(Francesco Angelone) Seppur nato da un progetto del Ministero della Difesa Usa, internet – da quando è diventato di ampio accesso – è sempre stato considerato un baluardo della democrazia, un luogo dove non esistono caste e tutti sono in qualche modo uguali. Corollario di questo principio, oltre che sua pratica applicazione, è la net neutrality: tutto il traffico su Internet deve essere trattato allo stesso modo, senza corsie preferenziali.
Da diverso tempo, ormai, negli Usa si parlava di una possibile rivisitazione di questo principio, permettendo alle società che forniscono le connessioni online (i cosiddetti provider) di trattare in modo diverso i contenuti che circolano sulle loro reti e, conseguentemente, proporre offerte commerciali differenziate per il servizio prestato. Ora tutto questo è realtà. Giovedì 14 dicembre la Federal Communications Commission (FCC), agenzia governativa che ha il compito di vigilare sulle comunicazioni, ha votato (3 a 2) per porre fine alla net neutrality. L’agenzia è composta da 5 membri, 3 repubblicani (i favorevoli) e 2 democratici (i contrari) e il suo presidente, Ajit Pai, è stato nominato da Trump. Il piano approvato dalla FCC centra l’obiettivo di rimuovere i vincoli normativi posti durante l’amministrazione Obama e ‘ristabilire la libertà su internet’.
Ma la libertà di chi? Chi sostiene la bontà di questa decisione, infatti, crede che la rete fino al 2015 (quando la FCC di colore politico opposto intervenne a garantire la neutralità) non avesse problemi di alcun tipo circa la disparità di trattamento dei siti e dei servizi. Chi vi si oppone, invece, pare chiedersi soprattutto la libertà di chi questa decisione dell’agenzia federale vada a tutelare. Secondo questi, i provider - ovvero colossi industriali del calibro di AT&T, Verizon e Comcast - potranno controllare il traffico online e condizionare i loro clienti privilegiando alcuni contenuti su altri.
Come se non bastasse, negli Usa alcuni di questi fornitori di accesso a internet sono anche distributori di contenuti. Si pone, così, il problema di un potenziale conflitto di interessi, materia sulla quale dovrà esprimersi un’altra agenzia federale, la Federal Trade Commission. Contrappeso di questa liberalizzazione del sistema sarà la trasparenza che la FCC richiederà ai provider per tutelare i consumatori e permettere agli operatori più piccoli di aver accesso ad informazioni che possano promuovere l’innovazione delle infrastrutture di cui dispongono. Ma anche sull’effettivo e corretto funzionamento di questo meccanismo permangono dei dubbi.
E così per le conseguenze di questa decisione. Per i sostenitori della neutralità della rete, è stata proprio la parità nel trattamento dei contenuti a favorire il successo di Internet, la trasformazione di alcune imprese in colossi globali e allo stesso tempo a garantire la sopravvivenza dei ‘pesci più piccoli’. In qualche modo, quindi, il piano della FCC ucciderebbe la rete delle reti. Gli altri, tra cui lo stesso Pai, sostengono che le nuove regole consentiranno agli ISP (Internet Service Provider) di aumentare i ricavi, in modo da potere investire per rafforzare le reti e offrire servizi migliori ai clienti, anche nelle aree geografiche dove si guadagna meno.
La risoluzione dell’agenzia sulle comunicazioni arriva al termine di una quasi estenuante attività di pressione che entrambe le parti hanno condotto. Secondo il Center for Responsive Politics, organizzazione attentissima a queste questioni, negli ultimi dodici mesi la FCC ha ricevuto un totale di circa cento report sul tema. Imprese di telecomunicazioni, associazioni di categoria e gruppi di advocacy contrari alla neutralità della rete secondo queste stime hanno affrontato una spesa totale di circa 110 milioni di dollari. Inferiore, pari a circa 39 milioni di dollari, la spesa di coloro che hanno fatto pressione per mantenere in vigore le regole fissate nel 2015. Tra questi, imprese del settore tech e i colossi Amazon, Facebook e Twitter. Un flusso di denaro, quello elargito da entrambe le fazioni, che ha preso la direzione sia dei democratici che dei repubblicani. 495 su 535 sono, infatti, i membri del Congresso che hanno ricevuto fondi da questi gruppi, a dimostrazione di quanto il tema sia tenuto in considerazione tanto dagli operatori del settore che dai policy-maker.
Una curiosità: Ajit Pai, presidente della FCC, in precedenza ha lavorato per Verizon. Altra curiosità: una delle organizzazioni più attive contro la net neutrality è stata la no-profit American Commitment, che ha svolto un lavoro capillare per creare consenso sui social network e che ha beneficiato di fondi a gruppi di decine di migliaia di dollari da donatori perlopiù sconosciuti (essendo questo permesso dal suo particolare status giuridico). Il presidente di questa no-profit, Phil Kerpen, presiede la Internet Freedom Coalition, una federazione al cui interno siedono diverse associazioni di cui sono membri Verizon, Comcast, Sprint e AT&T.
E al di qua dell’oceano? Come ha riportato La Stampa, la presidente della Camera Laura Boldrini, tra le principali sostenitrici della Dichiarazione dei Diritti di Internet nel 2015, ha definito l’abolizione della net neutrality negli Stati Uniti come un fatto «grave», ricordando come non sia democratico privilegiare certi contenuti rispetto ad altri, discriminando e aumentando sensibilmente i costi per i consumatori. In Europa, il Parlamento ha invece votato un regolamento sulle telecomunicazioni che, oltre ad avere eliminato il roaming per la telefonia mobile nei Paesi dell’Unione, ha anche previsto più garanzie per la neutralità della rete. Con buona pace delle lobby degli operatori. Che sia questa “the next big thing” di cui discutere in un negoziato tra USA e UE per regole comuni sulla net neutrality?
(Federico Bergna) Il 20 novembre Il Consiglio Affari Generali dell’Unione Europea ha votato l’assegnazione di due delle principali agenzie indipendenti, la European medicines agency (EMA) e la European banking authority (EBA).
La vicenda ha destato molto interesse in Italia per la candidatura forte di Milano alla prima agenzia e ancor più per il metodo di votazione, che ha visto la vittoria di Amsterdam sul capoluogo lombardo tramite un sorteggio, dopo che le due città erano uscite a pari punti dal terzo turno –decisiva l’astensione slovacca.
Nel dibattito pubblico si è parlato molto del risultato dettato dalla sorte ma poco del metodo alla base della candidatura.
Milano ha presentato il dossier ritenuto più solido e per questo favorito fino all’ultimo, puntando su carte vincenti come la sede del grattacielo Pirelli, il respiro europeo cittadino, la presenza di centri d’eccellenza in materia di ricerca, università e innovazione, la rete di infrastrutture e trasporti, il successo di Expo2015 e le potenzialità future di sviluppo.
La solidità della proposta non è stata sufficiente per ottenere un risultato dal contenuto fortemente politico. L’azione di lobbying sui governi non ha dato i suoi frutti e, indipendentemente dal sorteggio, è stata fallimentare se 13 stati si sono rivelati contrari alla città nella votazione decisiva.
È parsa evidente, anche su questo tema, la divisione dei 27 paesi europei in tre blocchi, nord Europa, paesi mediterranei ed est. Mentre Amsterdam ha investito la sua attività di pressione principalmente sui paesi del nord (con la sola defezione della Svezia), l’Italia ha rifiutato questa logica, puntando a una maggioranza trasversale e geograficamente più larga. Il risultato è stato il voto poco coeso del sud Europa -emblematico il voto contrario della Spagna- e la sconfitta di Milano in una partita nella quale prevalevano ragioni politiche totalmente estranee al merito della discussione, come dimostra la rapida esclusione della favorita Francoforte nelle votazioni per l’autorità bancaria.
La sconfitta non cancella la positività di un modello curioso e inedito di lobbying sviluppato durante l’esperienza, replicabile in futuro su altri tavoli ed esempio positivo – e culturalmente rilevante - di attività di pressione volta allo sviluppo del Paese, nel pieno perseguimento dell’interesse generale, superando la tradizionale ostilità verso ogni forma di lobbying che pervade il Paese.
In primo luogo si è assistito a una inusuale coalition building tra due attori istituzionali, Comune di Milano e Regione Lombardia, quasi sempre contrapposti su ogni tematica e alla costante ricerca di protagonismo. Il presidente Maroni, il sindaco Sala e i componenti delle rispettive giunte si sono spesi con determinazione in ogni sede fino all’ultimo, per presentare una proposta solida e cercare di ottenere un risultato importante allo sviluppo cittadino e della nazione. Superando le diffidenze reciproche e le divisioni politiche sono riusciti a unirsi e creare una governance verso un obiettivo condiviso.
Alle istituzioni si sono affiancate nella coalizione Confindustria, Assolombarda e la Camera di commercio di Milano, Monza Brianza e Lodi, con una intensa attività di promozione della candidatura nel mondo industriale europeo, nelle associazioni omologhe, fino all’invito a Milano di 45 consoli degli Stati partner. Diana Bracco ha svolto il ruolo di rappresentante del mondo industriale nella promozione di Ema Milano.
Nella partita, minore sembra essere stato l’attivismo del Governo sugli altri governi, nonostante la dinamicità del sottosegretario per gli Affari Europei Gozi e del consigliere del premier per la promozione dell’Ema Moavero Milanesi. A differenza degli altri Paesi candidati, che hanno visto un ruolo di primo piano dei Primi ministri, in Italia non è stata svolta una sufficiente attività di pressione e negoziazione ai massimi livelli, cruciale in una competizione rivelatasi del tutto politica più che tecnica e promozionale.
