto, non viene previsto obbligo di pubblicità per donazioni inferiori ai 5.000 euro annui, cifra piuttosto elevata se considerato che in altri paesi “è necessario documentare qualsiasi contributo elettorale che superi i 50 dollari in USA, o le 50 sterline in Gran Bretagna o i 50 euro in Francia, Austria e Germania”[22].
In secondo luogo, si dispone un “tetto massimo” per le elargizioni da parte di singoli privati, che non potranno essere superiori ai 100.000 euro annui. Tale vincolo può essere tuttavia “superato, poiché nessun tetto è posto alle elargizioni verso singoli membri di Governo o Parlamento; nonché moltiplicato indefinitamente, costituendo una serie di società donanti o avvalendosi di fondazioni, alle quali non è imposta alcuna rendicontazione pubblica dei finanziamenti”[23].
Per ciò che concerne, infine, le donazioni comprese tra i 5.000 ed i 100.000 euro annui, è stato previsto che, per ragioni di privacy, queste vengano rese pubbliche soltanto in caso di consenso da parte del finanziatore stesso. Questo non significa, come opportunamente chiarito dal Garante per la Privacy Antonello Soro, che “in assenza di consenso il dato sull’erogazione del contributo sia ‘segreto’ e che quindi non vi possano essere controlli sulle fonti di finanziamento”[24].
Ne consegue, tuttavia, una carente consapevolezza da parte dei cittadini, impossibilitati a sapere in che misura aziende e soggetti privati finanzino partiti e candidati politici.
In considerazione del fatto che, proprio in base a quanto stabilito dalla legge n. 13/2014, a partire dal 2017 si verrà a decretare una considerevole riduzione del finanziamento pubblico ai partiti, con conseguente incremento della rilevanza della componente privata, i limiti della normativa in questione appaiono ancor più evidenti.
Spostando invece la nostra attenzione sulla regolamentazione dell’attività di lobbying in Italia, occorre innanzitutto constatare che, a fronte di 59 disegni di legge presentati in materia[25], a cui vanno aggiunti 11 proposte di legge attinenti le pubbliche relazioni, l’ordinamento italiano non dispone di alcuna legge organica disciplinante il fenomeno.
I tentativi di superare tale impasse hanno seguito nel nostro paese 3 prevalenti direttrici: introduzione di norme a livello regionale, approvazione di modifiche al Regolamento delle Camere, applicazione di “Registri per la trasparenza” da parte dei singoli Ministeri.
In assenza di una legge di carattere nazionale, sono stati innanzitutto gli enti regionali a tentare di fornire opportuna regolamentazione alla materia. Toscana, Sicilia, Molise, Abruzzo, Calabria e, in ultimo, Lombardia hanno infatti introdotto norme simili per la disciplina dell’attività di rappresentanza di interessi particolari nei confronti delle istituzioni locali. Nonostante si tratti di leggi approvate in via definitiva, nessuna di queste trova sostanziale e concreta applicazione.
Non differente esito ha avuto, per il momento, la modifica al Regolamento della Camera dei Deputati approvata dalla Giunta per il Regolamento il 26 aprile 2016[26]. Il testo del provvedimento inerente la “Regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi nelle sedi della Camera dei Deputati”, prevede in particolare l’istituzione di un Registro presso l’Ufficio di Presidenza della Camera ove sono chiamati ad iscriversi quanti svolgano attività di rappresentanza di interessi nei confronti dei Deputati presso le sedi della Camera stessa. Gli iscritti al Registro dovranno inoltre redigere un resoconto annuale comprensivo degli incontri avuti, degli obiettivi conseguiti e dei soggetti interessati. Sebbene tale iniziativa possa rappresentare senza dubbio un significativo progresso nella disciplina del settore, occorre tuttavia sottolineare come, trattandosi esclusivamente di un regolamento interno della Camera dei Deputati, questo non sia in grado di garantire la trasparenza di tutti quegli incontri tra Deputati e portatori d’interessi svolti al di fuori delle stanze di Montecitorio[27].
A tale criticità si aggiunge la circostanza per cui, sebbene approvato all’incirca 6 mesi fa, il Registro non è ancora operativo in quanto l’Ufficio di Presidenza della Camera non si è ancora riunito per definire “le ulteriori disposizioni relative all’iscrizione e alla tenuta del registro nonché alle modalità di accesso alla Camera dei Deputati dei soggetti iscritti nel registro e all’eventuale individuazione di locali e attrezzature per favorire l’esplicazione della loro attività”[28]. Il provvedimento dunque, similmente alle succitate norme regionali, risulta ad oggi inattuato.
