Nicolò Scarano intervista Massimo Micucci, senior consultant di Quick Top, un marchio Reti.
Lo scenario di delusione e di incertezza che ha accompagnato il nuovo accordo di due settimane fa tra Grecia ed Europa ha aperto, tra gli “addetti ai lavori”, un ragionamento più ampio sul potere e le sue dinamiche. Come pensa questo si andrà a riflettere nel rapporto tra lobbisti e policy-makers?
I lobbisti e tutti coloro che portano degli interessi sono sempre più dei policy-makers. Nel caso greco questo è stato ancora più evidente. Non solo economisti, politici, tecnici, ma anche il più grande speculatore sui cambi, il miliardario Soros, è stato molto attivo. Molti premi Nobel hanno appoggiato l’OXI, dimostrando assieme di voler contrastare le politiche di austerità e quindi affermare le loro teorie, al tempo stesso mantenendo viva l’ipotesi di uscita dall’euro.
Ma cosa ne viene ai professori?
Ai professori la conferma delle proprie tesi, semplicemente. Ma chi conosce la situazione sa che ci sono una serie di interessi che gravitano attorno a questi grandi fenomeni economici studiati dagli analisti. Chi fa speculazioni legittime sui cambi, lavorando su grandi transizioni finanziarie, non si vergogna, giustamente - ci tiene a specificare - di essere anche un grosso influencer politico. Soros ha influenzato l’uscita dallo SME della lira e della sterlina, e oggi rifà capolino per la crisi greca. Chi fa lobbying deve tenere conto di questo sfondo internazionale: gli interessi globali sono strettamente legati a quelli locali.
E la politica, in tutto questo?
Secondo me c’è un ritorno di grandi visioni politiche in questi anni, ma la politica appunto, in un mondo globale, deve saper tener conto dei grandi interessi privati. Un governo decisionista come quello di Renzi, ad esempio, è molto interessato - e capace - ad attrarre interessi privati, mentre le ipotesi identitarie - come il M5S, o Podemos in Spagna - sono più concentrate ai piccoli interessi, ai centri produttivi che non raggiungono economie di scala. Non si può non tener conto di queste dinamiche: per questo un lobbista è oggi è anche un comunicatore, ma soprattutto un ottimo conoscitore del funzionamento del potere.
Cosa intende per funzionamento del potere? E perché più oggi che prima?
Beh, c’è stato un cambiamento evidente nel modo in cui funziona il potere. Che ora si basa su reti di responsabilità complesse, relazioni, interdipendenze orizzontali. Mentre prima era più verticale e nazionale. Ovviamente ci sono delle gerarchie, ma la decisione, e il modo di prenderle, è più complessa. Qui entra in gioco l’importanza della comunicazione: nella decisione dell’agenda pubblica, che non avviene più nei Parlamenti ma nella sfera pubblica.
E cosa può fare il lobbista in questo campo?
Il lobbista, per incidere sulle decisioni al giorno d’oggi, dev’essere in grado di imporre un tema all’ordine del giorno dell’agenda pubblica. Mettere in correlazione casi e bisogni concreti con lo scenario politico, e produrre contenuti che servano allo scopo. Anche i luoghi dell’attività di lobbying, debbono diventare sempre più pubblici. Immagino un’interazione collaborativa fra interessi e decisori su questi contenuti, progressivamente più trasparente.
Insomma, andiamo dai caminetti fumosi a una specie di streaming della combinazione di interessi privati e politici?
Sì, esatto, da un “accesso grigio” alle Istituzioni a una maggiore importanza della sfera pubblica. Dove gli interessi e i conflitti tra gli interessi sono più trasparenti: questo mette in condizione il decisore politico di scegliere anche di fronte ai cittadini.
..anche secondo un calcolo politico?
Sì, il politico decide quelli che ritiene siano gli interessi generali da difendere o da portare avanti, e questi necessariamente ne andranno a ledere almeno in parte altri. Il problema qual è? Che oggi i cittadini spesso non sono consapevoli di quali sono gli interessi in gioco. Invece esistono tanti interessi particolari, ognuno in contrasto con un altro.
Vogliamo sfatare il mito dell’interesse comune?
L’interesse comune è una scelta, è il risultato di una scelta. Ma no, non fa bene tutti. E’ quello che la politica crede sia l’interesse nazionale, generale. A volte si decide in una direzione, a volte in un’altra. Per tornare alle capacità del lobbista di oggi, questo deve quindi necessariamente godere di una capacità di analisi su diversi piani decisionali contemporanei, sempre più complessi ma con esigenze crescenti di semplificazione e rapidità. Ma anche di analisi politico-strategica, che non si limiti a quella delle procedure delle Istituzioni, e poi una capacità di comunicazione e agenda-setting.
Era più semplice, prima, fare il lobbista?
Prima era probabilmente più lineare: significava saper influenzare le persone giuste. Il potere veniva dall’alto verso il basso, a cercare gli interessi da sostenere. Un lobbismo diverso e una politica diversa, oggi, dunque rispondono alla complessità.
Quindi cosa suggerisce, infine, per la formazione del lobbista contemporaneo?
Dev’essere molto solido lo studio sui processi decisionali, in continua trasformazione ed evoluzione. Secondo, una capacità d’intelligenza e scelta politica, anche sul piano tecnico del policy-making. Terzo, una capacità di scendere nella sfera pubblica, comunicando a target non necessariamente ristretti ma selezionati, grazie ad un uso molto attento, ad esempio, dei social media. E’ quello che io definisco lobbying diffuso.
E cosa ne è del grassroots lobbying invece?
Il grassroots lobbying comprendeva in sé una concezione verticale: erano i leader che andavano a “pescare” queste radici da cui prendere consenso. Ora abbiamo una serie di reti che si intrecciano, collaborano, confliggono: è molto vicina al movimento dei makers, solo che al posto di oggetti con le stampanti 3D si producono decisioni, senza nascondersi. E’ a quest’ultima innovativa capacità che guardiamo con i corsi Running.
Esatto, in questi anni con la sua società, Running, ha formato molti giovani lobbisti. Quest’anno avete deciso di rilanciare l'offerta e dar vita alla Running Academy: perché?