Dopo la delusione occorrerebbe analizzare nei dettagli una vicenda che potrebbe rappresentare un caso studio e modello vincente, superandone alcune inefficienze, per l’attività di lobbying istituzionale e la capacità di fare sistema in negoziati complessi.
(Francesco Angelone) Il Parlamento UE vota sì a più trasparenza per le lobby. A quasi due anni dalla nascita è finalmente approdato giovedì in plenaria a Strasburgo il famigerato ‘rapporto Giegold’, il pacchetto di misure sulla trasparenza, l’accountability e l’integrità delle istituzioni comunitarie elaborato dall’eurodeputato tedesco dei Verdi Sven Giegold.
Il testo è stato approvato col voto favorevole di 368 deputati. Come nasce la relazione? Sebbene le istituzioni UE siano generalmente più trasparenti e accountable di quelle nazionali, è diffusa la percezione di distanza tra le politiche adottate in sede europea e i cittadini destinatari di quelle decisioni. Non solo spesso le informazioni su quanto avviene a Bruxelles sono carenti, ma vi è la sensazione tutt’altro che infondata di poter incidere poco sulle politiche. Molto spesso l’Unione Europea è identificata come ‘Europa delle lobby’ (ovvio!). Vi è la convinzione che per rendere le politiche europee giuste per tutti si debba mettere il guinzaglio alle lobby, costringerle a non spingersi troppo in là, sottoporle allo sguardo attento dei cittadini in un’ampia operazione trasparenza. Intenzione della relazione Giegold è proprio contribuire a marcare una più netta separazione tra potere economico e potere politico.
Cosa prevede?
All’interno vi è il richiamo a tutti i parlamentari di incontrare solo i rappresentanti di interessi iscritti nel Registro per la Trasparenza e chiede che siano inclusi anche gli incontri tra rappresentanti di interessi e Segretari generali, Direttori Generali e Segretari Generali dei gruppi politici. Inoltre, invita i deputati e il loro personale a verificare se i rappresentanti di interessi che intendono incontrare siano registrati e, in caso negativo, a chiedere loro di farlo al più presto prima dell'incontro. Dall’altra parte, ritiene necessario obbligare gli iscritti al Registro per la Trasparenza a produrre documenti per dimostrare che le informazioni trasmesse siano accurate. In più, esorta il Consiglio a introdurre una disposizione analoga che includa le rappresentanze permanenti. Invita (senza prevedere obblighi e sanzioni eventuali), poi, Ufficio di presidenza del Parlamento e Commissione a pubblicare in maniera esaustiva e tempestiva le informazioni circa gli incontri con gli iscritti al Registro.
Il rapporto dell’onorevole Giegold è stato redatto anche con il contributo di alcune realtà della società civile. Tra esse figurano Transparency International, LobbyControl, European Public Affairs Consultancies Association (EPACA), Alliance for Lobby Transparency and Ethics Regulation (ALTER-EU) e l’italiana Riparte il Futuro (nella persona di Giulio Carini).
L’approdo in plenaria, dopo il parere positivo della commissione competente per merito (la Affari Costituzionali) e delle commissioni chiamate a fornire un parere (CONT, ENVI, INTA, LIBE e JURI), non è stato privo di colpi di scena. Insieme al testo base, si è infatti votato un emendamento del PPE volto ad introdurre eccezioni alla lista di soggetti tenuti a sottostare ai vincoli previsti per i lobbisti. La misura, secondo i deputati firmatari, avrebbe salvaguardato quei soggetti sprovvisti di finanziamenti ed interessati a difendere questioni non commerciali. Una formulazione ambigua, che avrebbe allargato le maglie del rapporto indebolendolo, e che ha generato uno scontro parlamentare e social tra Giegold stesso e il PPE e reazioni diffuse decisamente negative.
Chi gioisce per le nuove regole
Il sì al rapporto Giegold è una buona notizia per Transparency International EU e per altri che hanno contribuito alla sua stesura. Giegold ha definito indegno il tentativo dei popolari di mantenere opaca la democrazia in Europa (chissà cosa penserà del nostro Paese?) e ha parlato di un grande successo del Parlamento e dei cittadini. Non ha mancato di sottolineare, però – e quindi non si capisce il motivo per cui definisca il sì al rapporto un grande successo – la debolezza delle decisioni prese in materia di revolving doors, nella quale i deputati hanno preferito adottare standard meno stringenti rispetto a quelli in vigore per i membri della Commissione Europea.
Toni trionfalistici e critiche ai Popolari sono il canovaccio anche dei commenti dei Socialisti. La loro portavoce in commissione Affari Costituzionali, l’ex governatrice del Piemonte Mercedes Bresso, ha rimarcato il decisivo supporto del proprio gruppo ad una relazione che pone fine al lobbying opaco. Il suo collega tedesco Jo Leinen ha spostato l’asticella più in alto ipotizzando un prossimo rafforzamento del Registro per la Trasparenza (invero già programmato dal Commissario Timmermans).
Le conclusioni dello studio della Banca Centrale Europea: troppa regolamentazione fa male al mercato, ma il lobbying è il miglior strumento del mercato per parlare ai decision makers.
La Banca Centrale Europea ha condotto il primo studio empirico sul settore del lobbying in Europa. Ne è risultato un quadro contrastante, riassunto in due concetti di base:
il lobbying fornisce ai decisori pubblici importanti informazioni sul settore di riferimento, contribuendo alla consapevole presa di decisione legislativa o regolamentare;
le aziende che spendono maggiori cifre per condurre attività di lobbying provengono spesso da settori altamente regolamentati e spesso puntano a mantenere alto il livello di complessità delle regole, rischiando di ridurre il generale benessere della società.
La ricerca: rendite di posizione, innovatività, produttività delle imprese
Lo studio “Lobbying in Europe: new firm-level evidence”, condotto da Kostantinos Dellis dell'Università del Pireo (Grecia) e da David Sondermann, analista della BCE, ha l'ambizioso obiettivo di ricostruire (empiricamente) le motivazioni che spingono una società a fare lobbying sul Governo del proprio Paese, e determinare il “ritorno sull'investimento” per ogni singola impresa o settore economico. È stato scelto, inoltre, di restringere la ricerca ad attori che operano in singoli mercati di riferimento, per tentare di dipingere un quadro ancora più specifico a livello settoriale.
Secondo gli autori, che hanno rilevato una scarsa letteratura in materia, il lobbying è condotto in gran parte da attori che operano in mercati regolamentati. Una delle conclusioni più rilevanti è che le aziende “incumbent”, ossia quelle che detengono posizioni dominanti nel settore, tendono a voler mantenere la propria rendita di posizione favorendo i propri interessi specifici. È stato rilevato che questo meccanismo (plausibile in contesti ristretti come i mercati regolamentati), accanto alle difficoltà nell'accesso al decisore per i nuovi entranti del mercato rischia di ridurre il benessere complessivo dell'economia intera in quanto riduce la competitività, il livello di innovatività delle aziende dominanti e il conseguente potenziale di sviluppo delle imprese entranti.
Un risultato pressoché ovvio ma che potrebbe suonare come una denuncia per i governi che sono restii ad avviare liberalizzazioni dei mercati più strettamente regolati.
Interessante il riferimento al livello di innovatività delle imprese. È stato rilevato che le imprese che innovano fanno lobbying per proteggere il loro livello di innovazione, e allo stesso tempo sono tra i maggiori recettori dei fondi europei di sviluppo e innovazione. Un risultato positivo può essere l'aumento del generale livello di innovazione; di contro, aziende innovative già dominanti nel mercato possono fare lobbying per mantenere lo status quo e non hanno il bisogno di aumentare il loro livello di innovatività come invece eventuali aziende potenziali entranti.
Incrociando i dati è stato poi possibile stabilire che, per gli attori analizzati, a maggior fatturato corrisponde maggior spesa per il lobbying. Spesso invece a maggiore intensità dell'attività di lobbying non sono risultati maggiori livelli di redditività e produttività.
Per quanto riguarda i risultati per settore, secondo lo studio i settori del real estate e dei servizi professionali (avvocati, architetti, e qualsiasi professione che richiede alta professionalità) tendono ad operare maggiormente con attività di lobbying in quanto maggiormente regolamentati rispetto agli altri.
Problemi metodologici: pochi dati a causa della scarsa trasparenza del lobbying in Europa
La ricerca è stata la prima condotta con lo specifico scopo di creare un framework comune di interpretazione delle dinamiche tra imprese e decisori al momento di attuare politiche economiche di settore, sulla base di analisi simili condotte negli Stati Uniti.
Il vero vulnus dello studio è stato, come hanno riconosciuto gli stessi autori, l'assenza di dati completi sull'attività di lobby delle imprese, un fenomeno fatto risalire all'assenza di un obbligo di rendicontare le spese nello specifico per le imprese e, allo stesso tempo, i finanziamenti privati ai partiti o alle campagne elettorali. Sono state prese come basi di dati le cifre del Registro per la Trasparenza dell'UE e il database AMADEUS di Bureau van Dijk , che riporta i dati su fatturato e spese di ogni società: troppo poco per tracciare precisi confini tra le spese in lobbying e i relativi outcome politici. Il Registro per la Trasparenza, infatti, non ha uno storico dei dati registrati periodo per periodo e, inoltre, è uno strumento facoltativo che riporta dati non categorizzati (ad esempio, lobby diretta o indiretta, a livello di governi nazionali o di istituzioni comunitarie, etc..) e suscettibili di fallibilità a causa della mancanza di una adeguata controprova delle spese realmente effettuate.