A essere invece attivo, e online dal 6 settembre di quest’anno, è il “Registro Trasparenza”, strumento voluto dal Ministro per lo Sviluppo Economico, Carlo Calenda, per garantire “maggiori informazioni sui processi decisionali e sui soggetti portatori di interessi interlocutori del Ministero”[29]. Tale Registro, ispirato a quello già in uso presso le istituzioni europee e all’“Elenco dei lobbisti” sperimentato dal Ministero per le Politiche Agricole e Forestali nel 2012[30], si prefigge lo scopo di rendere pubbliche e accessibili online informazioni dettagliate in merito agli interessi perorati presso il MISE, da chi vengono sostenuti e tramite quali dotazioni finanziarie. L’obbligo d’iscrizione per quanti intendano incontrare Ministro, Viceministri e Sottosegretari all’interno del dicastero di Via Veneto scatterà a partire dal 6 ottobre, data in cui scadranno i 30 giorni previsti per provvedere alla registrazione. Tra società di consulenza, imprese ed associazioni di categoria, organizzazioni non governative, centri di studio, istituti accademici ed altri, ad oggi risultano iscritti 106 soggetti portatori di specifici interessi[31].
Di nuovo ci troviamo senza dubbio di fronte ad un’iniziativa più che lodevole, sintomo di una sempre maggiore sensibilità verso la necessaria regolamentazione del fenomeno ma che, se confrontata con il modello statunitense, rivela ancora evidenti lacune. In primo luogo sotto il profilo “geografico”, dato che non viene previsto alcun obbligo di rendicontazione per tutti quegli incontri tenuti al di fuori della sede del Ministero, e in secondo luogo per quanto riguarda il ristretto numero di decisori pubblici coinvolti, in considerazione del più che rilevante ruolo svolto invece da figure che spaziano dal Capo di Gabinetto ai responsabili delle varie Direzioni Generali, fino allo staff che coadiuva il Ministro nelle sue attività quotidiane.
Quanto finora illustrato ci consente quindi di affermare che, se gli Stati Uniti possono essere presi quale virtuoso modello di regolamentazione del fenomeno lobbistico, l’Italia presenta tuttora un preoccupante vulnus legislativo in materia.
E’ bene tuttavia sottolineare come l’efficacia delle norme introdotte nel Paese americano risieda non tanto nella severità delle disposizioni applicate, quanto piuttosto nel corretto bilanciamento tra gli obblighi ed i diritti riconosciuti ai membri di tale categoria professionale.
Non a caso il Professor Petrillo, Docente di Teoria e Tecniche del Lobbying presso la LUISS Guido Carli di Roma, inserisce gli Stati Uniti all’interno di quei Paesi che hanno adottato il c.d. modello partecipazione[32] per la disciplina dell’attività di lobbying. Infatti, le lobbies statunitensi, oltre ad un vincolo all’assoluta trasparenza rispetto alle proprie attività, godono di un vero e proprio diritto di partecipazione al processo decisionale[33]. Ciò deriva dal fatto che viene loro unanimemente riconosciuto il merito di arricchire il procedimento legislativo, fornendo autorevoli pareri e differenti punti di vista. Non c’è da sorprendersi allora se lo stesso John F. Kennedy riferendosi ai lobbisti fosse solito dire: “Sono dei gran tecnici, capaci di spiegarti problemi complessi e difficili in modo chiaro, comprensibile e rapido”[34].
Una definizione, questa, certamente contrastante con la vulgata tradizionale e che meglio ci aiuta a comprendere il reale ruolo da essi svolto all’interno del contesto socio-politico. E’ attraverso norme poste a garanzia di una maggiore trasparenza ed una maggiore equità nell’accesso al decisore pubblico che si potrà infatti fornire il giusto riconoscimento ad una professione non soltanto legittima, ma sale di ogni democrazia.
Fonti:
[1] Spicciariello F., Norme sul lobbying: l’Europa avanza, l’Italia è immobile, in Formiche.net, 29/01/2014
[2] De Caria R., Lobbying e finanziamento elettorale negli Stati Uniti al tempo di Obama, in Palici di Suni E. (a cura di), La presidenza Obama nel sistema costituzionale statunitense: novità e riconferme, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2010
[3] Petrillo P., Democrazie sotto pressione, Giuffrè Editore, 2011
[4] Petrillo P., Democrazie sotto pressione, op. cit.