In 13 anni di attività abbiamo formato più di mille persone, ragazzi desiderosi di diventare in primis lobbisti, ma anche manager. È per questo che nel 2015 abbiamo deciso di dar vita alla Running Academy, una scuola di alta formazione che progetta percorsi formativi dinamici e dallo stampo molto pratico. Comunicazione, lobby, politica, monitoraggio parlamentare e drafting legislativo sono da sempre oggetto dei nostri corsi: il nostro programma base è giunto quest'anno alla 27esima edizione. Ora siamo aggiornati con le trasformazioni che hanno caratterizzato il rapporto tra pubblico e privato e la necessità di organizzare corsi sul fundraising politico, sulla legge di bilancio e su come cambierà l’attività di lobbying con l’Italicum. Un altro punto di forza della Academy è il Comitato scientifico che supporta le nostre attività formative.
Qualche nome?
Giorgia Abeltino di Google, Alessandro Beulcke, Presidente Nimby Forum, Vittorio Cino di Coca-Cola Italia, Francesco Clementi, Tommaso Labate, Giuseppe Meduri di Enel, Gianbattista Vittorioso di Finmeccanica, Paolo Messa, Iolanda Romano, Gianluca Semprini, Chicco Testa...
I prossimi corsi in calendario?
A settembre il corso “La legge di bilancio” e a ottobre il corso “Lobby e italicum”.
Ma tornando alla formazione dei più giovani, quali le qualità di un ragazzo che vuole fare attività di lobbying?
Secondo me deve avere: passione e rispetto per la politica, una formazione solida in campo giuridico ed economico, e una forte propensione alle reti di informazione e comunicazione. Il paradosso è che spesso siano i comunicatori a voler fare lobbying, ma il know-how fondamentale sta nel saper entrare nel merito dei processi decisionali. Ma su come funzionano le consuetudini delle Amministrazioni, del Parlamento, ho un’opinione: molto s’impara con l’esperienza, dedizione, e pura e semplice passione.
Per ulteriori informazioni, contattare Stefano Ragugini, responsabile della formazione di Running, all'indirizzo s.ragugini@retionline.it. Lo trovate anche su Twitter: @sragugini
Ora che le elezioni sono parte del passato, l'attenzione si rivolge all’agenda legislativa. Il lobbying non è stata una tematica elettorale, ma il governo deve rivedere la difettosa normativa sul lobbying che è stata approvata in fretta e furia nel 2014.
Un nuovo interessante provvedimento volto a rendere più trasparente il settore lobbistico del Paese è recentemente entrato in vigore nella Repubblica d'Irlanda, approvato all'inizio di quest'anno dall'Oireachtas (Parlamento).
Il Regulation of Lobbying Act 2015, annunciato nell'aprile 2015 dopo due anni di negoziati, è molto diverso dalla legislazione analoga portata avanti a Westminster e molto criticata, in particolare in merito a tre aspetti cruciali:
Racchiude una definizione molto più ampia di “decisore pubblico”: mentre l'atto del Regno Unito enumera solo ministri e segretari permanenti, la legge irlandese aggiunge anche parlamentari backbenchers (ovvero coloro che siedono in Parlamento ma non rientrano nella squadra ministeriale).
Anche la definizione di “lobbista” è molto più ampia: la legge irlandese richiede la registrazione da parte dei lobbisti in-house, oltre che i lobbisti conto terzi.
Infine, la legge irlandese comprende anche un codice di condotta per i lobbisti.
Il nuovo registro, supervisionato dal mese scorso dalla canadese Sherry Perreault, è uno sviluppo interessante, e mette in chiara luce i problemi emersi sulla regolamentazione dei lobbisti nel Regno Unito.
La legislazione del Regno Unito è stata portata avanti in fretta e le sue carenze sono state ampiamente documentate, ma l’approvazione di questa normativa più completa sulla sponda irlandese dà ulteriori motivi al Governo britannico di rallentare l’azione sul registro obbligatorio, che non è ancora attuato in pieno.
Il modello irlandese potrebbe rivelarsi istruttivo: non appena potranno esserne analizzati gli effetti, è possibile che Westminster abbia una best practice per correggere i propri errori.
Esso fornisce al nuovo governo l'opportunità di un periodo di riflessione per imparare la lezione con un approccio alternativo.
È stato a lungo sostenuto che il registro del lobbying del Regno Unito, che incorpora solo l’1% cento dei lobbisti che lo praticano effettivamente, è fondamentalmente sopravvalutato e dovrebbe essere ampliato per includere tutti i lobbisti, sia in-house che conto terzi.
Sarà particolarmente interessante vedere come verrà messo in pratica il più completo approccio dell’Irlanda.
Gli oppositori di un approccio “inclusivista” sostengono che sarebbe troppo burocratico e non necessario.
Al contrario, se il nuovo governo sta cercando di introdurre un sistema di registrazione dei lobbisti veramente innovativo, che offra una maggiore trasparenza, allora includere tutti i lobbisti deve essere il primo principio da rispettare.
Questo punto di vista non è solo proprio dei delle società di lobbying: sia ONG che si occupano di trasparenza che più di 20 associazioni di categoria e sindacati hanno chiesto un sistema che includa tutti i tipi di lobbisti.
Nei prossimi mesi sarebbe opportuno che l'Ufficio di Gabinetto avviasse un dialogo aperto con il legislatore irlandese per discutere e condividere le esperienze, mantenendo un occhio vigile su come la legislazione è rispettato dai lobbisti d’Irlanda.
Il governo ha sbagliato nella scorsa legislatura; ora è il momento per riparare agli errori.
Il sistema di registrazione irlandese dà a Westminster la possibilità di valutare sia i pregi che i difetti di un approccio alternativo. È un’opportunità da cogliere al volo per fornire alla casa della democrazia britannica le “pareti di vetro” che da sempre ne caratterizzano il rapporto con i cittadini.