È interessante che per risalire al match tra attività di lobby delle imprese e singola decisione pubblica delle istituzioni siano state prese come riferimento le Raccomandazioni specifiche per Paese (Country-Specific Recommendations: ad esempio, quella che ha portato il Governo Gentiloni all'approvazione della Manovra Correttiva in Aprile). In base a quello è stato possibile definire l'agenda delle riforme, i settori specifici coinvolti e gli attori che si sono mossi nel corso dell'inter decisionale.
Conclusioni: con maggiore trasparenza dei dati sul lobbying, possibile definirne il ROI
Gli attori di dimensione maggiore e in mercati altamente regolamentati tendono a spendere maggiori cifre in lobbying in assoluto, spesso per mantenere la propria posizione dominante: questo non è di per sé negativo, specie perché spesso la regolamentazione aiuta a contravvenire ai fallimenti di mercato. Ma allo stesso tempo, una maggiore regolamentazione in settori non a fallimento di mercato può ridurre la creazione di lavoro, la produttività e in generale il benessere dell'economia nel suo insieme.
Lo studio si è rivelato quindi un primo passo per definire una metodologia di rendicontazione del reale impatto del lobbying per un'impresa: un fatto spesso decisivo per i manager che decidono di affidarsi a questa attività piuttosto che alla semplice competizione sul mercato. Uno studio che ha sicuramente delle basi scientifiche molto forti: seppur debole in alcuni elementi (pochi dati e confusi), la ricerca è riuscita a risalire alla correlazione tra le diverse variabili, rilevando che il lobbying non è casualità ma è una leva strategica specifica con obiettivi e risultati quantificabili.
È quanto meno curioso che anche gli autori della ricerca richiedano una migliore regolamentazione del lobbying nei singoli Paesi, stavolta per ottenere maggiori dati al fine di condurre ricerche più affidabili e ripetibili. Si affiancano quindi agli operatori del settore (che chiedono autorevolezza della professione) e alle associazioni anti-corruzione della società civile (che vogliono far luce su eventuali fenomeni distorsivi del processo decisionale democratico).
Un'ulteriore motivo di pressione per aumentare la trasparenza del lobbying.
LINK allo studio completo (ENG)
(Paolo Pugliese) L’assemblea plenaria del Congresso dei Deputati, camera bassa del parlamento spagnolo, ha concluso in questi giorni il primo dibattito riguardante la proposta del Partito Popolare di modificare il regolamento interno in modo da garantire maggiore trasparenza al procedimento legislativo, istituendo un registro dei lobbisti.
Uno dei maggiori ostacoli alla regolamentazione dell’attività di public affairs è la cattiva fama delle lobby quali gruppi di individui senza scrupoli. Secondo Joan Navarro, vicepresidente di Llorente & Cuenca, società di comunicazione e relazioni istituzionali, tale stigma nasce negli Stati Uniti, che però applicano un modello diverso per la loro regolamentazione da quello che troviamo in Europa.
D’altro canto, i lobbisti sono famosi per la loro efficienza, ed evitiamo di citare la solita frase del Presidente Kennedy. Ma la cultura del sospetto non cambia, ed è una condizione del tutto simile a quella italiana. David Cordova, dottore di ricerca in diritto costituzionale e managing partner di Vinces consultancy, società specializzata in public affairs, definisce la proposta “un passo in una nuova direzione, per avvicinare il Congresso e il Senato ai cittadini e uno strumento per porre fine ai favoritismi.”
Secondo i dati recentemente pubblicati dall’APRI, l’associazione dei professionisti di public affairs spagnoli, la maggior parte delle società lavora con consulenti specializzati e l’88% ripeterebbe le strategie definite con l'assistenza di risorse esterne. Emerge inoltre che i lobbisti che lavorano per le imprese progettino le relazioni istituzionali per essere più incisive al crescere dell’ambito geografico, con Bruxelles al suo apice; al contrario, gli intervistati provenienti dal mondo associativo concentrano la loro azione nell’area nazionale.
Il portavoce del Partito Popolare al Congresso, Rafael Hernando, ha dichiarato che lo scopo della proposta è “fornire una definizione chiara dei gruppi di interesse e un registro in cui i gruppi di interesse possano iscriversi”. La modifica legislativa stabilisce che “le interazioni degli organi pubblici con le imprese, le associazioni, le ONG, i think tank, etc. sono legittime e necessarie per la qualità della democrazia, perché forniscono prospettive, punti di vista, opinioni e criteri che sarebbero altrimenti difficili da recepire per il legislatore.” Il prof. Cordova sottolinea come questa clausola chiarisca in modo definitivo che non solo il lavoro delle lobby è del tutto lecito, ma anche estremamente importante per la qualità delle regole.
La creazione di un registro dei lobbisti sta diventando prassi comune in molti stati europei; la proposta spagnola si distingue perché prevede la pubblicazione di tutti i documenti analizzati dalle parti durante gli incontri, nell’ottica di un’amministrazione veramente aperta al cittadino e di responsabilizzazione della politica. Il testo prevede inoltre di sanzionare i gruppi che non dovessero rispettare le disposizioni del registro proibendo l’accesso alle sedi istituzionali per un periodo di tempo proporzionale all’entità dell’infrazione commessa. Il garante per l’implementazione della normativa sarà l’ufficio di presidenza della Camera con la collaborazione della segreteria generale, prospettando dunque un modello molto simile a quello già adottato dal Parlamento Europeo: dal 2008 circa 9.200 entità si sono iscritte al registro dei gruppi di interesse, nonostante la legge non lo preveda come obbligatorio.
Una proposta del tutto simile alla nuova regolamentazione di Montecitorio, che sarà necessariamente in fase di rodaggio per i prossimi mesi e che già suscita dibattiti e dubbi. Ma è, in ogni caso, un primo passo molto incoraggiante verso l'accettazione culturale del ruolo dei lobbisti.
(di Francesco Angelone) Avevamo già parlato dell’idea di rafforzare l’attuale Registro per la Trasparenza in vigore per Parlamento Europeo e Commissione dal 2011 rendendo obbligatoria l’iscrizione per aver accesso a deputati e funzionari di alto livello e di estenderlo anche al Consiglio. Questo tentativo, però, pare avanzare con difficoltà secondo le indiscrezioni raccolte da POLITICO Europe. Alcuni ufficiali legali del Consiglio hanno espresso dei dubbi circa la legittimità di utilizzare gli accordi inter-istituzionali per regolare il rapporto tra le istituzioni UE e il mondo esterno. Tale strumento legislativo, infatti, nasce con l’intenzione di disciplinare il rapporto tra le istituzioni dell’Unione.
Ma non è solo questo l’elemento problematico. Si teme, infatti, che scaturendo esclusivamente dei titoli preferenziali nell’accesso alle istituzioni UE in seguito all’iscrizione al Registro, la obbligatorietà di questo sia meramente nominale. Altro dilemma riguarda la legittimità o meno della possibilità di estendere l’iscrizione al Registro anche alle varie rappresentanze nazionali presso l’UE considerando che questo potrebbe cozzare con le varie discipline nazionali. Insomma, maggiore chiarezza è ritenuta necessaria in vista dell’avvio dei negoziati.
A condurre i negoziati in nome del Parlamento sarà la Presidente della commissione affari costituzionali, l’onorevole polacca del PPE Danuta Hubner. La stessa Hubner, che è solita pubblicare online tutti gli incontri avuti con lobbisti, ha sottolineato la delicatezza della definizione di lobbying contenuta nella proposta di modifica del Registro attualmente in vigore (promuovere determinati interessi interagendo con una delle tre istituzioni firmatarie, i loro membri o funzionari, con l'obiettivo di influenzare…). Abbiamo evidenziato in passato come questa definizione escluda una serie di attività di back-office o che comunque non si sostanziano in interazioni dirette con i funzionari UE. La conseguenza di ciò è presto detta: il vulnus normativo incoraggerebbe a nascondere la reale entità delle attività di lobbying.
Cosa ne pensano gli operatori del settore, cioè i lobbisti? Da anni molti sostengono la necessità di rinforzare il Registro e di non avere nulla da nascondere. A Politico, il direttore (Vincent Navez) dello European Chemical Industry Council ha confermato la necessità di alzare il più in alto possibile gli standard etici e il Presidente (Karl Isaksson) della European Public Affairs Consultancies’ Association ha invitato ad andare oltre, estendendo a tutti i componenti lo staff delle istituzioni UE l’obbligo di incontrare solo lobbisti registrati. Non mancano opinioni negative come quella del DG di BusinessEurope Markus Breyer che teme gli eccessivi aggravi di incombenze burocratiche.
Problema ulteriore e non di poco conto è sollevato da Daniel Freund di Transparency International secondo cui sarebbe utile avere un Registro europeo che copra tutto, ovvero che non costringa i lobbisti a siglare un registro per l’UE e ogni registro nazionale in ciascun Paese membro dell’Unione. L’Irlanda, infatti, ha approvato nel 2015 un registro che disciplina sia gli incontri con i politici nazionali che quelli con gli eurodeputati, creando così una parziale ed inutile sovrapposizione con il Registro in vigore dal 2011.
La strada per il Registro fortemente voluto dal Commissario Timmermans non è, quindi, così in discesa come sembrava.