[5] Bistoncini F., Vent’anni da sporco lobbista, Guerini e Associati, 2011
[6] Petrillo P., Democrazie sotto pressione, op. cit.
[7] Associazione impegnata nel promuovere la cultura, la pratica e la regolamentazione della trasparenza nella rappresentanza degli interessi.
[8] G. Mazzei, Premessa in AA. VV., Lobby. La rappresentanza di interessi, in Paper No. 2014-13, Università Commerciale Luigi Bocconi, 2014
[9] Federal Regulation of Lobbying Act of 1946, in Lobby: il Parlamento invisibile di Franco M., Edizioni del Sole 24 Ore, 1988
[10] Franco M., Lobby: il Parlamento invisibile, op. cit.
[11] Art. 3, n. 10, Lobbying Disclosure Act 1995
[12] Zagarella A., Come si regola la pressione nel mondo, in AA. VV. Lobby. La rappresentanza degli interessi, op. cit.
[13] Art. 3, n. 10, Lobbying Disclosure Act 1995
[14] Caso di corruzione in cui vennero coinvolti Tom Delay, ex Capogruppo repubblicano, ed una ventina di membri del Congresso tra cui il Deputato repubblicano Robert Ney, Presidente della Commissione Finanziaria.
[15] Zanetto P., Washington fa la nuova legge sul lobbying, Bruxelles cerca di fare un registro, ne Il Foglio, 30/08/2007
[16] Sec. 541-546, Subtitle D, Honest Leadership and Open Government Act 2007
[17] Sec. 531-535, Subtitle C, Honest Leadership and Open Government Act 2007
[18] Executive Order 13490, Ethics Committments By Executive Branch Personnel, 21/01/2009
[19] Cfr. P. Petrillo, Democrazie sotto pressione, op. cit.
[20] Franco M., Lobby: il Parlamento invisibile, op. cit. p. 171
[21] www.fec.gov
[22] Petrillo P., “Soldi privati ai partiti. La legge è un colabrodo”, in Avvenire, 12/09/2014
[23] Azzolini V., Finanziamento ai partiti: trasparenza è credibilità, ne Il Fatto Quotidiano, 15/10/2015
[24] Soro A., in risposta a Tecce C., Soldi ai partiti, dichiarare il nome dei finanziatori non è più obbligatorio. In nome della privacy, ne Il Fatto Quotidiano, 14/02/2016
[25] Petrillo P., Sulle lobby più trasparenza per i decisori: parla il Prof. Petrillo, in Lobbyingitalia.com, 21/07/2016
[26] Servizio Studi Camera dei Deputati, La disciplina dell’attività di lobbying, Dossier n. 235, 18/05/2016
[27] Cfr. http://www.fbassociati.it/fblab/scheda-lobby.pdf
[28] Napoli F., Camera, ancora niente registro delle lobby. Al massimo entro fine anno, in Public Policy, 24/08/2016
[29] http://www.mise.gov.it/index.php/it/per-i-media/comunicati-stampa/2035133-il-ministro-calenda-lancia-il-registro-trasparenza-l-attivita-del-mise-sempre-piu-vicina-ai-cittadini
[30] https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/5791
[31] http://registrotrasparenza.mise.gov.it
[32] Petrillo P., Democrazie sotto pressione, op. cit.
[33] Ibidem
[34] Franco M., Lobby: il Parlamento invisibile, op. cit.