Iain Anderson, presidente dell'Associazione dei Consulenti Politici professionisti (APPC)
Fonte: PR Week
(Alberto Cattaneo) Fare lobby significa spesso lavorare in difesa di interessi specifici che si incastrano in situazioni complicate e dalle verità multiple. Ha ragione chi difende la sperimentazione animale in nome della ricerca e della salute degli uomini o hanno ragione gli animalisti a sostenere il diritto alla vita degli animali? Ha ragione l’ambientalista o l’azienda inquinante? Ha ragione chi difende il gioco legale o il movimento di opinione che lo vorrebbe abolire? Non è facile dare delle risposte a questo genere di domande e sarebbe troppo facile dire che la verità o la soluzione a questi “dilemmi sociali” risiede in un giusto mezzo, nel ritrovare un punto di equilibrio che possa soddisfare le parti interessate.
Il lobbista, nella sua essenza, è proprio colui che ricerca questo punto di equilibrio, ma ciò che ci interessa oggi è quanto possa essere difficile farlo quando qualcuno o qualcosa “impone” una verità precostituita.
In un contesto dove la comunicazione viaggia veloce e raggiunge in modo multiforme la cosiddetta opinione pubblica, è facile che si costruisca una qualche forma di verità che cristallizza posizioni identificando i “buoni” e i “cattivi”, i “giusti” e gli “sbagliati”. Spesso a farlo è la magistratura inquirente, altre volte la politica, altre ancora i media. Sono numerosi le fonti, infatti, capaci di creare una “verità” e farla passare per l’unica possibile. Come dovrebbe lavorare un lobbista in questo genere di situazioni?*
Proviamo a fare un passo indietro. Che cosa è la verità? Nietzsche direbbe che la verità è “un mobile esercizio di metafore, metonimie, antroporformismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite e che, dopo un lungo uso, sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti”. In estrema sintesi la verità è frutto di un esercizio linguistico e di un codice il cui carattere è sempre più “sociale e in definitiva anche politico” (cioè relazionale). La verità, intesa in questo modo, è solo un termine – come ci dice Vattimo – che “allude alla possibilità per singoli, gruppi e per la stessa specie, di riconosere e organizzare il mondo esterno in modo favorevole alla propria esistenza”. In un certo senso, dunque, l’uomo non vuole tanto la verità ma desidera che le conseguenze di questa verità siano piacevoli ed è “indifferente rispetto alla conoscenza pura priva di conseguenze, mentre è disposto addirittura ostilmente verso le verità forse dannose e distruttive” (Nietzsche).
Se si accetta questa impostazione il lobbista si trova a competere in uno strano mercato: quello della costruzione della verità. Un costruttore della verità si trova, dunque, a creare un “framing” grazie a un utilizzo efficace di metafore e combinazioni di fatti che dettano il codice con cui si valuta una determinata situazione. E un costruttore basa la sua efficacia nel potere (power) che ha di affermare tale verità: ad esempio un magistrato, un primo ministro, la prima firma di un giornale hanno certamente più potere istituzionale rispetto a un singolo cittadino di affermare un framing di lettura e quindi una qualche verità.
Si può costruire una matrice i cui assi sono proprio costituiti da framing e power e da quattro possibili posizioni. Il lobbista si può ritrovare a lavorare in difesa di un interesse che può essere collocato: 1. in un framing positivo ma con debole potere di affermarlo; 2. in un framing negativo e con potere debole; 3. in un framing positivo con alto potere di mantenerlo tale; 4. in un framing negativo con alto potere di modificarlo. Queste posizioni per un lobbista esprimonono quattro condizioni di lavoro: 1. Weak Winner 2. Heavy Looser 3. Winner but Target; 4. Potential Looser. Vediamoli nel dettaglio.
1. Weak Winner. E’ una condizione certamente favorevole perché il tipo di verità che emerge asseconda gli interessi che il lobbista si trova a difendere. Ma è una posizione scomoda in quanto il potere di difendere questa tipo di framing non è consolidato e quindi può essere messo in discussione da un qualcuno che questo potere di fatto ce l’ha. In questa situazione il lobbista deve stare necessariamente fermo e svolgere per lo più un lavoro di rafforzamento del proprio “potere di framing” recuperando soggetti più credibili e autorevoli, Il dilemma esiste, però: cercando di costruire nuovo potere si può “svegliare il can che dorme” e quindi l’analisi del posizionamento delle “fonti” che si vanno a toccare riveste un ruolo cruciale. Il mapping stakeholder e l’intelligence sugli interessi che lo compongono diventano allora l’attività core in questo quadrante. Si è dei vincitori, ma deboli. Si deve essere umili, cercare alleati e mantenere la pace. Non si è dei conquistatori.
2. Heavy Looser. E’ la condizione disperata. Il framing precostituito non è positivo (non da ragione all’interesse da difendere) e non si ha il potere per modificare la situazione. Si è perdenti. E lo si è pesantamente. Ma non si è disperati. Bisogna solo rendersi conto che l’azione che si ha davanti richiede pazienza e tempo (e spesso i portatori di interessi non hanno né l’uno né l’altro). Il lavoro è primariamente quello di lavorare sul linguaggio su cui il framing si basa e se la verità è “la somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente” si tratta di costruire un piano di stakeholder engagement che miri non tanto ad ottenere un obiettivo specifico quando a fare comprendere all’altro che la verità può essere intesa in modo diverso. Il target è chi lavora sui linguaggi (i media ad esempio, i “politici da talk show” altro esempio). Difficile. Estremamente difficile. Perché bisogna cambiare la poetica e la retorica con cui si presenta il problema. E questo non solo non è sempre possibile ma, appunto, richiede pazienza, accantonare gli obiettivi di breve (che non sarebbero comunque raggiunti! … inutile illudersi), fare nuovi esercizi linguistici. Il portatore di interessi diventa così, pazientemente, un nuovo poeta, un nuovo creatore di retorica. Se genuina, seria e vera questa retorica si trasforma in power.