(Paolo Pugliese) Il 2016 è stato un anno di grande crescita per moltissime startup e società innovative che si affacciano sempre di più ad un mercato sempre più globale. L'espansione delle proprie quote di mercato a livello internazionale, però, spesso viene accompagnata da una crescente difficoltà delle imprese a interfacciarsi con i legislatori, causando inefficienze e danni d'immagine di enorme portata.
Possiamo quindi aspettarci un aumento dell'attività di relazioni istituzionali da parte delle startup nel 2017, fino al punto di considerare il lobbying una competenza fondamentale per imprenditori e società di venture capital. La professoressa Elizabeth Pollman, esperta di business law e startup della Loyola Law School1, ritiene che questo mutamento sia dovuto a due distinti fattori: in primis le startup non sono più limitate e “libere” nel cyberspazio, come poteva esserlo Google durante gli anni '90, ma svolgono attività sempre più connesse alle nostre vite quotidiane, come nel caso di Uber o Airbnb, che fin dalla loro nascita si sono dovute confrontare con realtà produttive già esistenti e fortemente regolamentate. Le nuove imprese sperano di modificare lo status quo legale penetrando a fondo nella nostra quotidianità, rendendo quindi impossibile per i legislatori di tutto il mondo ignorarne il potenziale di sviluppo: cambiare la legislazione vigente è una parte fondamentale del business plan di queste società.
D'altro canto le recenti battaglie intentate da Google con la FCC (Federal Communications Commission, l'autorità indipendente americana in tema di telecomunicazioni) ad esempio nell'ambito della net neutrality dimostrano come i giganti tech siano sempre più consapevoli dell'influenza che possono esercitare sui regolatori, con l'appoggio di community che contano milioni di partecipanti e dei massimi esperti di policymaking, che apportano competenze e network professionali di enorme valore. L'approccio ai legislatori dell'UE, però, risulta differente: le startup americane che escono dalla Silicon Valley per affacciarsi al Vecchio Continente affrontano un quadro normativo più complesso e a volte l'ostilità dei partner, come si nota dalle violente proteste contro Uber in Francia e Airbnb in Germania e Olanda.
Le giovani imprese europee, invece, non stanno ancora investendo molto nelle relazioni istituzionali: le dimensioni ancora ridotte, almeno rispetto alle controparti USA, incanalano le attività aziendali verso il raggiungimento di una soglia quantitativa di profitto prima di effettuare investimenti in public policies; non è da escludere, inoltre, che le stesse startup ritengano di non essere in grado di influenzare il dibattito pubblico o di poterne fare a meno per il prossimo futuro. Preme sottolineare però come la creazione di un ecosistema giuridico-regolatorio favorevole diventi una priorità assoluta in una fase successiva dello sviluppo imprenditoriale, al momento dell'inevitabile confronto con i legislatori comunitari.
Alcuni autori hanno collegato la mancanza di attenzione verso l'attività di rappresentanza di interessi con le difficoltà legate alla creazione del Digital Single Market, vero e proprio mercato unico tramite il quale si possa procedere all'armonizzazione delle regole dei vari stati membri dell'Unione in ambito digitale. Nonostante il DSM fosse stato inserito dalla Commissione Juncker tra le proprie 10 priorità più stringenti, i risultati sono ancora parziali e tale circostanza sicuramente sta ponendo dei limiti alla crescita del settore da questo lato dell'Oceano.
In questo caso emergono due approcci completamente differenti rispetto all'attività di compliance legislativa: quello americano, alimentato dalla cultura “disruptive” di rendite e posizioni di mercato stabili della Silicon Valley, che punta all'aggiramento della regolamentazione o alla sua modifica strutturale sulla base del presupposto che la legge sarà sempre inevitabilmente in ritardo rispetto alla realtà fattuale, e quello europeo, che invece mira ad un'espansione lenta dell'impresa, magari Stato per Stato, affrontando singolarmente le singole sfide regolatorie quando dovessero emergere.
Risulta evidente come i vantaggi del primo approccio, fatto di proattività e confronto continuo, vadano valutati anche alla luce dei danni reputazionali che tale metodologia potrebbe comportare di fronte ad un pubblico straniero, arrivando a causare a volte l'esplicita avversione dei settori produttivi maggiormente colpiti dall'innovazione americana e che invece le imprese europee sembrano tutelare maggiormente.
Nota: 1 Di grande ispirazione per la stesura del presente lavoro è stato l'articolo The Rise of Regulatory Affairs in Innovative Startups, consultabile al seguente link https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2880818, di prossima pubblicazione sul “Handbook of law and enterpreunership in the United States”.
(Francesco Angelone) Prosegue decisa l’attività legislativa del Parlamento Europeo in direzione di una maggiore trasparenza. Questa volta, si tratta di modifiche di natura generale al regolamento del Parlamento stesso, approvate nella seduta plenaria di Strasburgo di martedì 13 dicembre e che hanno proprio l’obiettivo di rendere più trasparente ed efficiente l’assemblea legislativa europea.
Per quanto riguarda l’efficienza, la relazione presentata dal britannico Richard Corbett (S&D) prevede alcune misure di razionalizzazione dei lavori parlamentari. Tra queste, limiti più stringenti al diritto dei singoli deputati di presentare interrogazioni scritte (20 per un periodo continuativo di 3 mesi), proposte di risoluzione (1 al mese) e a quello dei gruppi di richiedere votazioni per appello nominale in plenaria (100 ogni tornata). Importante, poi, la riduzione a 3 delle soglie vigenti per le diverse procedure in Parlamento. Saranno in vigore dal 16 gennaio anche nuove norme circa la disciplina della composizione delle commissioni parlamentari. In conformità con l’accordo inter-istituzionale Legiferare meglio, inoltre, viene ridefinito il ruolo del Presidente del Parlamento nel dialogo con Consiglio e Commissione.
Le novità più interessanti del pacchetto di revisione del Regolamento, tuttavia, riguardando la trasparenza nelle attività del Parlamento ed in particolare il codice di condotta per i deputati. Le dichiarazioni di interessi economici e finanziari degli eurodeputati dovranno essere ancora più dettagliate, regolarmente aggiornate e verificate. Il nuovo articolo 6 sugli ex deputati aggiunge alla prescrizione vigente, per cui gli stessi non possono beneficiare delle agevolazioni spettanti loro qualora impegnati in attività di lobbying a titolo professionale o di rappresentanza direttamente connesse al processo decisionale dell'Unione, quella per cui di tali attività vada obbligatoriamente informato il Parlamento Europeo. Ai deputati in carica, invece, è fatto divieto espresso di essere coinvolti in attività di lobbying in nome della loro indipendenza. Menzione speciale, per così dire, è quella approntata dal nuovo articolo 11 circa il ritiro del pass ai lobbisti registrati in caso di infrazione delle regole di condotta e circa la raccomandazione ai deputati di incontrare solo lobbisti registrati.
La proposta è approdata in plenaria dopo la presentazione di 461 emendamenti, il passaggio presso la commissione per i bilanci (BUDG), la commissione per il controllo dei bilanci (CONT), la commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentari (ENVI), la commissione giuridica (JURI) e il voto definitivo della commissione affari costituzionali (AFCO) competente per merito.
Nella sostanza, la revisione del Regolamento del Parlamento non contiene novità di particolare rilevanza per quanto concerne le relazioni tra legislatore europeo e rappresentanti di interessi. Benché, tuttavia, tale disciplina sia di spettanza del Registro per la trasparenza, l’iniziativa del Parlamento di inserire nel proprio Regolamento alcuni principi e alcuni dispositivi per un rapporto più trasparente tra istituzioni e istanze esterne è senz’altro degna di nota specialmente se si prende in considerazione la realtà italiana. Il topolino partorito martedì dalla montagna a Strasburgo è pur sempre meglio della sterilità di Roma in materia.
Riprendiamo l'articolo di Gaia Giorgio Fedi su Pagina 99
Google e Facebook alla guerra delle lobby. Lobbying. Budget in crescita, incontri riservati, assunzioni eccellenti. Alle prese con l'offensiva di Vestager, i big del web intensificano il pressing su Bruxelles. Lo scontro coinvolge l'alleanza tra telecom e editori tedeschi e tech Usa, dice un lobbista
BRUXELLES. Il prossimo fronte della battaglia tra la Commissione europea e i colossi dell'economia digitale si giocherà sugli algoritmi. Bruxelles si appresta ad avviare un'indagine sui procedimenti che presiedono al modo in cui vengono mostrati post, notizie e risultati delle ricerche che potrebbe impensierire parecchio Google, Amazon e Facebook. Ma non si tratta del solo grattacapo peri gruppi del settore, alle prese con un approccio più muscolare da parte della Ue in tema di regolamentazione, antitrust e tassazione. Con il termometro della tensione a Bruxelles in salita, le big del digitale hanno reagito rafforzando le attività di lobby, come mostrano i dati sui budget e staff in crescita perle attività di press io ne, indicati volontariamente sul Registro di trasparenza Ue. Un metodo lecito ma controverso è reclutare ex funzionari degli organi da influenzare.