(Paolo Pugliese) Lobby del tabacco e delle armi sono spesso associate per la loro spregiudicatezza e per le tattiche anticonformiste che attuano nei confronti del decisore pubblico e dei consumatori – per un simpatico approfondimento, si pensi a Thank You For Smoking, film nel quale lobby del tabacco e delle armi sono associati a quella delle alcoolici nel gruppo dei “mercanti della morte”. Ma si assomigliano meno di quanto si possa credere
L'aumento delle sparatorie di massa negli ultimi anni ha portato a numerosi appelli per la riforma della normativa in tema di possesso di armi da fuoco: l'opposizione dell'NRA, l'associazione che rappresenta gli interessi dei sostenitori del porto d'armi, è stata forte e sentita in vasti segmenti della società americana. Dato che la NRA ha impiegato alcune delle stesse strategie precedentemente utilizzate da Big Tobacco, alcuni commentatori hanno suggerito di utilizzare lo stesso modello per indebolire i gruppi pro armi. Prima del 1964, le sigarette erano ampiamente usate da tutti gli americani e costituivano una parte centrale dell'American Life. In un capitolo del libro del 1998 Ashes to Ashes: The History of Smoking And Health, il professore di Harvard Allan Brandt scrisse che la sigaretta era una presenza costante nel panorama culturale americano […] e l'uso di tabacco rompe le barriere socio-economiche, di genere, razza ed etnia. Gli americani però sapevano molto poco dei danni causati dal fumo, i dottori non erano a conoscenza dei potenziali effetti dannosi e non videro minacciata la salute della maggior parte dei fumatori. Nel 1964 il Chirurgo Generale degli Stati Uniti, il più importante portavoce nazionale in ambito di salute pubblica, produsse un report che stabilì definitivamente che le sigarette causavano danni al corpo umano, concludendo che fumare sigarette è un rischio per la salute di tale importanza negli Stati Uniti da giustificare appropriati correttivi. Il pubblico fu profondamente scosso dall'apprendere informazioni precedentemente ignote e il Congresso approvò leggi più dure sulle ripercussioni del fumo sulla salute. Come risultato del report del Chirurgo Generale e delle riforme che ne seguirono, dal 1964 il numero dei fumatori negli Stati Uniti è costantemente calato, passando dal 42.4% degli adulti nel 1965 al 16.8% nel 2014.
A differenza del tabacco – usato in ogni parte d'America da tutti gli americani – solo una piccola frazione di americani possiede armi ed è sensibile al tema: inoltre la maggioranza dei detentori di armi è inquadrabile in specifici gruppi demografici. Secondo uno studio del 2013 del Pew Research Center il 31 percento degli americani bianchi possiede armi rispetto al 15% degli afroamericani e l'11% degli ispanici; i sostenitori del diritto di portare armi hanno la tendenza a votare Repubblicano e ad essere conservatori. In aggiunta a queste ricerche, gli Stati Uniti hanno vissuto varie esperienze di sparatorie di massa: tra il 1966 e il 2012, quasi un terzo dei mass shooting a livello mondiale sono avvenute negli USA.
Le leggi sul tabacco e quelle sulle armi
La riforma delle leggi sul tabacco fu presentata semplicemente come una misura per tutelare la salute pubblica: il governo, nell'opporsi alla diffusione delle sigarette, stava proteggendo la salute degli americani. Al contrario, il dibattito sulle armi è legato a doppio filo all'interpretazione della Costituzione. Secondo un sondaggio Gallup, nel 2008 il 73% degli americani riteneva che il Secondo Emendamento garantisse il diritto degli americani a possedere armi al di fuori di una milizia. Nello stesso anno la Corte Suprema si espresse nello stesso senso in District of Columbia v. Heller. Data la rilevanza costituzionale del dibattito, non deve sorprendere che gli americani pro-armi siano molto attivi politicamente: un sondaggio del 2013 del Pew Research Center ha sottolineato come il 25% dei sostenitori del diritto di portare armi abbiano supportato economicamente un'organizzazione che condividesse la loro posizione, rispetto al 6% dei contrari.
La rilevanza politica del tema del gun control
Il grande senso di appartenenza dei membri dell'NRA, unita ad una grande capacità di spesa, ha fatto sì che i politici più vicini agli obiettivi dell'associazione fossero ricompensati da un grande sostegno elettorale, fornito da una base estremamente fedele ai principi dell'organizzazione e fortemente coinvolta nel dibattito che vi si dipana attorno.
È evidente come la querelle tra sostenitori e oppositori del diritto di portare armi sia diventata molto più che una semplice questione di policy, ma sia arrivata a definire lo stesso orizzonte politico e sociale degli USA: il Secondo Emendamento in un certo senso rappresenta il cuore dello scontro tra conservatori e liberali negli Stati Uniti, fino a fare delle armi un simbolo di libertà, cosa mai accaduta col tabacco.
Pur essendo una realtà profondamente lontana dalle nostre consuetudini sociali risulta evidente come la discussione coinvolga profondamente gli americani, portandoli ad interrogarsi sui motivi del loro sostegno ai decisori pubblici, che non possono tirarsi indietro dall'esprimersi su questi temi scottanti.