3. Winner but Target. Ottimo. Siamo i predatori. La verità è dalla nostra parte e abbiamo il potere di difenderla. Diventiamo però il target per tutti quelli che vogliono cambiare questa verità. Siamo il bersaglio. Il segreto qui è allo stesso semplice e drammatico. Il predatore non può smettere di predare, di fare paura. Al primo segno di debolezza si diventa prede. Non ci sono compromessi. Non ci sono mediazioni con i più deboli. Fare un passo indietro significa velocemente modificare il proprio status, rinunciare al proprio power, diventare potential looser.
4. Potential Looser. Siamo potenti. Facciamo paura. Ma il framing è negativo. La verità non ci da ragione e prima o poi… Dalla nostra abbiamo il potere di lavorare sui codici linguistici perché abbiamo la possibilità di affermare una nuova retorica nelle relazioni. In questa situazione non possiamo stare fermi. Dobbiamo essere agili e veloci perché è un corsa contro il tempo. Prima o poi il nostro potere sarà eroso se non modifichiamo il modo con cui il framing guarda al nostro interesse.
La due situazioni del looser hanno a che fare con “l’innovare il modo con cui si fa relazione”. E per noi innovazione significa modificare il codice linguistico. Diventare poeti significa diventare portatori di qualcosa di sensazionale, di nuovo stupore, di uno schock che ridesti le attenzioni e che faccia capire agli altri (al singolo, al gruppo o alla specie) che vale la pena di investire energie per accettare una nuova verità. Da dove nasce quanta capacità poetica? Dall’analisi delle conseguenze (l’uomo non vuole la verità, desidera conseguenze piacevoli). Ecco allora che l’analisi delle conseguenze, che non sempre il lobbista si ricorda di fare, diventa l’elemento critico. Il fattore di successo. Per capire le conseguenze bisogna diventare conoscitori delle dinamiche sociali, diventare esperti di un settore. Bisogna immergersi in profondità per riemergere con nuove intuizioni. Riemergere come nuovi poeti.
*Riconosco che esiste un problema anche etico nel lavoro del “costruttore” di verità che ha mio avviso esiste per qualsiasi costruttore, sia esso istituzionale o meno. Riconosco anche che per il lobbista il pregiudizio negativo che lo contrassegna implica una maggiore attenzione al tipo di comportamenti che adotta nei suoi tentativi di costruzione della verità.
Fonte: Infiniti Gesti
Dalle cause storiche che possono spiegare l'assenza in Italia di una cultura delle lobby alle classi in cui possono essere divisi i gruppi di influenza. Metodi di pressione, impatto sull'opinione pubblica, il ruolo del governo. La zona d'ombra tra scena e retroscena delle decisioni pubbliche. Ne abbiamo parlato con Ilvo Diamanti, professore di Scienza Politica all'Università di Urbino e di Régimes Politiques Comparés a Paris 2, Panthéon Assas. Partendo da come incide, in questo contesto, l'assenza di norme sulla qualità della democrazia italiana.
Professor Diamanti, regolamentare le lobby innalzerebbe il grado di democraticità del nostro sistema?
"Assolutamente sì. La democrazia ha diverse facce ma tutte prevedono forme di controllo sulle decisioni della politica. E' evidente che quando esistono ambiti di discrezionalità sottratti al controllo dei cittadini viene indebolita la possibilità di controllo sui decisori. Viene indebolita la rappresentanza".
Nell'opinione pubblica, lobbista è sinonimo di faccendiere...
"E' una questione di tradizione politica e culturale. E mi riferisco sia a quella cattolica che a quella comunista che condividono un'idea negativa della ricchezza. Quasi fosse necessariamente un peccato. Peraltro, scontiamo un approccio fariseo: il denaro lo si fa ma non ci importa come. Così il lobbista è un peccatore e fare lobby significa raggiungere risultati con ogni mezzo. Più o meno lecito".
Un governo non dovrebbe porre tra i suoi obiettivi primari una legge sui gruppi di pressione?
"Dovrebbe. Se non avviene è perché le lobby all'italiana sono molto forti".
Lobby all'italiana, appunto. Abbiamo provato a dare i voti...
Possiamo indicare due classi diverse. Esistono grandi sistemi di interessi che riguardano prodotti e servizi di largo interesse pubblico. Come quelli che gestiscono le fonti energetiche: risorse che dipendono da regole e concessioni della politica. E nella percezione generale questi gruppi sono sicuramente quelli in grado di influenzare maggiormente il potere politico".
L'altra classe?
"Le professioni: dispongono di altri mezzi, possono mettere in campo altre forme di lotta. Forme 'materiali' che però riguardano beni immateriali. Pensiamo ai tassisti: gestiscono la mia 'mobilità'. Possono interromperla. E con questo possono bloccare la mia possibilità di comunicare. Anzi, possono bloccare i movimenti e la mobilità del Paese. Come, peraltro, i camionisti".
Cosa accomuna queste due classi?
"Entrambi le classi hanno lo stesso bersaglio. Intervengono sugli stessi attori politici. Tendono a esercitare pressione sulle decisioni e i decisori politici".
Ma, a oggi, la maggior parte di questi interventi resta nell'opacità...
"Naturalmente c'è differenza fra chi esercita una pressione esplicita attraverso scioperi e forme di lotta aperte e chi, invece, agisce esercitando pressioni e influenza sul ceto politico, nel retroscena. Il problema italiano è qui. E dipende dall'assenza di una cultura delle lobby. E quindi dall'esistenza di lobby implicite. Che non sono regolate ma sono contigue con il potere politico. Contiguità che è difficile da modificare: rendere pubbliche determinate procedure - pensiamo agli appalti - farebbe saltare la procedura stessa. E metterebbe in discussione gli interessi e le posizioni di potere esistenti. Per questo rendere trasparente il mercato è operazione difficile".
Ci prova da anni. Da quando fu coinvolto dall'ultimo governo di Romano Prodi per lavorare a una legge che regolasse i gruppi di pressione. Pier Luigi Petrillo è professore associato di Diritto pubblico comparato all'Università Unitelma Sapienza di Roma. E da 8 anni insegna Teoria e tecniche del lobbying alla Luiss "Guido Carli". Non solo: è consulente per l'OCSE in materia di lobbying e trasparenza. Con il governo Letta il suo ultimo impegno nelle istituzioni: era l'estate del 2013 e la legge sui lobbisti sembrava realmente a un passo dal vedere la luce.