«Il rafforzamento delle attività di lobby delle società digital a Bruxelles è in atto da qualche anno e si spiega con l'esistenza di alcuni fattori, in primis l'ambizioso programma della Commissione sull'economia digitale, che per i gruppi del settore ha un impatto enorme», spiega Alessia Mosca, europarlamentare del Pd e membro della commissione sul commercio internazionale. La Ue punta a regolamentare diversi aspetti, dalla privacy al copyright, di un comparto che finora ha vissuto e prosperato in - e grazie a - un contesto di relativa anarchia. Tra il 2012 e il 2013, quando a Bruxelles si preparava la riforma sulla protezione dei dati personali, i gruppi tecnologici hanno intensificato le attività di lobby in un affondo senza precedenti, affiancate e sostenute da associazioni di categoria, organizzazioni come l'American Chamber of Commerce e dalla stessa amministrazione Obama. Più di recente, altri dossier caldi hanno suggerito una maggiore presenza nella capitale Ue, «come la trattativa sul Ttip e le possibili ricadute sul business di queste società, che le ha spinte a monitorare il rafforzamento della relazione transatlantica, e il maggiore impegno della Commissione sul fronte della tassazione, che è il grosso nervo scoperto per molti dei grandi gruppi del digital», aggiunge Mosca. La decisione dell'Antitrust Ue di imporre a Apple il pagamento di 13 miliardi di imposte pregresse in Irlanda è un monito pesante per le multinazionali del settore. Soprattutto per Amazon, sotto esame per il trattamento fiscale in Lussemburgo.
Washington vs Berlino
Alcuni lobbisti di lungo corso che hanno parlato a pagina99 sotto anonimato ritengono che l'irrigidimento comunitario abbia un preciso risvolto politico. «Quella che si gioca a Bruxelles è in realtà una partita tra Washington e Berlino», afferma un esperto di public affairs. «Le multinazionali tech americane, e in particolare quelle californiane, si trovano a fronteggiare un'alleanza di fatto tra le vecchie telecom e gli editori, soprattutto tedeschi, per la distribuzione dei contenuti», aggiunge un altro lobbista, aggiungendo che due anni fa la nomina a commissario per l'Economia e la società digitali del tedesco Günther Oettinger - in passato molto critico verso Google - era stata interpretata nell'ambiente come il segnale decisivo dell'offensiva Ue contro i colossi tecnologici. Non a caso, nel mirino delle istituzioni c'è soprattutto Mountain View, sotto scrutinio dell'antitrust della Commissione su tre diversi fronti - per il sospetto di aver sistematicamente favorito i propri servizi di acquisto comparativo nei risultati delle ricerche, un possibile abuso di posizione dominante nella pubblicità online e possibili danni alla concorrenza sulla gestione della compatibilità del sistema Android.
Sale la spesa per il lobbying
Google ha triplicato il budget per lobbying dal 2013 al 2014, e nel 2015 lo ha incrementato ancora di circa il 20% a 4,25-4,4.5 milioni di euro; nell'ultimo anno ha anche ampliato il team di lobbisti (da 9 a 14 persone). «I politici europei hanno molte domande per Google e i nostri team si impegnano a rispondere, per favorire la comprensione del nostro business», commenta un portavoce in relazione all'impegno del gruppo. Anche Microsoft - da anni molto attiva a Bruxelles, dove in passato è stata duramente colpita dall'antitrust Ue - ha speso la stessa cifra di Google (in lieve calo dal 2014). «A Bruxelles vengono definite importanti politiche per l'Unione, per questo è stata e resta importante perla nostra società», commenta un portavoce della società di Redmond. «Abbiamo iniziato a investire in Europa fin dal 1982, quando avevamo 128 impiegati a livello globale. Oggi solo qui ne abbiamo 25 mila». Hanno aumentato le spese per attività d'influenza anche Facebook e Amazon, mentre il budget di Uber, reduce da una serie di sentenze sfavorevoli nei tribunali di tutta Europa, è più che quadruplicato. Apple è invece un caso particolare: ha aumentato le risorse a 800-899 mila euro ma si è distinta per un profilo straordinariamente basso - ha un team di cinque persone impegnate solo part time ed è poco presente nelle attività di lobby - che secondo alcuni ha contribuito alla disfatta sul dossier fiscale. Quando si è trattato di discutere il caso, è stato il ceo Tim Cook a incontrare Margarethe Vestager, ma con un atteggiamento non particolarmente costruttivo, secondo Politico Europe.
Il lavoro dei lobbisti
«Anche gli incontri con alti funzionari in Commissione sono un buon indicatore per capire quali siano i gruppi più influenti e i temi caldi del momento», spiega Daniel Freund, capo della divisione Eu Integrity dell'organizzazione Transparency International. «Digital single market e digital economy sono le aree che annoverano il maggior numero di meeting con lobbisti, circa un quinto del totale. E la società prima in classifica per numero di incontri, ben 117 (di cui molti con il commissario Oettinger, ndr), è Google». Anche Microsoft è molto attiva, con 59 riunioni, seguita da Facebook (46). «Ma il maggiore salto lo ha fatto Uber (42 incontri), sul mercato da appena un paio d'anni e oggi al 13esimo posto in classifica», osserva Freund. Va considerato che i numeri citati riguardano solo i funzionari di rango più alto. «Molte riunioni avvengono con esponenti di livello inferiore, che non sono tenuti a tenere un registro degli incontri e possono incontrare lobbisti non registrati», puntualizza Freund.
Dalle istituzioni all'azienda
Un metodo lecito ma controverso per fare lobby è affidarsi alle revolving door, cioè reclutare ex funzionari delle istituzioni da influenzare. Un sistema molto apprezzato da Google, che dal 2005 avrebbe assunto in vari uffici almeno 65 funzionari di governo in tutto il territorio Ue, secondo Google Transparency Project. Tra i lobbisti di stanza a Bruxelles spicca il caso di Tobias McKenney, Senior European Intellectual Property Policy Manager, che prima di approdare a Google si occupava di copyright per la Commissione; a un livello più basso, provengono dal Parlamento Ue Clara Sommier, Mark Van der Ham e Georgios Mavros. Anche Apple ha utilizzato le porte girevoli, strappando l'attuale responsabile delle relazioni con la Ue, Per Hellstrom, alla Commissione europea, dove aveva lavorato per 16 anni con cariche importanti (capo del team Competition prima e Fusioni poi) e aveva giocato un ruolo di peso nell'epocale indagine antitrust contro Microsoft, conclusa nel 2004 con l'imposizione di misure correttive e un'ammenda di 497 milioni di euro. Anche l'ex capo dell'ufficio di public affairs di Facebook, Erika Mann, ha servito per un mandato come europarlamentare. Mentre Fabian Ladda, lobbista di Uber, era stato a capo dell'ufficio dell'europarlamentare tedesco Elmar Brok, uomo della cancelliera tedesca Angela Merkel molto vicino a Martin Selmayr, il potente capo di gabinetto del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker.
L'attività di policy making
A Bruxelles il potere decisionale è soprattutto nelle mani del Consiglio dell'Unione europea - l'organo che adotta gli atti normativi della Ue e ne coordina le politiche, sul quale l'esercizio di influenzava fatto a monte, sui singoli Paesi-e della Commissione. La lobby lavora a vari livelli, su vari ambiti e con vari strumenti. L'attività di Google è la più organizzata ed ecumenica: finanzia think tank (sui quali è attiva anche Microsoft) e ricerche universitarie, svolge attività con team dedicati su Parlamento, Commissione e Consiglio ma punta anche al mondo delle imprese. Per esercitare influenza su alcuni dossier caldi a Bruxelles, nel 2014 aveva sollecitato alcuni membri del Congresso Usa a inviare lettere a figure chiave del Parlamento Ue. Per il resto, nel settore si usa la classica cassetta degli attrezzi del lobbista: monitoraggio dei lavori regolatori, meeting con i decision maker, presentazione di emendamenti e paper sulle policy, che a volte riescono a confluire nei testi legislativi (nel 2013 alcuni emendamenti parlamentari alla riforma sui dati personali ricalcavano pedissequamente i passaggi di paper del settore). Per le attività di lobby diretta, soprattutto sui dossier più spinosi, si mandano avanti le agenzie di consulenza esterne, le associazioni di categoria o gli studi legali. E si fa molta lobby indiretta, attraverso campagne di comunicazione - che puntano sulla forza dei prodotti, sull'innovazione e sulla capacità di creare posti di lavoro - ed eventi: seminari, conferenze, incontri con imprese e associazioni, feste. «Una delle più attive è Google, ma ultimamente si è notato un nuovo impegno su questo fronte da parte di Amazon, in precedenza poco attiva, che oggi con Amazon Academy organizza conferenze, micro-conferenze, seminari, incontri con le aziende», segnala Alessia Mosca. «Gli eventi sono uno strumento usato in tutti i settori, ma le compagnie tech fanno anche qualcosa in più: organizzano workshop e training all'interno delle istituzioni, per far sentire i decisori a loro agio nella relazione con la società. L'intento è di conquistare non solo le loro menti, ma anche i loro cuori».
(Francesco Angelone) La proposta presentata dalla Commissione europea sulla revisione del Registro per la trasparenza sta suscitando, prevedibilmente, un acceso dibattito.
Pare infatti che essa circoscriva l’attività di lobbying alle “interazioni” con policy-maker e decisori e, per questo, sia da considerarsi troppo ambigua e timida. Se è vero che la definizione di lobbying resterebbe praticamente quella attualmente in vigore, cioè la promozione di interessi presso le istituzioni UE con l’obiettivo di influenzare le politiche e la legislazione, pare che l’iscrizione al registro diventi obbligatoria solo se tale promozione si sostanzi in interazioni con i decisori. Questo emerge da una lettura restrittiva dell’articolo 5 della proposta di Accordo interistituzionale della Commissione che parla di accesso alle istituzioni, incontri, partecipazione alle consultazioni pubbliche e corrispondenza.
