L’inizio del nuovo anno è anche il momento nel quale si fanno i bilanci di quello appena terminato. Così, il Centre for Responsive Politics, primo centro di ricerca statunitense in tema di lobbying e finanziamento della politica, ha stilato la classifica delle 50 società e gruppi industriali che hanno speso di più in attività di pressione a Washington nell’anno solare 2016. Lo scorso anno la spesa complessiva di questi gruppi ha toccato quota 716 milioni di dollari (1 milione in più rispetto al 2015) pari a circa un quarto di quanto tutti i gruppi industriali e le aziende hanno speso negli Stati Uniti per influenzare le politiche federali.
Ai primi 5 posti troviamo la Camera di Commercio degli Stati Uniti, l’Associazione Nazionale degli Agenti immobiliari, Blue Cross Blue Shield (federazione di 36 compagnie di assicurazioni sanitarie), la American Hospital Association (associazione di professionisti del settore sanitario) e la Pharmaceutical Research and Manufacturers of America che rappresenta le principali compagnie americane della ricerca farmaceutica. Nella top 10 troviamo Boeing, la compagnia telefonica AT&T e l’Associazione Nazionale delle emittenti radiotelevisive.
Come già segnalato, l’attività di influenza del decisore pubblico a Washington è tenuta in grande considerazione presso i gruppi industriali statunitensi che si spingono ad assumere lobbisti per delineare l’agenda politica. Ma è anche vero che allo stesso tempo l’opinione pubblica non ha la medesima considerazione dei cosiddetti special interests che rendono torbido il policymaking. Il successo della campagna elettorale del Presidente Trump con l’efficace slogan ‘Prosciughiamo la palude’ (Drain the swamp) ne è la plastica dimostrazione. Le prime misure della nuova amministrazione, compreso il giro di vite sul fenomeno delle revolving doors, sembrano confermare la linea dura di Trump ma, probabilmente, solo all’apparenza.
Alla base di una così massiccia spesa in attività di pressione vi sono le battaglie legate ai temi caldi dell’agenda politica americana (Amazon ha speso il 20% in più rispetto al 2015) ma anche, ovviamente, le elezioni presidenziali. La Camera di Commercio degli Stati Uniti e l’Associazione Nazionale degli Agenti immobiliari, per citare le prime due della classifica, hanno incluso nei loro lobbying reports anche le spese legate alla campagna elettorale, quelle per le campagne pubblicitarie ad esempio, e hanno sborsato per tali attività rispettivamente 104 e 65 milioni di dollari.
Non sono pochi, ovviamente, i casi di gruppi che nel 2016 hanno speso meno per influenzare Washington. Tra questi l’Associazione Nazionale degli industriali della manifattura che nel 2015 è stata particolarmente attiva nel favorire l’approvazione del TPP e che nel 2016 non ha avuto la medesima necessità. Hanno speso meno del 2015 anche Qualcomm, American Petroleum Institute, America’s Health Insurance Plans. Spicca la diminuzione dell’esborso per attività di lobbying fatta registrare dall’azienda farmaceutica CVS Health (-60%) e da General Electric (dal 6° posto al 53°). Notevoli balzi in avanti, invece, per T-Mobile (dal 66° posto del 2015 al 42°) e AbbVie (dall’88° posto al 50°).
Qui la top 50 delle spese per attività di lobbying