Professor Petrillo, cosa comporta la mancanza di questa legge per il tessuto democratico del Paese?
"Questa assenza consente alla politica di scaricare la responsabilità della propria inefficienza proprio sui lobbisti. Un provvedimento non viene approvato? Colpa delle lobby. Un disegno di legge si ferma? Colpa delle lobby. Le lobby sono diventate un paravento della politica che non vuole scontentare taluni soggetti e non vuole assumersi la responsabilità della scelta".
Con una normativa sul tema la politica guadagnerebbe in efficienza?
"Una legge sul lobbying, rendendo pubblici gli interessi particolari contrapposti, toglierebbe alla politica qualsiasi alibi: il decisore dovrebbe decidere, sotto gli occhi di tutti. Nei 18 paesi dove il processo decisionale pubblico è regolato dalla legge avviene tutto in trasparenza: gli incontri con i portatori d'interesse sono pubblici e la politica alla fine deve assumersi la responsabilità di indicare quale o quali interessi soddisfare. La zona d'ombra che esiste nell'ordinamento del nostro paese consente alla politica di non scegliere: e quindi di non scontentare nessuno, salvo i cittadini ai quali si fa credere che è colpa delle lobby anziché della politica".
Nel 2013 il governo guidato da Enrico Letta sembrò a un passo dall'approvazione di un decreto legge...
"Da marzo 2013 a maggio 2013 il governo chiese a un gruppo di esperti, di cui facevo parte, un lavoro preparatorio per un disegno di legge. Alla fine della fase di studio, maggio 2013, presentammo il nostro lavoro, basato essenzialmente sui principi indicati dall'Ocse. Successivamente, per redigere il testo, furono incontrati, il 5 giugno, a Palazzo Chigi, alcuni lobbisti così da analizzare l'impatto delle norme ipotizzate sui destinatari della stessa. Il provvedimento venne calendarizzato per essere approvato dal consiglio dei ministri del 5 luglio. Fino a ventiquattro ore prima sembrava filare tutto liscio. Ma durante la seduta, il Consiglio decise di rimandarlo senza approvarlo. E la successiva crisi del governo Letta mandò in soffitta il lavoro fatto".
Da dove arrivano le maggiori resistenze alla legge?
"Oggi ci sono dei soggetti facilitati nell'accesso ai decisori perché, ad esempio, rappresentano interessi di società pubbliche o a partecipazione pubblica. Una legge sul lobbying metterebbe sullo stesso piano questi lobbisti 'privilegiati' con gli altri: per questo l'OCSE ha più volte detto che una legge in materia serve per assicurare la concorrenza".
Un privilegio che esiste solo finché esiste una zona d'ombra...
"Uno studio realizzato dall'Università Unitelma Sapienza evidenzia come solo il 20% delle attività di lobbying è in chiaro nel senso che è possibile conoscere chi ha fatto lobbying e per cosa. L'altro 80% è composto da lobbisti 'di fatto': da chi gestisce le relazioni esterne delle aziende fino agli studi di comunicazione o legali. Questo 80% non è tracciabile".
La soluzione legislativa più veloce?
"Il governo potrebbe intervenire in materia senza nemmeno aspettare la legge. Con un decreto del premier - che necessita solo di una veloce approvazione in Consiglio dei ministri - finalizzato a regolamentare l'attività di lobbying diretta verso tutta l'amministrazione esecutiva, dal governo agli enti pubblici economici. Se solo si volesse...".
Fonte: Repubblica.it
È convinto di farcela il Viceministro alle Infrastrutture a regolare – con dei limiti – l’attività di lobbying in Italia. Del resto ci è già riuscito una volta per primo – sempre con dei limiti – quando era presidente del Consiglio Regionale della Toscana.
Riccardo Nencini, segretario PSI, senatore, è Vice Ministro alle Infrastrutture e Trasporti del Governo Renzi, e nel suo ruolo che lo vede driver della riforma del Codice degli Appalti sta cercando di arrivare ad un qualcosa che oltre 60 progetti di legge (e un ddl governativo a firma Santagata, governo Prodi II) in 37 anni non sono riusciti ad ottenere: regolamentare le lobby (per le quali alcune regole peraltro già esistono, basterebbe che lo Stato le applicasse).
NORME SUL LOBBYING: LIMITI E TEMPISTICHE
L’ambito, appunto, è limitato, dato che il ddl delega su cui poi il Governo dovrebbe lavorare. La tempistica? “Il ddl delega sulla riforma degli appalti che avuto il via dal Governo lo scorso 29 agosto andrà a breve al Senato, dove dovrebbe speriamo possa essere approvato entro novembre, per poi passare alla Camera e aver l’ok entro aprile. Puntiamo ad emanare il decreto legislativo entro l’autunno 2015”.
Ma la delega non pone dei limiti al tipo di regolamentazione che si vuole ottenere?
“Certamente la normativa sarà limitata al tema della delega, sarà un primo approccio, ma faremo un lavoro per gettare trasparenza sui processi. L’idea è quella di consentire tutti gli operatori di essere messi alla pari in partenza, di poter contribuire ai processi normativi, senza che ci siano dei privilegi informativi”.
Pochi giorni fa la presidenza del Consiglio ha affidato la delega sulle lobby al ministero per i Rapporti con il Parlamento e le Riforme, mentre al Senato si stanno accorpando i vari ddl (se ne attende uno, che si vocifera interessante, di Laura Puppato del PD) ed è stato nominato relatore del provvedimento il senatore ex M5s, Francesco Campanella (ora nel Gruppo Misto, con la componente ‘Italia lavori in corso’). Non si rischia un’inutile sovrapposizione?
“Assolutamente no. Stiamo cercando di avviare un percorso che si integrerà poi perfettamente con un’eventuale normativa più ampia”.