La conseguenza di tale lettura è piuttosto chiara. Resterebbero escluse da questa definizione le attività di ricerca, campagne media, l’organizzazione di eventi che, seppure non nella forma di interazioni dirette, hanno pur sempre l’obiettivo di influenzare il processo di formazione delle politiche in sede UE. Così, come ulteriore conseguenza, non vi sarebbe neanche la necessità di dichiarare i costi sostenuti per tali attività e il numero di persone impiegate nelle stesse.
Diversamente da quanto i maligni possano pensare, però, la questione preoccupa non solo chi reclama maggiore trasparenza nei processi legislativi ma le stesse società di lobbying, i cui clienti pagano sì per la cosiddetta fase di engagement con i decisori ma anche per tutta quella attività di back-office, di pianificazione e consulenza che i lobbisti mettono in campo. Un articolo di LobbyFacts mostra chiaramente questa situazione per cui le 20 più importanti società di lobbying operanti a Bruxelles hanno tenuto solo 203 incontri con alti funzionari della Commissione dal dicembre 2014, data in cui la Commissione ha cominciato a pubblicare gli incontri di Commissari, Direttori Generali e membri dei gabinetti con i lobbisti. Un dato anomalo se paragonato a quello di ONG o multinazionali come Google, che nello stesso periodo ha incontrato gli stessi interlocutori ben 117 volte.
Indicativo l’esempio di Fleishman-Hillard, la società di lobbying che dichiara i costi più elevati per le proprie attività (più di 6,25 milioni di Euro l’anno), che dispone di 48 pass per il Parlamento Europeo e impiega 26 lobbisti a tempo pieno. Pensare che tali costi corrispondano solo alle interazioni dirette con i legislatori di Bruxelles è alquanto irrealistico se considerato che questi sono solamente 15 in quasi due anni. Non meno significativo l’esempio di Burson-Marsteller che impiega 35 lobbisti a tempo pieno, dispone di 29 pass per il Parlamento, spende più di 5 milioni di Euro l’anno e in quasi due anni ha partecipato a solo 4 high-level meeting con la Commissione. Si potrà contestare, come fa LobbyFacts, che a questo tipo di incontri partecipino direttamente i clienti e che, invece, i lobbisti abbiano precedentemente preparato il campo con incontri di più basso livello. Tesi smentita, però, da un articolo di ALTER-EU (Alliance for Lobbying Transparency and Ethics Regulation). Insomma, è nell’attività dietro le quinte che le società di lobbying (e gli studi legali) spendono energia e risorse ed è soprattutto per queste che vengono pagate.
Sorge spontanea una domanda: quanta parte di queste spese dichiarate scomparirà dal Registro per la Trasparenza se le società di lobbying saranno obbligate a notificare solo i costi sostenuti per l’interazione diretta con funzionari e parlamentari? Presumendo che sia la gran parte degli stessi, i dubbi circa la validità della proposta di modifica del Registro avanzata dal Commissario Timmermans a fine settembre si fanno sempre più concreti.
(di Paolo Pugliese) Nel mondo dell'informazione mainstream le parole “lobbista” e “lobby” sono spesso visti come sinonimi di corruzione, scarsa trasparenza e nessun riguardo per null'altro che la crescita dell'azienda a cui si è collegati o del proprio conto in banca. Ma il lobbista non è sempre ed esclusivamente legato ad interessi economici. Sono nati negli Stati Uniti, nell’Unione Europea e in Italia alcuni esperimenti di “lobby (o forse, più propriamente, advocacy) dei cittadini”, il cui fattore comune è la rappresentazione di interessi generali della comunità di cittadini. Parliamo di iLobby, società operante negli Stati Uniti, l’associazione The Good Lobby con sede a Bruxelles e la nostrana Riparte il Futuro.
iLobby, grassroots lobbying 2.0
Nell'ambito del sistema politico americano, in cui le grandi imprese hanno un enorme peso nel processo legislativo, iLobby si rivolge al pubblico di massa, permettendo a chiunque di fornire il proprio contributo alla modifica e al miglioramento del corpus normativo. Il grassroots lobbying, diversamente dall'attività di lobby tradizionale-diretta in cui il consulente si interfaccia personalmente con i decisori, si propone di influenzare indirettamente il dibattito parlamentare, accrescendo la consapevolezza del pubblico di massa relativamente ad un tema e invitando i cittadini a riportare la propria opinione agli organi decisionali attraverso il tramite dei rappresentanti di interessi e di personaggi pubblici.
Queste attività, però, non esauriscono lo spettro di azioni intraprese da società come iLobby che, nelle parole del suo fondatore John Thibault, applicano altresì strumenti di microlobby: la piattaforma, infatti, indicizza le tematiche del dibattito parlamentare americano con gli stessi tag utilizzati dal sito del Congresso e le incrocia con l'elenco dei rappresentanti, permettendo ai propri utenti di svolgere ricerche per collegarsi in prima persona ai parlamentari (nonché ad altri cittadini) più sensibili alle proprie istanze e di creare dei gruppi di discussione su disegni di legge o macro-aree di interesse. All'interno di questi gruppi tutti i membri hanno la possibilità di proporre modifiche e di esprimere i propri dubbi approvando o meno le proposte della comunità, accrescendo ulteriormente la sensibilità sia del pubblico sia dei decisori precedentemente contattati.
Se la propria causa riuscisse a coagulare attorno a sé sempre più persone interessate la piattaforma offre la possibilità di assumere lobbisti professionisti ed esperti del settore, così da usufruire anche degli strumenti più tradizionali della rappresentanza suddividendo le spese necessarie tra tutti i sostenitori del tema che vogliano intervenire personalmente con un contributo economico.
Le preoccupazioni e le rimostranze dei cittadini in questo modo possono rientrare nell'agenda parlamentare con forza, creando un interessante momento di engagement diretto degli elettori nel processo legislativo e dei rappresentanti nei confronti delle loro constituencies, in un momento in cui da entrambi i lati dell'oceano si verifica un sempre maggiore scollamento dei cittadini dalla cosa pubblica, che sicuramente non giova alle istituzioni democratiche.
The Good Lobby: l’arma in più degli eurocittadini
The Good Lobby, invece, si propone di reclutare volontari e supporter e di effettuare il perfetto abbinamento tra le competenze messe a disposizione, le ONG che lavorano sul tema selezionato (tra i loro clienti spiccano Politico e la Wikimedia Foundation) e i professionisti della legislazione nell'ambito del framework normativo europeo.
Tramite questo procedimento la “quota di voce” di enti come le ONG e le associazioni dei consumatori si amplia notevolmente, potendo raggiungere ed influenzare un pubblico sempre maggiore, oltre al già citato risultato di riavvicinare cittadini e istituzioni che, specialmente nel caso di Bruxelles, vengono percepite come lontane, eccessivamente burocratizzate e indifferenti.
Riparte il Futuro, la lotta dei cittadini per la trasparenza
Infine Riparte il Futuro, che conta circa 1 milione di iscritti, si è prefissata un obiettivo ambizioso quanto arduo: l'eliminazione della corruzione dal nostro sistema politico e decisionale. L'impatto effettivo dei fenomeni corruttivi nel nostro sistema Paese è stato oggetto di diversi studi, tra cui quello di Transparency International, che pone l'Italia al 61esimo posto su 168 Stati oggetto di analisi in materia di corruzione percepita, penultimo in Europa: nonostante un quadro non incoraggiante Riparte il Futuro ha ottenuto risultati di prima importanza come la riforma dell'art. 416-ter c.p. riguardante il voto di scambio politico-mafioso e l'introduzione di una normativa che disciplini l'accesso ai dati in possesso della Pubblica Amministrazione.
La metodologia scelta differisce in parte dalle altre sopracitate: infatti si chiede ai cittadini di firmare petizioni e partecipare a video che illustrino le motivazioni e le aspirazioni delle proposte, anche con il tramite di opinion leader, esperti del settore, giornalisti e decisori pubblici. Diversi passi in più rispetto all’opera, lodevole ma parziale, di piattaforme come Change.org che si occupano di raccogliere firme “virtuali” per sottoporre richieste o petizioni al governo.
Tra i risultati principali di RIF, da rilevare la creazione di piattaforme attraverso le quali i candidati alle elezioni (nazionali e locali) forniscono agli elettori informazioni essenziali quali il loro cv dettagliato, una dichiarazione sui potenziali conflitti d'interesse, lo status giudiziario e la situazione patrimoniale e reddituale. E anche l'abolizione dei vitalizi per i parlamentari condannati in via definitiva per mafia e corruzione. Molto importante è anche il coinvolgimento della base di cittadini, attraverso una newsletter dettagliata e sottoscritta da centinaia di migliaia di persone, oltre che la condivisione, attraverso i social network, di contenuti, video, infografiche.
Indubbiamente si tratta di esperimenti di enorme importanza e valore, fondamentali per la ripresa di un dialogo sano tra governanti e governati, anche al di fuori di logiche partitiche e particolari, con il fine della mobilitazione pubblica per il miglioramento del paese, che è l'essenza stessa della politica.
(Francesco Angelone) Le iniziative per la regolamentazione del lobbying stanno coinvolgendo una lista sempre più lunga di assemblee legislative. Non si sottrae a questa tendenza l’Assemblea nazionale per il Galles.