LE REGOLE
A lavorare sul tema lobby con Nencini c’è una commissione di studio istituita ad hoc al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, che avrebbe individuato alcune priorità da inserire nella norma addivenire: l’istituzione di un registro pubblico dei portatori di interesse; la previsione di criteri oggettivi per l’iscrizione al registro; la fissazione alcuni criteri di reciprocità nell’acquisizione, accesso e scambio di informazioni; l’analisi preventiva di impatto ‘pubblico’ delle normative (peraltro già prevista dalla normativa AIR, mai del tutto applicata); trasparenza nell’accesso dei portatori di interessi. Una serie di punti che sembrano rispecchiare – almeno per quanto fuoriuscito – quelli del suo disegno di legge del 2013, considerato anche dagli operatori del settore un’ottima base di lavoro.
OBBLIGHI ANCHE PER I DECISORI
Ci saranno anche obblighi per i decisori pubblici?
“Certamente sì. Dovranno attenersi alla norma e rapportarsi solo con i soggetti iscritti. Chiunque ricopra un ruolo istituzionale, se riceve un lobbista, dovrà annotare su un registro apposito tutto su quell’incontro: chi era, chi rappresentava e cosa chiedeva la persona ricevuta”.
Proprio su questo punto, ricordiamo, si areno in un Consiglio dei Ministri dell’estate 2013, la proposta che sarebbe dovuta uscire dal Governo Letta. In prima fila ad opporsi a questo tipo di obblighi c’era l’allora Ministro dell’Agricoltura e oggi capogruppo NCD, l’on. Nunzia De Girolamo, che parlò addirittura di “legge sovietica”, e che fece in modo di non dare seguito al primo esperimento di norme sul lobbying avviato dal suo predecessore al MIPAAF, Mario Catania.
Nencini ha già regolamentato una volta le lobby, in Toscana, prima Regione italiana nel 2002, seguita poi da Molise e Abruzzo e Molise, anche se da più parti sulla norma sono piovute critiche, essendo rivolta solo alle associazioni, ed escludendo quindi aziende e consulenti.
“In realtà la mia proposta era assai diversa. Il Consiglio Regionale ha poi deciso di procedere in quel modo. Si è scontato anche un certo approccio ideologico di vedere le lobbies”.
IL CONVEGNO, SABATO 4 OTTOBRE
E proprio in Toscana, a Firenze, sabato 4 ottobre [vai alla locandina della conferenza] Nencini si siederà intorno ad un tavolo – moderato dall’ex deputato (nel 2006 presentò anche una proposta sul lobbying) ed oggi docente di comunicazione politica Chiara Moroni – con lobbisti tra i quali Tony Podesta (fondatore del Podesta Group), Patrizia Rutigliano (Direttore Relazioni Istituzionali e Comunicazione di SNAM, e presidente di FERPI), Simone Bemporad (Direttore Comunicazione e Relazioni Esterne del Gruppo Generali), Simone Crolla, Consigliere Delegato dell’American Chamber of Commerce in Italy e per breve tempo deputato nella scorsa legislatura. Con loro ci saranno anche l’on. Mariastella Gelmini, Vice Presidente Vicario del Gruppo Parlamentare FI della Camera e – principalmente – l’on. Luca Lotti, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e uomo tra i più vicini a Matteo Renzi. Un tavolo di grande livello in cui si parlerà di regolamentazione dell’attività di lobbying proprio in vista delle nuove norme.
LOBBY CHE FRENANO
Un convegno che però sembra presentare una sedia vuota. I consulenti, che rappresentano una fetta importantissima del lobbying in Italia, e che da anni si battono per ottenere regole. Da alcune parti però viene adombrata l’idea che alcuni lobbisti, principalmente quelli facenti capo ad aziende partecipate dallo Stato o ex monopoliste, frenino di fronte ad ogni tipo di regolamentazione complessiva per così mantenere una sorta di rendita di posizione (a cominciare da privilegi esemplari quali il tesserino di accesso al Parlamento garantito) nei rapporti con la politica.
“Lei è un peccatore impenitente” [intendendo a pensare male, NdR], risponde non rispondendo – ma nemmeno smentendo – il Viceministro Nencini, che però rassicura. “Ma questo è solo il primo convegno che il Ministero terrà sul tema, ne seguiranno altri presto cui faremo intervenire anche i consulenti, certamente. L’obiettivo finale è quello di regole che portino trasparenza e pari condizioni per tutti”.
ORIANA E “DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO”…
Nel suo bellissimo “Intervista con la storia” Oriana Fallaci – di cui Nencini fu amico, pubblicando anche un libro su di lei, “Morirò in piedi” – scrisse: “Pietro Nenni [leader storico del PSI, NdR] sarebbe stato uno splendido presidente delle Repubblica, e ci avrebbe fatto bene averlo al Quirinale. Ma non glielo permisero, non ce lo permisero. I suoi amici prima ancora dei suoi nemici”. Ecco, si spera che ad un altro socialista, Nencini in questo caso, che le regole le farebbe e bene, non sia impedito a proprio dagli “amici” di arrivare all’obiettivo.
(Flavio Felice & Fabio G. Angelini) Più volte abbiamo ragionato sui rischi che si celano dietro la «logica statalista» che assegna alla politica il monopolio sulla società. Oggi vorremmo sottolineare un fenomeno speculare, che di quella è figlio naturale: si tratta della «logica neo-feudale» che declassa il ruolo della politica a guardiano degli interessi corporativistici delle lobby.
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Questo è un tempo di molti e diversi rischi. Più volte - muovendo dalla prospettiva sturziana, popolare e liberale, tipica dell'economia sociale di mercato - abbiamo ragionato su quelli che si celano dietro la «logica statalista» che assegna alla politica il monopolio sulla società. Oggi vorremmo sottolineare un fenomeno speculare, che - a ben vedere - di quella è figlio naturale e legittimo: si tratta della «logica neo-feudale» che declassa il molo della politica a guardiano degli interessi corporativistici delle lobby.