Secondo quanto riportato dal sito dell’APPC (Association of Professional Political Consultants) lo Standards Commissioner, organismo indipendente incaricato di valutare i codici di condotta dei parlamentari del Galles, sta intraprendendo una serie di visite in tutto il Regno Unito per raccogliere testimonianze su come i nuovi sistemi di registrazione per le attività di lobbying stiano funzionando. I risultati saranno presentati nel corso del prossimo mese e successivamente sarà avviata una consultazione pubblica. Nel frattempo, nel pomeriggio del19 ottobre in una sessione plenaria del Senedd, il Parlamento gallese, il deputato del Plaid Cymru (Partito del Galles) Neil McEvoy ha introdotto un dibattito sul lobbying in Galles. Questa attenzione sul ruolo dei lobbisti professionisti dovrebbe essere ben accolta, in quanto è un opportunità per il settore per garantire che i piani di regolamentazione del lobbying in Galles seguano la lezione dei procedimenti e del registro già operanti a Westminster.
Il registro
L’APPC ha costantemente sostenuto che con qualsiasi nuovo registro ci debba essere una parità di condizioni valide per tutti i lobbisti - sia quelli che operano in-house che all'interno delle agenzie specializzate in attività di lobbying. Una ricerca condotta dall’APPC nel Parlamento di Westminster ha dimostrato che la stragrande maggioranza degli incontri ministeriali sono con rappresentanti in-house e non con lobbisti per conto terzi. È fondamentale, quindi, che nel garantire il necessario accesso alle informazioni, le società non debbano affrontare obblighi di comunicazione eccessivamente gravosi per rispettare livelli di trasparenza potenzialmente dannosi. C'è, poi, la questione dei costi. A Westminster i lobbisti devono pagare una quota di iscrizione annuale di 1000 sterline, mentre in Scozia, dove è previsto che il registro cominci ad operare dall’inizio del 2017, tali costi non sono previsti. Il Registro scozzese è progettato per coprire tutti i lobbisti professionisti del Regno Unito – sia che lavorino per un ente di beneficenza, un'impresa o una società di public affairs. L’imposizione di una quota di iscrizione in un sistema che copra tutti i lobbisti sarebbe difficile da giustificare - in particolare per le piccole associazioni del terzo settore. Infine, vista l’adozione per legge di un registro presso il Parlamento scozzese e quello di Westminster, i policy-makers di tutte le nazioni del Regno Unito dovranno pensare a come rendere possibile il rispetto di tali diversi registri.
L’opinione dei lobbisti
L’auspicio dell’associazione dei Political Consultants è che le discussioni in corso presso il Parlamento gallese circa l’attività di lobbying riflettano su queste esperienze in modo che eventuali futuri progetti di regolamentazione in Galles affrontino i problemi e gli errori che si sono verificati nella regolazione di altre istituzioni del Regno Unito, e che ogni iniziativa portata avanti per migliorare la trasparenza sia pratica ed equa.
BRUXELLES Le imprese temono la proposta del registro obbligatorio, misteriosi rinvii di provvedimenti già pronti. Una tregua per l'accordo Ppe-Pse sulla riconferma di Schulz. Il rapporto Giegold sulle nuove regole di trasparenza doveva essere votato a settembre ma è sparito senza spiegazioni
L’ultimo caso di rapporti incestuosi tra affari e decisioni politiche è quello di Neelie Kroes: l'ex commissaria olandese alla Concorrenza ha accettato senza imbarazzi offerte di lavoro da aziende molto interessate al processo decisionale a Bruxelles, come Uber, Salesforce e Bank of America, Merryll Lynch. Ma si è dovuta scusare quando il consorzio di giornalismo investigativo Icij ha rivelato una sua società offshore - nei Bahamas Papers - mai comunicata alla Commissione di cui faceva parte, violando le regole sulla trasparenza. Poi c'è l'ex presidente della Commissione Ue, il portoghese José Manuel Barroso: appena scaduti i 18 mesi di attesa obbligata, è diventato presidente di Goldman Sachs International, con i cui vertici aveva contatti già dal 2013, incontri segreti emersi solo grazie alla richiesta di accesso agli atti di un giornale portoghese. Casi come questi, e l'indignazione che ne è derivata, hanno creato a Bruxelles il contesto politico giusto per una stretta sulle lobby e per mettere un argine all'influenza del mondo del business sulle decisioni tecniche e politiche. O almeno così sembrava.
Dal 2011, quindi già dai tempi di Barroso, la Commissione e il Parlamento europeo hanno un cosiddetto "accordo interistituzionale" per un registro dei lobbisti: oggi conta 9800 iscritti che ne accettano il codice di condotta, ma è un vincolo blando perché la registrazione è volontaria. Anche se dal 25 novembre 2014 la Commissione ha annunciato di non voler più incontrare lobbisti non registrati. Il 28 settembre scorso, anche come reazione alle polemiche su Barroso, il primo vicepresidente della Commissione Frans Timmermans ha proposto un registro obbligatorio, da estendere a Parlamento e Consiglio europeo (l'istituzione che riunisce i governi dei Paesi membri). In parallelo si muove il Parlamento europeo: nel novembre del 2015, come riporta il Fatto Quotidiano, il deputato dei Verdi Sven Giegold ha presentato il rapporto "Trasparenza, responsabilità e integrità nelle istituzioni dell'Ue", cioè un atto di indirizzo che non ha valore legislativo. Il rapporto Giegold, frutto di un lungo lavoro e di decine di incontri con tutti i livelli del Parlamento coinvolti nelle procedure toccate, propone di introdurre cambiamenti molto drastici. Il principale: rendere evidente "l'impronta legislativa" dei provvedimenti, cioè le basi sulle quali i parlamentari arrivano a prendere una posizione, gli incontri con i lobbisti che hanno avuto durante i negoziati su un certo dossier e tutti i documenti ricevuti. "Ci sono parlamentari che non fanno altro che copiare e incollare nei propri emendamenti le proposte delle lobby, tanto che non di rado si trovano più emendamenti perfettamente uguali depositati autonomamente da parlamentari diversi", spiega al Fatto Fabio Massimo Castaldo, eurodeputato del Movimento 5 Stelle che segue il dossier in commissione Affari costituzionali. Il passo preliminare è passare dall'attuale registro volontario dei lobbisti a uno obbligatorio che definisca in modo molto stringente chi sono i "portatori di interessi" , come si dice in gergo. Chi vuole entrare in Parlamento e non è un lobbista dichiarato, firma una dichiarazione. Se, dopo controlli a campione, si rivela falsa, sono guai. La Proposta Giegold impone poi agli studi legali di dichiarare quali sono i clienti nell'interesse di cui si muovono, cancellando ogni opacità. E chiede per i parlamentari e i membri della Commissione l'estensione da 18 mesi a tre anni del periodo minimo di attesa tra la fine dell'incarico pubblico e l'inizio di un contratto nel settore privato. Misure che piacciono a molti, in Parlamento, ma non a tutti.
Il 12 settembre il rapporto Giegold doveva essere votato in commissione Affari costituzionali, ma non è successo: rinviato, senza spiegazioni e senza una nuova data. È uno slittamento che può avere conseguenze: mentre il rapporto Giegold si arena, prosegue il suo percorso quello di cui è relatore Richard Corbett, dei socialisti, per la riforma dei regolamenti parlamentari. È chiaro che se il rapporto Giegold fosse già stato votato, poi la modifica dei regolamenti avrebbe potuto inglobare tutte le novità sulle lobby. Così, invece, la riforma delle lobby si sovrapporrà a quella dei regolamenti: nei migliori dei casi ci saranno polemiche e rallentamenti, nel peggiore verrà immolata per non bloccare tutto. Se il rapporto Giegold supera lo scoglio del voto in commissione Affari costituzionali poi può approdare alla plenaria, dove si può chiedere il voto palese. E a quel punto sarebbe difficile votare in modo esplicito a favore delle lobby. Ma il rapporto Giegold è sparito. "Il Ppe ha sempre spinto per misure soltanto volontarie e non giuridicamente vincolanti. Quando siamo arrivati a un compromesso e abbiamo individuato una possibile maggioranza, i socialisti di S&D hanno fatto capire che vista l'opposizione di Ppe e liberali era meglio non procedere subito", spiega Castaldo del M5S.
Una consonanza tra forze in teoria avversarie che, dicono nei corridoi dell'Europarlamento, avrebbe una spiegazione: a gennaio scade il mandato biennale di Martin Schulz, riconfermato alla presidenza del Parlamento dopo le elezioni del 2014. Schulz, socialista tedesco, si era candidato alla Commissione: sconfitto da Jean Claude Juncker (Ppe), nella logica di grande coalizione perenne, ha avuto un altro mandato biennale. E ora spera di proseguire, a gennaio 2017. E fare asse con il Ppe contro le nuove restrizioni alle lobby deve essergli sembrato un buon modo per dimostrare di essere ancora degno di fiducia.
I PROTAGONISTI
JOSÉ MANUEL BARROSO Ex presidente della Commissione, ora lavora per Goldman Sachs
NEELIE KROES Già commissaria alla Concorrenza, collabora con Uber
MARTIN SCHULZ Da presidente del Parlamento Ue, nel 2014 si è candidato alla presidenza della Commissione europeo in rappresentanza dei socialisti (Pse). Dopo la vittoria di Jean Claude Juncker (Ppe), negli accordi della grande coalizione europea è riuscito a ottenere altri due anni alla testa del Parlamento. Scade a gennaio e vuole riconferma.
Stefano Feltri - Il Fatto Quotidiano
Ristabilire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni europee è un’urgenza che la Commissione Europea guidata da Juncker pare percepire sin dal proprio insediamento ed una sfida che intende affrontare con decisione. Lo ha ribadito ieri 28 settembre il vice Presidente della Commissione Frans Timmermans presentando la proposta di accordo interistituzionale per la revisione del Registro per la Trasparenza delle organizzazioni e dei liberi professionisti impegnati nell'elaborazione e nell'attuazione delle politiche dell'Unione attualmente in vigore.
(Francesco Angelone) In questo contesto, nel maggio 2015 la Commissione ha varato la cosiddetta Better Regulation Agenda, un progetto di riforma della elaborazione delle politiche dell’UE in nome della trasparenza. In scia a questa iniziativa, il 1 marzo 2016 è stata lanciata, sotto la guida del primo Vice Presidente di Juncker e Commissario con delega (tra le altre) alle relazioni interistituzionali Timmermans, una consultazione pubblica trimestrale in vista di una modifica del Registro per la Trasparenza. Questo strumento, gestito congiuntamente dal Parlamento e dalla Commissione ormai dal 2011, venne istituito con l’intento di permettere la diffusione di informazioni riguardanti gli interessi perseguiti a Bruxelles, da chi e con quali dotazioni finanziarie nella convinzione che l’accessibilità di tali informazioni potesse impedire pressioni indebite. Le numerose risposte (1758) inviate dalle parti interessate hanno fornito indicazioni circa le debolezze del sistema attualmente in vigore e sul perimetro di quello futuro, tutte raccolte in un Report pubblicato in luglio.
Perché riformare il Registro?
È intenzione della Commissione estendere il Registro anche al Consiglio e fornire ai cittadini una visione ancora più ampia degli interessi rappresentati nel corso dell’intero iter legislativo. E se è vero che sotto la guida Juncker non è più possibile per i non iscritti al Registro incontrare membri della Commissione - e forse è anche per questa ragione che dal 31 ottobre 2014 al 1 marzo 2016 gli iscritti sono aumentati da 7020 a 9286 (oggi sono circa 9800) – il sistema presenta ancora delle lacune. La principale di queste è la non obbligatorietà dell’iscrizione al Registro da parte di tutti quei portatori di interesse indicati come “organizzazioni e professionisti implicati nelle attività politiche europee”, perché è l’attività dei soggetti a rilevare, non il loro status giuridico. Il Report contiene una lunga serie di indicazioni su come migliorare la categorizzazione dei soggetti iscritti nel Registro arricchendola di informazioni e su come rendere più chiare le prescrizioni del Codice di condotta.
A conclusione di questo procedimento di ascolto della società civile, la Commissione ha elaborato la propria proposta di accordo interistituzionale che verrà ora sottoposta al Parlamento e al Consiglio. Nelle parole di Timmermans la Commissione, che “ha già dato l’esempio” in materia di lobbying, subordinando gli incontri con i suoi responsabili politici all’iscrizione dei lobbisti in nel Registro, chiede ora alle altre istituzioni di fare altrettanto. A detta di Timmermans l’iniziativa ha il merito di meglio definire coloro che dovranno effettuare iscrizione al Registro (art. 2) e coloro che non dovranno (art. 4), specificare in cosa consistono le attività di rappresentazione degli interessi e di pressione (art. 3). Sono poi elencate le possibili interazioni con le istituzioni subordinate alla registrazione (art. 5) con la specifica che saranno le singole istituzioni a dover monitorare circa il rispetto delle regole e a stabilire ulteriori campi di applicazione delle stesse. Saranno i soggetti che chiedono l’iscrizione al Registro a dover dimostrare di avere i requisiti essenziali per farlo (art. 6) ed indagini circa il rispetto del Codice di condotta degli iscritti saranno avviate in seguito a segnalazioni o per iniziativa stessa del Segretariato Generale delle tre istituzioni coinvolte (art. 7). Un comportamento non conforme a quanto contenuto nel Codice di condotta potrà portare ad una sospensione temporanea degli iscritti o alla loro rimozione definitiva dal Registro. L’adozione di un Registro per la trasparenza è consigliata, poi, ad altri Uffici e Istituzioni dell’Unione Europea ma anche alle Rappresentanze Permanenti presso l’UE.
La proposta presentata da Timmermans, al di là delle dichiarazioni di facciata o dei buoni propositi, ha già suscitato le prime reazioni non propriamente positive da parte degli osservatori che speravano in un effettivo cambio di marcia da parte della Commissione. Quanto contenuto nella proposta viene considerato solo un piccolo passo per rendere davvero trasparente il processo di formazione delle policy e accessibile a cittadini e stampa il lavoro delle lobby aziendali. Tra le altre cose si ritiene che anche il nuovo Registro, se gestito come indicato nell’attuale proposta di accordo, possa lasciare campo libero a lobbisti non registrati grazie ad una obbligatorietà solo nominale dell’iscrizione. Senza dimenticare, poi, tra le critiche mosse di recente alle istituzioni europee, i casi scottanti che hanno riguardato l’ex Commissaria Neelie Kroes e soprattutto l’ex Presidente della Commissione Barroso. Chiamato a rispondere su questi due casi, il vice Presidente Timmermans ha affermato che il Presidente Juncker sta esaminando i casi in questione per accertare prima i fatti e poi capire se agire nel modo più opportuno.
A fine agosto la Commissione europea ha ordinato ad Apple di pagare 13 miliardi di euro per tasse arretrate, non pagate perché la società di Cupertino avrebbe goduto di aiuti di Stato da parte del governo irlandese. Dublino, che assicura già a tutte le società con il proprio quartier generale in Irlanda un’aliquota fiscale massima del 12,5%, avrebbe garantito ad Apple una tassazione che è scesa dall'1% del 2003 allo 0,005% nel 2014 sui profitti di Apple Sales International.
(Alessio Samele) Prima di Apple, le istituzioni europee avevano multato già altre grandi società americane e la Commissione ha portato avanti una serie di norme e di indagini volte ad modificare il comportamento delle grandi imprese di internet con base negli Stati Uniti. Frank R. Baumgartner, professore all’Università della Nord Carolina, ha dichiarato che “la Commissione europea è diventata il nuovo centro di gravità, la più grande minaccia per le grandi aziende che potrebbero avere problemi di antitrust”. Nel 2004 fu l’allora commissario alla concorrenza, Mario Monti, a scagliarsi contro Microsoft che dovette pagare 497 milioni di multa per posizione dominante.
L’entità della sanzione per Apple è senza precedenti e la società di Cupertino farà ricorso. Stando, però, a quanto scrive il Wall Street Journal, la battaglia di Apple contro la Commissione Juncker viene portata avanti senza la consulenza di lobbisti e campagne di lobbying. Se guardiamo ai dati del 2015, la concorrente Google di Alphabet avrebbe speso almeno 4.25 milioni di euro in attività di lobbying mentre Apple si ferma a meno di 900 mila euro per influenzare le istituzioni europee con soli 5 dipendenti part-time.
Nonostante sia una delle società più influenti, attraverso questa strategia Apple non sarebbe stata in grado di recuperare informazioni sul documento d’accusa che la Commissione stava preparando a suo carico. Accade lo stesso anche negli USA: una nostra recente analisi ha rilevato come Apple preferisca risparmiare risorse in lobbying per utilizzare canali di influenza diversi rispetto alle aziende del settore. Il comportamento di Apple si pone in controtendenza rispetto a quello dei suoi competitors che al contrario hanno maturato con il tempo una presenza stabile all’interno delle istituzioni europee. Società come Alphabet, Amazon e Qualcomm hanno portato avanti azioni di lobbying per cercare di convincere la Commissione e l’antitrust UE che le loro azioni non violano le regole europee.
Alla luce della grande rilevanza politica, economica e sociale degli interessi rappresentati a Bruxelles, i soggetti che esercitano attività di lobbying all’interno dell’Unione Europea sono aumentati arrivano a superare gli Stati Uniti. Secondo Transparency International le società registrate presso le istituzioni europee sono 9756 organizzazioni contro le 9726 negli Stati Uniti. Proprio oggi, la Commissione Europea ha varato una serie di norme più restrittive per rendere più trasparente il settore del lobbying comunitario.
Il portavoce di Google, Marc Jansen, ha dichiarato al WSJ che “i politici europei hanno molte domande riguardo l’attività di Google, e stiamo lavorando per rispondere a quelle domande”. Secondo il WSJ, le società americane a Bruxelles soffrono la mancanza di una rappresentanza diretta all’interno dell’Unione. Alti funzionari della Commissione dichiarano di frequentare le aziende americane ma i lobbisti delle società europee possono influenzare i rappresentanti dei loro Stati in Parlamento europeo anche attraverso i governi nazionali o i loro commissari.
Alcuni amministratori delegati, tra cui proprio Tim Cook di Apple e Sundar Pichai di Google, nel corso del tempo sono stati a Bruxelles per chiarire le loro posizioni direttamente con il commissario antitrust dell’Unione Europea, Margrethe Vestager. In questo contesto i competitors di Apple stanno lavorando per pubblicizzare i vantaggi delle loro attività in Europa. Google, ad esempio, intraprende campagne per sostenere iniziative legate al giornalismo digitale; Amazon, invece, promuove azioni per aiutare le piccole imprese europee a vendere i loro prodotti online.