L'inchiesta che "Avvenire" ha sviluppato sui finanziamenti ai partiti e sulla regolamentazione delle attività lobbistiche testimonia il segnale preoccupante di un sistema opaco e intriso di conflitti di interesse che non solo non fa bene alla nostra democrazia, ma innesca il più classico dei circoli viziosi, per cui istituzioni politiche "estrattive" generano istituzioni economiche della stessa natura che finiscono per perpetuare e rinforzare le prime, a danno della democrazia e dello sviluppo sociale ed economico.
La sveglia lanciata va ben oltre la (pur cruciale) tematica della trasparenza, finendo per incidere - su queste colonne è già stato rimarcato - sulla qualità e sullo stesso funzionamento delle nostre istituzioni, sulla loro capacità di soddisfare i bisogni dei cittadini. Non a caso, è proprio sul terreno della trasparenza del processo decisionale politico che è possibile riconoscere un'istituzione "estrattiva" (che concentra potere e ricchezza nelle mani di pochi) da una "inclusiva" (che potere e ricchezza tende, al contrario, a ridistribuire).
Parlare di riforma delle istituzioni e della pubblica amministrazione senza porre alla base una "vera" e ben calibrata riforma della politica (owero, dei partiti, del loro finanziamento e della legge elettorale) rappresenta un velleitario esercizio di vuota retorica, incapace di rompere quel circolo vizioso di cui il Paese è, da tempo, ostaggio. A nostro parere c'è un campo nel quale, meglio di altri, è possibile cogliere l'essenza di tale discorso: quello della semplificazione amministrativa.
Dagli anni Novanta ai giorni nostri, man mano che i partiti tradizionali si andavano frantumando sotto i colpi della corruzione e delle conseguenti inchieste giudiziarie, sostituiti da cartelli elettorali e partiti post-ideologici, fondati su invadenti leadership personali, il mito della semplificazione amministrativa è diventato il mantra di qualsiasi programma politico. Dopo tanti fallimenti, crediamo che la difficoltà di semplificare le procedure amministrative sia figlia dell'incapacità del sistema politico di gerarchizzare il quadro degli interessi confliggenti attraverso il loro bilanciamento e la scelta di precise priorità politiche. La gerarchizzazione degli interessi comporta, infatti, l'assunzione di responsabilità e l'eventualità che si perda consenso.
Tali scelte, attraverso un trasparente processo legislativo, dovrebbero trovare la propria traduzione nelle leggi e, con riferimento al caso concreto, nell'attività posta in essere dalla pubblica amministrazione nel rispetto del principio di legalità. Proprio la degenerazione del quadro politico e l'incapacità di assumere precise scelte di indirizzo politico, in un contesto istituzionale che non garantisce né la responsabilizzazione sui risultati, né il pieno controllo democratico da parte dei cittadini, sono alla base dell'espansione incontrollata della discrezionalità (e spesso "parzialità") della pubblica amministrazione e della proliferazione dei centri di potere burocratico che bloccano il Paese,minando la certezza del diritto e dando luogo a gravi forme di disparità di trattamento nell'accesso ai servizi pubblici.
Al costo del non decidere, integralmente a carico dei cittadini e delle imprese, corrisponde dunque il dividendo "neo-feudale" del non decidere che, per il sistema politico, si traduce nella conservazione del potere a vantaggio di pochi e a discapito dei molti. Una forma di irresponsabilità politica che produce effetti devastanti non solo in termini morali, ma anche sul fronte economico, rendendo l'Italia più povera e più inerme nei confronti dei competitori internazionali, nonché incapace di attirare gli investimenti stranieri; è questa, peraltro, una potente concausa della mancata crescita nel nostro Paese.
Al contrario, all'interno di un contesto istituzionale inclusivo, semplificare significherebbe individuare, attraverso un trasparente processo decisionale politico, un determinato bilanciamento tra tutti gli interessi in gioco che, una volta recepito in una legge, l'amministrazione sarebbe chiamata a realizzare in riferimento al caso concreto, con gli strumenti che le sono propri.Qualsivoglia intervento nella direzione di rendere più efficienti le nostre istituzioni, perciò, dovrebbe focalizzarsi su una vera riforma della politica, dei suoi processi decisionali e delle sue relazioni con i portatori di interesse. L'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, così come è stata realizzata, in assenza di una chiara regolamentazione delle attività lobbistiche, non va affatto in tale direzione. Così com'è, essa non potrà che aggravare quel circolo vizioso che, rendendo opaco il processo decisionale, incide sulla macchina amministrativa, alimentando il germe estrattivo del nostro sistema istituzionale a discapito dei cittadini, delle imprese e di un equilibrato sviluppo.
Leggi l'inchiesta di Avvenire
«Lobby, perché serve la legge» (Avvenire)
Petrillo: «Soldi privati ai partiti. La legge è un colabrodo» (Avvenire)
Le mani delle «lobby» sulla politica (Avvenire)
Mazzei:«Io, lobbista doc esigo trasparenza» (Avvenire)
Troppi casi di "porte girevoli" fra Stato e privati (Avvenire)
Rughetti: «Lobby, basta con il Far West. Agiremo presto» (Avvenire)
Crosetto: "Fatta la scelta, si segua fino in fondo il modello americano" (Avvenire)
(Giovanni Grasso) Giuseppe Mazzei è un «lobbista» e se ne vanta. Anzi, afferma con orgoglio: «Rivendico la specificità della mia professione, che non va assolutamente confusa con quella dell’intermediario». O - ma Mazzei questa parola non la pronuncia – del 'faccendiere'. Mazzei ha fondato un’associazione di lobbisti, 'Il Chiostro', che è in prima fila per chiedere una legge di regolamentazione che assicuri il massimo di trasparenza.
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Insomma, Mazzei: tra lei e un Bisignani che differenza c’è?
Facciamo un mestiere diverso.
Si spieghi meglio...
Il lobbista è un professionista che rappresenta specifici interessi, alla luce del sole e si occupa, prevalentemente, di produzione legislativa.
Non di procacciare affari.
Dunque, lei si reca in Parlamento e spiega ai deputati o ai senatori come dovrebbero scrivere una legge...
Spiego loro le possibili conseguenze per settori dell’economia o della società civile di una legge scritta male. Il parlamentare non può sapere
tutto. L’ascolto delle esigenze di chi opera in settori specifici diventa fondamentale proprio per produrre una buona legislazione.
Insomma, il lobbista è una sorta di avvocato del mondo dell’economia e del sociale in Parlamento.
Più o meno, è così. Ci occupiamo di migliorare la produzione normativa.
Il problema è che non si sa mai dove finisce l’ascolto e dove iniziano le pressioni indebite...
Proprio per questo, gli associati al Chiostro operano seguendo un rigidissimo codice deontologico.
Che cosa prevede questo codice?
Il massimo di trasparenza. Non devono occuparsi di appalti e gare. Non devono avere conflitti di interesse. E devono fare attenzione alla questione delicatissima dei finanziamenti ai partiti. I nostri associati hanno l’obbligo rigoroso di astenersi da finanziare partiti o candidati, in qualunque forma.
Compresi i regali?
Quelli di un certo valore, sicuramente. Una cosa è regalare un’agenda, un’altra pagare una settimana per due persone ai Caraibi.
Questo codice lo seguite voi. Ma gli altri?
Per questo è da tempo che chiediamo una legge che regolamenti il settore e che valga per tutti gli operatori. Abbiamo fatto una nostra proposta che abbiamo inviato anche al presidente del Consiglio Renzi.
E che cosa prevede questa vostra proposta?
Innanzitutto la creazione di un registro professionale obbligatorio e pubblico, a cui si deve iscrivere chiunque voglia fare lobby. L’iscrizione a questo registro comporta il rispetto di norme stringenti e sanzioni, pecuniarie e disciplinari, fino alla sospensione e alla radiazione,
per chi le viola.
Sono anni che il Parlamento tenta di fare una legge. Chi resiste, le lobby o la politica?
C’è molta gente, da una parte e dall’altra, che ha interesse a mantenere una zona d’ombra, all’interno della quale è difficile distinguere tra lecito e illecito.
Che ne pensa degli ex parlamentari che diventano lobbisti?
Che se vogliono fare lobby devono rinunciare a tutti i privilegi che gli spettano come ex parlamentari.
Per fare un esempio?
Per entrare nei Palazzi devono accreditarsi e indossare il badge come tutti gli altri.
(Fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 12 e 13 settembre)
Fonte: Avvenire
(Giovanni Grasso) La parola «lobby» evoca in Italia poteri oscuri, traffici riservati e pratiche poco commendevoli. Ma non è così in altri Paesi, dove da tempo esistono leggi che regolamentano l’attività dei "portatori" di interesse e la rendono trasparente (e persino utile). Proprio la mancanza di provvedimenti specifici provoca, nel nostro Paese, la classica notte, dove tutte le vacche sono grigie. Nella quale, insomma, è quasi impossibile distinguere tra interessi leciti e attività al limite della legalità. Se una regolamentazione legislativa dell’attività di lobbying latita da troppi anni, ci sono casi in cui si prova a porre rimedio al problema, con esiti alterni.
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Mario Catania, quando era ministro dell’Agricoltura nel governo Monti, aveva stabilito di regolamentare i rapporti con i gruppi di interessi a livello ministeriale: «Non mi sfuggiva – spiega – la necessità di una norma a livello nazionale, ma intanto volevo dare il buon esempio». Il risultato fu, dopo aver vinto numerose resistenze dentro e fuori il ministero, che sul sito internet istituzionale veniva pubblicata l’agenda degli appuntamenti del ministro con i rappresentanti degli interessi. «Chi la prese particolarmente male – ricorda Catania – furono le associazioni di rappresentanza. Si sentivano paragonate alle aziende private, ritenendosi, anche a ragione, portatrici di interessi collettivi. Tuttavia la lista era un’operazione di trasparenza, non una gogna». Con la caduta del governo Monti l’agenda degli incontri del ministero dell’Agricoltura non è stata più aggiornata. L’ex ministro ora dice: «Serve attenzione non solo a livello centrale, ma soprattutto nelle Regioni e nei Comuni, perché è lì che ormai si concentrano interessi molto "concreti" e dove le lusinghe possono prendere la strada dell’illegalità».
Enzo Iacopino, per lunghi anni presidente della Stampa Parlamentare, è ora a capo dell’Ordine Nazionale dei giornalisti. Nei Palazzi ne ha viste di tutti i colori: «Ricordo – dice – il caos durante le elezioni del successore di Cossiga al Quirinale. Noi giornalisti avevamo contingentato gli accessi, ma Montecitorio straboccava di lobbisti. Ne parlai con il presidente della Camera Scalfaro e un minuto dopo una cinquantina di persone furono accompagnate alla porta. La cosa gli portò fortuna, perché Scalfaro fu di lì a poco eletto al Quirinale». Dopo quell’episodio, Iacopino propose profonde modifiche allo statuto della Stampa parlamentare, introducendo l’incompatibilità per i giornalisti parlamentari, che non possono avere contratti di consulenza o di collaborazione con aziende o con uomini politici. «Una volta – ricorda ancora – sorprendemmo un giornalista che raccoglieva le firme per un’interrogazione parlamentare. Fu sospeso per lungo tempo. Norme così stringenti valgono però solo per i giornalisti parlamentari, per gli altri ci vorrebbe una legge».
Il deputato-questore della Camera Paolo Fontanelli (Pd) respinge l’idea che Montecitorio «sia in perenne assedio da parte di moltitudini di lobbisti che vagano nel Palazzo». Certo, racconta, «i deputati possono fare entrare chi vogliono. Ma gli ospiti vanno ricevuti in una zona specifica e non possono girare liberamente per i corridoi della Commissioni o in Transatlantico». I lobbisti veri e propri «appartengono in genere alle partecipate pubbliche, chiedono l’accesso temporaneo a Montecitorio, ma gli è vietato l’ingresso dentro le Commissioni. E non sono certo un esercito. Il nostro regolamento è rigido – conclude – ma è chiaro che la questione non è solo quella degli accessi. Oggi con un tablet o un telefonino si possono far arrivare messaggi in tempo reale direttamente al deputato chiuso in Commissione. Serve una seria legge nazionale».
Fonte: Avvenire